TERZO MILLENNIO Verso l'Antropocrazia

La violenza contro le donne

Di Dora Quaranta

 

 

Dagli abusi in ambito domestico alla schiavitù

Per la sua particolare posizione geografica la Puglia vive da tempo ormai i drammi e i problemi di una difficile situazione: l’immigrazione clandestina. Un vero giro d’affari per la criminalità organizzata, che non ha esitato a trasformare il mare Adriatico in una sorta di autostrada di scorrimento di sigarette, droga, armi e carne umana. In tre ore a bordo di veloci gommoni i trafficanti raggiungono dall’Albania le coste pugliesi e quando sono inseguiti dalle vedette della Finanza scaraventano in mare il loro carico. Non importa se sono donne o bambini. Dai centri di accoglienza della Puglia emergono tristi racconti, come la vicenda di Patos, giovane albanese di Peshkopi, ospite del “Regina Pacis” di San Foca (Le), giunto in Italia alla ricerca di sua moglie rapita con l’intento di introdurla nel cospicuo mercato della prostituzione da parte di un responsabile albanese degli aiuti umanitari per il Kosovo. Una storia tra tante quella di Patos, che vedono tra le principali vittime proprio le donne, sfruttate, vendute come schiave e poi con la forza costrette a prostituirsi. Non è certo un caso che Bari sia stata scelta come sede per un importante convegno, svoltosi il 4 e 5 novembre scorsi, sul tema della violenza contro le donne, dagli abusi all’interno delle mura domestiche alla tratta e alla prostituzione forzata. A Bari sono convenuti i rappresentanti parlamentari dei 41 paesi membri del Consiglio d’Europa su iniziativa dell’onorevole Elisa Pozza Tasca, presidente della sottocommissione per la violenza sulle donne. Sono allarmanti i dati emersi durante due giorni di intenso dibattito. E’ la violenza la prima causa di morte e di invalidità per le donne tra i 15 e i 44 anni, più del cancro, degli incidenti stradali e persino della guerra. La violenza sulle donne non conosce confini, non risparmia nessuna nazione, è presente tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo. La violenza non fa distinzioni sociali o culturali: le vittime ed i loro oppressori appartengono a tutte le classi ed a tutti i ceti economici. Secondo le cifre diramate dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale il 20% delle donne del mondo ha subito violenze fisiche o sessuali; ogni giorno in Europa una donna su cinque subisce un’aggressione. E’ all’interno della cerchia familiare che si cela però il rischio più alto. In Gran Bretagna, ad esempio, ogni anno una donna su dieci viene picchiata a sangue dal partner; in Canada è più probabile che una donna venga uccisa dal proprio compagno che da un estraneo; in Russia un omicidio su 50 è compiuto dal marito nei confronti della moglie. Anche le progredite democrazie scandinave non sono immuni: Marianne Erickson, parlamentare europea svedese, ha dichiarato che nel suo paese ogni dieci giorni una donna muore in seguito agli abusi subiti. Una inchiesta condotta negli Stati Uniti da una rivista giuridica della facoltà di giurisprudenza di Harvard ha rivelato che ogni 15 secondi una donna viene aggredita dal proprio coniuge. In gran parte degli Stati del mondo la violenza sulle donne è considerata addirittura dalle vittime una componente naturale della società. In molti paesi in via di sviluppo quanto alla parità tra uomo e donna siamo alla preistoria. La donna è proprietà dell’uomo, un oggetto di cui disporre a proprio piacimento. Picchiare la moglie è una prerogativa maschile ancora indiscussa: in un distretto del Kenia il 42% delle donne intervistate sono percosse regolarmente dal marito; in Uganda migliaia di ragazze reclutate a forza come soldato vengono poi stuprate ed uccise; a Bangkok il 50% delle donne viene picchiato regolarmente; in India ogni anno 200 donne vengono giustiziate per stregoneria; nel 1992 nel Nepal 17 mila ragazze sono state offerte ai templi, costrette a prostituirsi; in Bangladesh si stima che siano state violentate da 250.000 a 400.000 donne. In Pakistan la donna che denuncia il suo stupratore deve presentare quattro testimoni maschi ed è impedito a lei stessa di testimoniare; se non riesce a dimostrare il reato viene incriminata per attività sessuali illecite, incarcerata o frustata pubblicamente. A Gibuti il 90% delle bambine è sottoposto a mutilazioni genitali. A questa orrenda pratica sono obbligate ogni anno nel mondo due milioni di donne, private così di qualsiasi diritto sul proprio corpo. La mutilazione genitale femminile è ancora diffusa in 28 paesi africani e in tanti altri Stati del pianeta. Le vittime mutilate con utensili d’uso comune, quali lame di rasoio, coltelli, forbici o peggio schegge di vetro, pietre appuntite e persino a morsi, sono esposte a gravi infezioni, emorragie e a future gravidanze fatali per se stesse e i loro bambini.
Per quanto riguarda la violenza domestica, definita un “nemico intimo”, i partecipanti al convegno di Bari hanno chiesto la creazione di una Carta Europea del lavoro domestico e il riconoscimento giuridico da parte di tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa del reato di violenza coniugale. L’Italia sta approvando un provvedimento importante per arginare la violenza all’interno delle mura domestiche e far sì che l’unica alternativa possibile per le donne non sia solo quella di abbandonare la propria casa, cercando rifugio altrove. Il 15 luglio 1997 l’allora Ministro per le Pari Opportunità Anna Finocchiaro ha presentato un disegno di legge che impone l’allontanamento urgente dei responsabili della violenza dal domicilio familiare e dalle vicinanze dei luoghi frequentati solitamente dalla parte lesa, nonché l’obbligo di pagare un assegno di mantenimento alla vittima ed ai figli. La misura cautelare dell’allontanamento deve essere applicata nei casi in cui la custodia in carcere non risulterebbe applicabile. In questo modo si allontana l’autore della violenza senza compromettere la possibilità di ulteriori azioni penali.

L’ABUSO SESSUALE NEI CONFLITTI ARMATI 

Sempre nella storia durante le guerre le donne hanno visto calpestati i loro più elementari diritti ed hanno dolorosamente dovuto subire l’oltraggio dello stupro e delle violenze fisiche, ma la guerra in Bosnia Erzegovina, il genocidio in Ruanda e il conflitto del Kosovo hanno mostrato una realtà ancora più amara. Se prima si poteva parlare di violenze sessuali come atti individuali ed isolati, ora è fin troppo chiaro che nelle nuove guerre lo stupro è sistematicamente usato come ARMA TATTICA e STRATEGICA, è un’azione attentamente pianificata per raggiungere uno scopo politico. I conflitti caratterizzati da feroci scontri fra etnie diverse utilizzano lo stupro in maniera estesa e sistematica per colpire l’identità di intere popolazioni, per colpire la sacralità della donna e sterminare un popolo in nome di una presunta superiorità etnica. In tale contesto la violenza sessuale è strumento per umiliare, disonorare, infamare e terrorizzare l’intero gruppo etnico. Il Tribunale Internazionale per crimini in Ruanda con apposita sentenza di condanna ha riconosciuto la violenza sessuale come arma di distruzione ed ha asserito: “il crimine di stupro costituisce genocidio, allo stesso modo di ogni altro atto commesso con l’intento di distruggere in tutto o in parte un particolare gruppo. La violenza sessuale costituisce parte integrante del processo di distruzione rivolto specificatamente alle donne di etnia tutsi e che mira alla distruzione dell’intero gruppo di etnia tutsi”.
Nel 1993 il Centro per i crimini di guerra di Zenica ha documentato in Bosnia 40 mila casi di stupro, ma le cifre reali sono ben più alte e si sospetta che anche alcuni soldati dell’Onu si siano resi responsabili di aggressioni. Non è stato ancora tracciato un resoconto dettagliato degli stupri commessi durante l’ultima guerra in Kosovo. Il Tribunale dell’Aja ne sta vagliando i riscontri. Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, intervenuta al seminario di Bari, si è recata più volte in Kosovo: “Mentre la natura e l’entità delle violenze sessuali in Kosovo - ha dichiarato - sono ancora in fase di valutazione, quello che posso personalmente dire per aver raccolto varie testimonianze è che il conflitto è stato caratterizzato da rapimenti di donne, stupri collettivi e ripetuti, imprigionamenti, torture sessuali e pagamenti di riscatti. A Kukes, nel nord dell’Albania, ho avuto occasione di parlare con molti uomini e donne rifugiati, visibilmente scossi dai traumi subiti, che mi hanno confermato tali fatti ed hanno anche aggiunto che gli aggressori, militari e paramilitari, chiedevano grosse somme di denaro, marchi tedeschi per riscattare le donne e le ragazze rapite. All’indomani dell’entrata delle truppe KFOR nel Kosovo occidentale, a Pec, ho trovato in un tugurio in condizioni disumane una ragazza paraplegica insieme a sua nonna di 90 anni. Per giorni e giorni avevano vagato entrambe, la ragazza sulla sedia a rotelle e la nonna che la spingeva, sotto la pioggia, col freddo. Nonostante il suo handicap la ragazza non ha avuto scampo dalle violenze dei serbi come tra le lacrime mi ha più tardi raccontato. Ricordo un disertore dell’esercito serbo che avvicinò il nostro ufficio a Skopje in Macedonia per una richiesta d’asilo. Le parole di quest’uomo mi hanno colpita profondamente. Ci ha confidato che dopo l’inizio dei bombardamenti Nato si intensificarono le violenze nei confronti dei civili kosovari. Le forze paramilitari catturavano gli uomini per i lavori forzati, per scavare rifugi. Le donne invece venivano catturate per essere violentate. Una donna serviva per tre, cinque e in alcuni casi per dieci soldati. Le ragazze più belle spettavano agli ufficiali, mentre le altre erano lasciate ai soldati, ai quali con le armi veniva ordinato dai loro superiori di eseguire gli stupri. Lo stesso richiedente asilo ha dovuto violentare una donna; gli avrebbero sparato in testa se non lo avesse fatto. Un giovane soldato di 20 anni che si era rifiutato di esercitare violenza è stato quasi ucciso. In circa dieci occasioni quest’uomo è stato testimone di violenze carnali commesse da individui del suo plotone”.
Secondo il rapporto dell’UNPA (United Nations Protected Areas) “lo stupro è stato il principale atto di trasgressione utilizzato dai serbi, un atto di violazione della sacralità. Violentare le donne, possederle e sfruttare totalmente il loro corpo equivaleva per i serbi ad una violenza nei confronti di tutti quegli uomini kosovari che erano irraggiungibili e nascosti sulle montagne. L’odio ancestrale e latente era esacerbato al massimo ed era dilagante tra tutti i soldati. Le donne violentate affermano di essere morte per sempre, perché sono state oggetto di profanazione totale”.
Un grosso passo avanti compiuto a livello giuridico per porre fine all’impunità dei responsabili di gravi violenze contro le donne durante i conflitti armati, oltre all’avvenuta creazione nel ‘93 del Tribunale Internazionale per i crimini della ex Jugoslavia e del Tribunale Internazionale per i crimini in Ruanda nel ‘94, è stato l’adozione dello Statuto per la futura creazione della Corte Penale Internazionale a Roma nel luglio ‘98. Lo Statuto prescrive esplicitamente che lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata e qualsiasi altra forma di violenza di tale gravità costituiscono un crimine contro l’umanità quando sono commessi come attacco sistematico su vasta scala contro qualsiasi popolazione civile. Un ruolo importante spetta naturalmente ai singoli Stati che non solo devono ricercare e consegnare alla giustizia internazionale tali criminali, ma anche assicurare la dovuta protezione alle donne vittime di violenze in contesti di guerra, aprendo le frontiere e riconoscendo loro il diritto d’asilo. Alcuni governi purtroppo per timore di aprire le loro frontiere rifiutano di concedere asilo alle vittime di stupri in contesti bellici, appellandosi al fatto che nella Convenzione di Ginevra del ‘51 per quanto riguarda la definizione di rifugiato si fa riferimento solo a persecuzioni per opinioni politiche, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale; non compare il termine “sesso”. E’ senza dubbio una lettura volutamente strumentale del testo della Convenzione.

LA TRATTA DELLE DONNE E LA PROSTITUZIONE FORZATA

In questo esame delle varie forme di violenza contro le donne vi è un ultimo aspetto da considerare, quello delle donne vittime del traffico di esseri umani, divenuto ormai la terza fonte di guadagno, dopo le armi e la droga, del cosiddetto “male pubblico globale”, ossia la rete mondiale delle mafie. Si tratta di un fenomeno ancora largamente sconosciuto al grande pubblico, ma sempre più in costante espansione per gli elevatissimi proventi che produce. 
Una delle più grandi conquiste del progresso è stata l’abolizione della schiavitù nel corso dell’800 e la sua messa al bando da tutti gli ordinamenti giuridici. Questo ci insegnano nelle scuole, ma è una falsità. La parola “schiavitù” evoca nella maggioranza della gente le immagini dello schiavo africano incatenato, dei galeoni con le vele spiegate in viaggio verso gli Stati Uniti o il Brasile, delle piantagioni di cotone. Pochi sanno che in realtà la schiavitù esiste ancora. E’ solo scomparsa come condizione giuridica, non come condizione di fatto. L’asservimento si manifesta ora in forme diverse, ma altrettanto brutali. Le dimensioni dell’attuale schiavitù fanno impallidire le cifre del passato: alcuni studiosi statunitensi che hanno esaminato i registri e i documenti sulla tratta degli esseri umani tra l’Africa e il Nuovo Mondo hanno calcolato che le vittime di quel traffico non superavano i 12 milioni di persone nell’arco di quattro secoli. In meno di trent’anni, dall’inizio degli anni ‘70 ad oggi, la sola compravendita di donne e bambini destinati all’asservimento sessuale in Asia è stimata ammontare a circa 30 milioni di individui. La nuova tratta di donne e bambini schiavi del mercato del sesso è fiorente in tutti i luoghi del pianeta: dai villaggi della Malesia alle città giapponesi, dalle periferie delle megalopoli brasiliane alle province italiane, dalla Cina al Canada. Sono migliaia nel mondo le giovani donne comprate e vendute attraverso cataloghi, mercati di piazza, per mezzo di inserzioni sui giornali o vendute direttamente dal padre, dal marito o dal fratello-padrone. In alcuni casi le ragazze sono vittime di rapimenti, in altri casi sono circuite da coetanei che fingono di fidanzarsi con loro e di progettare una vita nuova in un paese straniero. Accade anche che sono loro stesse a partire volontariamente, attratte dalle promesse di un lavoro ben pagato come cameriera, ragazza alla pari o colf nei ricchi paesi dell’Occidente. Quello che purtroppo non sanno è l’inferno che le attende. Il copione è sempre lo stesso: il lavoro o il matrimonio sperato in realtà non esiste e private della libertà sono costrette, con violenze fisiche e sotto la pressione continua di minacce di ritorsione sulle loro famiglie, a prostituirsi per rimborsare al trafficante un debito ingente che avrebbero contratto per le spese di viaggio, i documenti, vitto, alloggio, oltre agli interessi usurari. Altre ragazze sono obbligate a restituire tre volte il prezzo pagato dai padroni per il loro acquisto. Attraverso il ricatto del debito i trafficanti riescono a prolungare quasi all’infinito la dipendenza delle donne. Non mancano vittime costrette a centinaia di prestazioni sessuali prima di essere rivendute ad un prezzo più basso ad un circolo inferiore di prostituzione e quindi obbligate a ricominciare il ciclo del debito. Si tratta di un business miliardario che controlla il flusso del turismo sessuale verso i paesi più poveri e l’importazione coatta di materia prima in quelli più ricchi. I lucrosi proventi sono successivamente reimpiegati in attività illegali ancora più redditizie: traffico di stupefacenti, armi ed esplosivi. Il tutto è gestito da gruppi criminali di varia estrazione. Tra essi vi sono alcune delle più potenti e famose organizzazioni malavitose del mondo, come la Yakuza giapponese, le Triadi cinesi e la mafia russa.
Per quanto riguarda l’Europa, secondo Frank Laczko, esperto incaricato della lotta contro la tratta degli esseri umani presso l’ufficio viennese dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), sono 500.000 le giovani donne provenienti dall’Est sfruttate contro la loro volontà nei mercati del sesso dell’Europa occidentale. Polonia, Ucraina, Russia, Bielorussia, Ungheria, Repubblica Ceca, Albania nessuno dei paesi dell’Est Europa sfugge alla tratta delle donne. Dopo il crollo del blocco comunista nel 1989 le reti del racket hanno cominciato il reclutamento su vasta scala, approfittando dell’impoverimento delle popolazioni di questi paesi e della loro destabilizzazione politica. Le principali destinazioni di questo traffico sono la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Francia nella zona della costa azzurra, a cui si affiancano Italia, Svizzera, Paesi Scandinavi. In Germania esistono oltre duecento agenzie matrimoniali semiclandestine che importano “spose” che poi, private dei documenti, sono vendute come schiave e sottoposte senza via di scampo ai soprusi di chi le ha comprate. Poiché queste agenzie fanno miliardi, il loro numero si moltiplica. A Kiev vi sono agenzie di viaggi dall’apparenza prestigiosa che ingannano tante giovani con false offerte di lavoro per modelle, ballerine o cameriere. La tratta delle donne è resa possibile dalla disponibilità di un numero inesauribile di documenti falsi, dalla quantità di basi, di macchine e di soldi che questi criminali possiedono e da connivenze con poliziotti che essi cercano in ogni modo di creare. Le organizzazioni sono ben strutturate al loro interno con una precisa divisione di ruoli: chi aggancia o rapisce la vittima, chi la controlla nel viaggio, chi trova gli alloggi, chi la segue nel lavoro e chi riscuote i proventi. Sottopongono le loro vittime a continui spostamenti su e giù per l’Europa, sia per evitare di essere individuati dalle indagini delle forze dell’ordine, sia per rendere più difficile la fuga delle schiave.
“….No, non sono stata una prostituta….sono stata una schiava….comprata e venduta per sette volte! Ogni volta prelevata e portata via senza una parola di spiegazione, come fossi una scatola vuota, un sacco di patate, un chilo di manzo appena macellato….” Sono le parole di Lijuba Karinetà, lituana di diciannove anni, pronunciate nell’aula del Tribunale penale di Roma e raccolte da due giornaliste, Emanuela Moroli e Roberta Sibona, autrici del libro Schiave d’Occidente di recente pubblicazione. Accanto alla storia di Lijuba il libro contiene altre testimonianze, altre storie di sevizie continue (scosse elettriche, amputazione delle dita degli arti superiori ed inferiori, ecc…), praticate al fine di ottenere corpi addestrati ed obbedienti, identità disintegrate, personalità annullate. Miriam Malokova, cecoslovacca, racconta di essere stata venduta a Teplice dal marito, padre della sua bambina. Privata della libertà, ridotta a merce di scambio, venduta e comprata più volte attraverso mezza Europa, pestata, affamata e costretta con il terrore a prostituirsi ad un ritmo insostenibile. Ogni notte doveva consegnare un milione e mezzo, altrimenti botte, fame e dormire all’addiaccio. Le ragazze albanesi liberate dalle forze dell’ordine dai loro aguzzini difficilmente possono fare ritorno in patria. Teuta, portata via dall’Albania in Italia con l’alibi di un lavoro a domicilio, fu liberata da un blitz della polizia in una casa sulla Prenestina. La madre, invece di gioire per aver ritrovato la figlia, fu irremovibile: mai e poi mai l’avrebbe ripresa con sé. Nella cultura albanese vige la legge patriarcale; la donna non è considerata un valore per la società. Quando una ragazza esce dalla casa dei genitori con un uomo viene ritenuta a tutti gli effetti sposata e non deve più rientrare senza di lui. Qual è la risposta delle Istituzioni al dilagare del fenomeno della tratta?
Gli sforzi dell’Unione Europea purtroppo non sono ancora sufficienti per contrastare adeguatamente il problema. Soltanto 1,3 milioni di euro l’anno sono stati previsti tra il 1996 e il 2000 per il programma “Stop”, che lotta contro il traffico degli esseri umani. Alcuni milioni di euro sono stati stanziati per i programmi di aiuti ai paesi dell’Europa centrale e orientale e agli Stati dell’ex Unione Sovietica. Inoltre l’OIM lamenta che le pene comminate ai trafficanti sono decisamente irrisorie. Il Trattato di Maastricht fin dal 1991 ha deciso la creazione dell’Europol, l’ufficio europeo delle polizie. Si è dovuto attendere il 1997 perché il campo delle sue competenze fosse esteso alla tratta degli esseri umani. Soltanto dal 1998 la polizia criminale dell’Europol ha a disposizione mezzi operativi. Si prevede per il 2000 l’adozione della nuova Convenzione delle Nazioni Unite contro il “crimine transazionale”. Due dei protocolli aggiuntivi alla Convenzione sono specificatamente rivolti al traffico di persone, in particolare di donne e bambini. Inoltre nello Statuto dell’istituenda Corte Penale Internazionale è stato inserito come crimine contro l’umanità la “riduzione in schiavitù, in particolare delle donne e dei bambini, nel traffico internazionale di persone”. 
In Italia alla Camera dei Deputati è in corso di approvazione un provvedimento presentato dall’on. Elisa Pozza Tasca che estende la legislazione antimafia ai trafficanti e sanziona tutti coloro che ruotano intorno al traffico degli esseri umani, che, pur non facendo parte delle organizzazioni malavitose, rendono possibile la tratta. Basti pensare ai tassisti, che permettono la dislocazione delle ragazze appena sbarcate; agli albergatori, che garantiscono alloggio e copertura ai criminali; a quella fascia di persone che “omettono di prestare soccorso”. Molte ragazze, che poi da sole hanno trovato il coraggio di denunciare i propri schiavisti, hanno raccontato di aver supplicato i loro clienti non di accompagnarle alla polizia, ma almeno in un posto lontano dal loro territorio. Gli uomini si sono sempre rifiutati per paura di eventuali coinvolgimenti e si sono sempre dileguati dopo aver preteso le prestazioni pattuite. “Se è omissione di soccorso - ha sottolineato l’on. Pozza Tasca durante il convegno di Bari - non prestare assistenza ad una persona che ha avuto un incidente ed è sulla strada e chiede aiuto, allo stesso modo deve essere considerato un reato non soccorrere le donne che sono sulla strada perché obbligate a prostituirsi. Ho visto una quattordicenne albanese liberata dopo tre anni di prostituzione forzata. Sembrava una bambina di dieci anni, perché le giovani albanesi dimostrano meno dell’età che hanno. Per tre anni ha chiesto a tanti uomini di essere aiutata. Per tre anni nessuno lo ha mai fatto. Possibile anche che la polizia non si sia mai accorta di lei?”
La tratta e la prostituzione forzata non si possono combattere solo con la repressione. Ogni cittadino deve sapere che usando le schiave diventa partecipe di un crimine e va ad alimentare un turpe mercato che senza domanda non ci sarebbe. A questo punto ogni cittadino deve interrogarsi: perché mai nel 2000 c’è ancora tanta esigenza di sesso a pagamento?

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