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La nostra economia è
per la maggiore controllata da poche e potentissime multinazionali che si spartiscono la
produzione dei beni di più largo consumo. I loro fatturati sono miliardari e stridono
inaccettabilmente con condizioni di vita disumane a cui è costretto il sud del mondo,
luogo di provenienza della quasi totalità delle merci commercializzate da questi colossi
nel nord del mondo.
Bambini schiavi, condannati a lavorare 16 ore al giorno in ambienti malsani, denutriti,
maltrattati, o intere famiglie povere raggirate e derubate dei loro pochi averi ridotte in
condizione di debiti eterni; i risultati del loro sfruttamento sono nei nostri negozi e
supermercati. Gli unici a trarne vantaggio però sono i grossi gruppi economici che di
guadagnare di più sulla pelle dei più deboli non avrebbero proprio bisogno. Vi sono poi
alcune ditte dalla propaganda casalinga dietro alle quali in realtà si celano
comproprietà con le fabbriche di armi, magari le stesse che sponsorizzano in TV la
raccolta fondi per le vittime dellultima tragica guerra.
Anche se il cittadino più sensibile si indigna di fronte a certe brutali notizie
raramente trasmesse dai mezzi di informazione, il senso di impotenza e la conseguente
rassegnazione lo pongono in uno stato di forzata indifferenza. In effetti cosa potrebbe
fare un padre di famiglia impegnato tutto il giorno a faticare per consentire ai suoi cari
di vivere una vita più decorosa possibile, o una mamma, magari costretta ad organizzarsi
in mille modi per crescere i figli e per contribuire alle entrate mensili?
Molto più di quanto non si creda.
Con il processo di globalizzazione di giorno in giorno sempre più incalzante, ogni
abitante dei paesi più sviluppati perde la sua connotazione di uomo o donna e diviene
il consumatore. Pubblicità, sempre più belle, accattivanti, artistiche,
colorate ci trasformano in redditizi acquirenti e nulla più. Se da una parte questa è la
forza delle grosse multinazionali, è anche la loro debolezza.
Infatti questa condizione ci conferisce un potere immenso, solo che ancora non sappiamo
come utilizzarlo. Il nome specifico di questa arma non letale è: boicottaggio.
Erroneamente si crede che questo metodo non possa influire minimamente sulletica di
queste aziende. Non vi è niente di più falso.
La dimostrazione ci viene dalle numerose testimonianze riportate in un libro dal titolo
Manuale per il consumo responsabile il cui autore, Francesco Gesualdi,
illustra le varie battaglie svolte dal Centro nuovo modello di sviluppo e da
altre organizzazioni internazionali al fine di fare assumere ai signori delleconomia
le loro responsabilità e un comportamento conseguentemente più corretto.
Non acquistare i prodotti di queste aziende e aderire alle campagne di protesta in cui si
esprime il proprio disaccordo può contribuire notevolmente al cambio di una politica
aziendale. Se infatti pensiamo alle tremende strategie di guerra, osserviamo che uno dei
mezzi più feroci e spietati è lembargo, ossia una specie di boicottaggio basato
sullisolamento di un determinato prodotto di esportazione.
In fondo lunico interesse è quello di vendere e ricavare, se una pubblicità
negativa danneggia limmagine dellazienda, la perdita in termini finanziari è
notevole, ma ancora più forte sarà la mancanza di acquirenti.
Quindi il nostro potere per schierarci dalla parte dei bambini e delle famiglie sfruttati,
prima di tutto dai loro governi e poi ancor più vergognosamente dai nostri bei produttori
di marche, è tanto. Non serve compiangere le situazioni strappalacrime che di tanto in
tanto ci vengono proposte, questi popoli non hanno bisogno di pena, hanno bisogno di
azioni concrete che devono riflettersi anche nella nostra capacità di limitare i nostri
consumi divenuti esagerati a causa del continuo martellamento massmediatico a cui siamo
sottoposti. Siamo uomini e donne come lo sono gli abitanti dellIndia,
dellAfrica, dellAmerica Latina e di tutti quei paesi che tristemente
costituiscono il Sud del Mondo per una precisa politica di sottomissione, e non burattini
da stra-vestire, stra-ingozzare, stra-manipolare. I mezzi per dimostrarlo ci sono.
Quanto segue è il testo integrale della campagna che il Centro nuovo modello di
sviluppo ha organizzato contro i prodotti Del Monte per i numerosi motivi che
leggerete. Aderire è il primo passo.
COME E NATA LA CAMPAGNA...
Ci occupiamo di multinazionali e di diritti dei lavoratori perché
sappiamo che gli squilibri internazionali e la povertà dellAfrica, Asia, America
Latina passano attraverso il pagamento di salari indegni, lespulsione dei contadini
dalle loro terre per far posto ai prodotti per lesportazione, luso di
pesticidi pericolosi per la gente e per lambiente.
Ma sappiamo anche che questo stato di cose può cambiare se consumatori del Nord e
lavoratori del Sud si alleano fra loro per lottare insieme contro le multinazionali che
sfruttano, contro i governi tiranni e contro le istituzioni internazionali che impongono
al mondo regole economiche assassine.
Per ironia della sorte, la globalizzazione ha favorito questo genere di alleanze e ci ha
dato la possibilità di organizzare varie campagne a sostegno dei diritti dei lavoratori,
dei bambini, delle donne del Sud. Ma ogni volta ci dispiaceva costatare che lAfrica
rimaneva la grande esclusa da queste lotte, pur essendo il continente che porta i segni
più profondi di uneconomia mondiale che oggi, più che mai, è di tipo coloniale.
Così è stato finché non abbiamo deciso di occuparci di frutta tropicale. Allora abbiamo
scoperto che Del Monte ha una piantagione di ananas proprio in Kenya dove vive padre Alex
Zanotelli, punto di riferimento per tutti i gruppi italiani che rifiutano lattuale
disordine economico internazionale.
Abbiamo chiesto a padre Alex di darci una mano e dopo due anni di pazienti ricerche siamo
riusciti a farci un quadro della situazione esistente dentro la piantagione. Un quadro
purtroppo desolante che richiede uniniziativa da parte nostra. Per questo,
daccordo con il sindacato degli alimentaristi del Kenya e con la locale Commissione
per i diritti umani, abbiamo organizzato la campagna Diciamo no alluomo Del
Monte.
...E COME E ORGANIZZATA
La campagna è una tipica campagna di pressione che si concretizza
attraverso linvio di una cartolina a Sergio Cragnotti. Ma non solo. Visti i legami
che Del Monte ha sia con le catene dei supermercati che col mondo sportivo, la campagna si
rivolge anche a Coop e allAssociazione Calciatori.
A Coop, che vende con marchio proprio ananas provenienti dalla piantagione incriminata, è
richiesto di compiere passi concreti per fare cambiare il comportamento di Del Monte.
AllAssociazione Calciatori, che deve tutelare la reputazione dei calciatori, è
richiesto di attivarsi affinché le società sportive si dotino di un codice di condotta
che le impegnino ad accettare sponsorizzazioni solo da imprese che dimostrino di
rispettare lambiente e i fondamentali diritti dei lavoratori.
La campagna, oltre ad essere sostenuta da numerose associazioni italiane, è adottata
dalla Rete di Lilliput, vari gruppi legati fra loro dalla volontà di lottare contro le
più gravi forme di oppressione economica per costruire uneconomia di giustizia.
GLI ANANAS DALLA PIANTAGIONE AL SUPERMERCATO
Dopo le banane, il frutto tropicale più consumato in Europa è
lananas, anchesso prodotto nelle peggiori condizioni di lavoro.
Una delle più vaste piantagioni di ananas si trova in Kenya, nei dintorni di Thika, una
cittadina ad una cinquantina di chilometri a nord di Nairobi. La sua estensione è di
circa 5.000 ettari (corrispondenti ad un quadrato 7x7) vigilati da un nutrito corpo di
guardie interne dotate di cavalli, jeep, cani e armi. Nella piantagione lavorano 4-5.000
braccianti che si avvicendano nelle mansioni più varie per garantire un raccolto stabile
lungo tutto lanno. Il 60% della manodopera è maschile.
Il totale degli ananas raccolti è circa 300.000 tonnellate allanno, ma solo un
piccolo quantitativo è venduto allo stato fresco. Ben il 98% è convogliato verso la
fabbrica di trasformazione situata al centro della piantagione. Qui, grazie al lavoro di
2.000 persone - per il 70% donne - gli ananas sono lavati, sbucciati, svuotati del torsolo
e inscatolati.
Dopo la saldatura, le scatole passano alla sterilizzazione e poi via sui camion per essere
trasportati a Mombasa, da dove salpano per lEuropa, lAmerica, il Giappone.
Nei paesi di arrivo le scatole sono avviate direttamente ai magazzini dei supermercati
perché non hanno bisogno di ulteriori lavorazioni. Da Thika partono addirittura con
letichetta già incollata recante il marchio dellimpresa finale: Del Monte,
COOP, Mission, Soleado, Tesori dellArca.
Oltre alle fette di ananas, nella fabbrica di Thika si produce anche succo ottenuto dalla
spremitura delle bucce e dei torsoli. Una volta pronto, il succo è inserito in fusti di
260 litri successivamente surgelati. Poi, attraverso camion e navi frigorifero, il succo
è avviato alle fabbriche conserviere europee e americane che penseranno a diluirlo e a
sistemarlo in cartoni di piccolo taglio per la vendita al dettaglio. Così si conclude il
viaggio dellananas e dei suoi sottoprodotti.
DAGLI AMERICANI A CRAGNOTTI
La società che possiede il complesso produttivo di Thika si
chiama Del Monte Kenya, una società che dalla sua nascita ad oggi è passata varie volte
di mano.
Fondata nel 1965 dalla Del Monte Corporation, la famosa multinazionale americana
produttrice di banane, nel 1989 venne messa in vendita assieme a molte altre proprietà
Del Monte dalla cui frantumazione nacquero Del Monte Fresh Produce, specializzata nella
produzione di banane e altra frutta fresca proveniente dallAmerica Latina; Del Monte
Foods Corporation, specializzata nella conservazione di frutta e verdura destinata al
mercato statunitense; Del Monte Royal, specializzata nella produzione di ananas ed altra
frutta conservata con siti produttivi in Europa, Africa, Filippine e America Latina.
In conclusione Del Monte Kenya finì a Del Monte Royal controllata da due famiglie sud
africane (Oppenheimer e Immerman) che possedevano ciascuna il 30% della proprietà, mentre
il rimanente 40% era frantumato fra molti piccoli azionisti.
Nel luglio 1998 Oppenheimer decise di staccarsi da Del Monte Royal e vendette la sua quota
a Cirio, una società controllata da Sergio Cragnotti. Più tardi Cragnotti fece
rastrellare anche il 40% posseduto da piccoli azionisti e divenne, così, luomo più
influente allinterno di Del Monte Royal.
E interessante notare che tramite la Cirio, Cragnotti, controlla anche la società
sportiva Lazio i cui sponsor ufficiali, naturalmente, sono Del Monte e Cirio.
SERGIO CRAGNOTTI: UOMO DEL MONTE
Sergio Cragnotti, classe 1940, per la posizione che ha, è
luomo Del Monte dellananas. Assunto come contabile negli anni 60 presso
la Calce e cementi Segni, la sua grande occasione si presentò nel 1970 quando venne
spedito in Brasile con il compito di seguire unaltra società del gruppo: la Cemento
Santa Rita. Ma la vera svolta avvenne più tardi quando la Santa Rita venne comprata dal
gruppo Ferruzzi. Il Cragnotti brasiliano si ritrovò così alla testa di un piccolo impero
che oltre al cemento aveva come punto di forza la Agro Pecuara Mogno, una fazenda grande
quasi come la Liguria.
Cragnotti si affermò dentro la Ferruzzi e nel 1980 venne mandato in Francia per condurre
loperazione che avrebbe annesso la Beghin Say alla Montedison, colosso appartenente
allimpero Ferruzzi. Dopo questa vittoria, Cragnotti divenne braccio destro di Raul
Gardini, il nuovo amministratore delegato della Ferruzzi che si tolse la vita nel 1993.
Cragnotti passò gli ultimi anni nellimpero Ferruzzi come amministratore delegato
dellEnimont, la mega alleanza chimica fra Montedison e Eni.
Poi, nel 1991, quando si accorse che tutto stava crollando, abbandonò la Ferruzzi e si
mise in proprio comprando diverse celebri aziende dell agroalimentare italiano:
Polenghi, Aia, Cirio, De Rica.
Il resto è storia dei nostri giorni. Ristrutturato il suo impero alimentare portando
tutto sotto Cirio, Cragnotti vende alla Parmalat le attività legate al latte e acquista
Del Monte per costruire un grande polo della frutta conservata.
Il passato di Cragnotti non è del tutto limpido. Uno dei periodi più oscuri riguarda
quello in cui fu alla testa dellEnimont. Coinvolto nellindagine sui fondi neri
Ferruzzi, nel 1994 Cragnotti patteggiò la pena: 10 mesi di reclusione.
Ma i suoi guai giudiziari non sono ancora finiti. Nel gennaio 1999 la procura di Perugia
ha chiesto il suo rinvio a giudizio con laccusa di associazione per delinquere
finalizzata alla corruzione anche in atti giudiziari, per fatti ancora connessi con le
tangenti Enimont. Nellottobre 1999 la procura di Roma lha iscritto nel
registro degli indagati per verificare se abbia avuto qualche ruolo nel fallimento di
unimpresa immobiliare romana.
PESTICIDI
Del Monte non possiede la terra su cui coltiva gli ananas perché
per legge è del governo. Del resto a Del Monte la terra non interessa, anzi non la vuole
proprio perché sa che quando la restituirà, sarà così inquinata e così esausta che
per un bel po non sarà buona a nulla.
Da quando è iniziata la produzione di ananas, infatti, la parola dordine di ogni
proprietario di turno è sempre stata la stessa: Ottenere la massima resa
possibile!
Il che ha sempre significato lutilizzo massiccio di grandi quantità di pesticidi e
fertilizzanti.
Fra erbicidi, insetticidi e funghicidi, larmamentario chimico di Del Monte oggi
comprende una ventina di prodotti molti dei quali appartengono alla I° e II° categoria
della classificazione elaborata dallOrganizzazione Mondiale della Sanità in base al
grado di tossicità. Alcuni esempi sono il Nemacur, il Temik, il Telone, il Vydate, il
Diazinon, il Gramexone e altri ancora. Tali sostanze, oltre a poter provocare nel tempo
tumori, sterilità e malformazioni fetali, possono provocare intossicazioni acute con
danni ai polmoni, al fegato, ai reni, al sistema nervoso.
Tutti gli anni nel Sud del mondo si verificano milioni di casi di intossicazione perché i
pesticidi sono manipolati senza le dovute precauzioni.
Per questo la FAO, lorganismo delle Nazioni Unite per lagricoltura, sconsiglia
limpiego dei prodotti più pericolosi nei paesi del Sud. Naturalmente la
preoccupazione della FAO è per i piccoli contadini che non sapendo né leggere né
scrivere, non possono informarsi sulla pericolosità dei prodotti. I timori non sono certo
per i dipendenti delle multinazionali, strutture così potenti che dispongono di tutti i
mezzi per istruire i propri lavoratori e dotarli di un adeguato vestiario protettivo. Ma
in molti casi ciò non avviene, perché la bramosia di risparmiare, associata ad una buona
dose di disprezzo sociale, induce molte imprese a mandare allo sbaraglio i braccianti
africani, asiatici e latino americani.
Nel caso delle piantagioni Del Monte in Kenya, non sono mai stati organizzati corsi per
informare i braccianti sulla pericolosità dei pesticidi e non vengono utilizzate le
stesse precauzioni e le stesse misure protettive e sanitarie utilizzate nei paesi
industrializzati.
Purtroppo in Kenya la medicina del lavoro è poco sviluppata e non esistono studi
sullincidenza dei tumori, delle malformazioni congenite e delle altre malattie che i
pesticidi possono provocare alla popolazione di Thika e soprattutto ai lavoratori. Ma è
significativo che negli ultimi due anni siano morti quattro dipendenti Del Monte per
tumore alla gola. Lultimo episodio è del giugno del 1999. E altrettanto
significativo che tali persone avessero lavorato nel reparto manutenzione, dove si
riparano le autobotti, e nel reparto che esegue i trattamenti fitosanitari.
Naturalmente a nessuna delle vittime è mai stata riconosciuta la malattia professionale e
le loro famiglie non hanno mai ottenuto un indennizzo.
I SENZA TERRA
Lagricoltura basata sulla chimica intensiva non è dannosa
solo per i lavoratori e per la popolazione, ma anche per la terra che alla lunga si
deteriora a tal punto da diventare improduttiva nonostante lo spargimento di fertilizzanti
in dosi crescenti.
Per questo ogni tanto Del Monte ha bisogno di espandersi su nuove terre con effetti
sociali disastrosi. Il fatto è che le terre circostanti non sono abbandonate, ma occupate
da contadini che da generazioni coltivano per sfamare le loro famiglie. Così ogni nuova
decisione di espansione da parte di Del Monte si traduce, inevitabilmente, nella creazione
di senza terra ossia di nuovi impoveriti che non possono provvedere a se stessi.
Lultima operazione del genere avvenne nel 1990 e costò lespulsione a una
cinquantina di famiglie che oltre a perdere la terra rimasero vittime di una truffa
colossale orchestrata alle loro spalle da alcuni funzionari governativi che riuscirono a
impossessarsi di tutti i loro risparmi dietro la promessa di terre inesistenti.
Questa è la storia drammatica comune a molti senza terra che non sapendo più dove
battere la testa cercano rifugio nelle baraccopoli così diffuse in tutte le città
africane, asiatiche e latino americane.
Anche attorno a Thika si sono formati veri baraccamenti popolati da gente che tutte le
mattine si alza senza sapere come guadagnare un piatto di minestra per se e per i propri
familiari. Ridotti alla disperazione sono disposti a qualsiasi lavoro, a qualsiasi
condizione, e Del Monte se ne approfitta!
SALARI INDEGNI
Il numero di persone che lavora alla Del Monte non è costante,
perché la parola dordine della multinazionale è flessibilità, ossia
adeguamento del personale alle esigenze produttive.
In effetti presso Del Monte Kenya si può essere assunti sotto tre diverse forme: come
permanenti, come discontinui o come avventizi.
Nel primo caso il rapporto di lavoro è a tempo pieno per un periodo indeterminato, ma
quando cè poco lavoro si può essere lasciati a casa. Generalmente i discontinui
lavorano il 75% dellanno.
Nel terzo caso lassunzione è limitata ad una settimana o addirittura a una
giornata. Non a caso ogni mattina alla Del Monte si presenta una grande quantità di
persone per sentire se cè lavoro temporaneo per loro.
A prima vista la differenza fra le tre categorie si limita alla stabilità del rapporto di
lavoro. Ma a ben guardare è molto più ampia ed è legata alla forza contrattuale. I
permanenti sono quelli che godono delle migliori condizioni. Benché possano essere
licenziati con molta facilità, sono coperti da un contratto e godono di ferie, di
indennità di malattia, di un contributo per laffitto della casa e perfino del
trattamento di fine rapporto.
Anche i discontinui sono coperti da contratto ma per il solo fatto di trovarsi in una
condizione di maggiore precarietà riscuotono un salario più basso e non hanno diritto al
trattamento di fine rapporto.
Quanto agli avventizi, non sono coperti da contratto e non godono di nessuna indennità.
Il fatto è che sono troppo deboli per organizzarsi, perciò devono accontentarsi della
paga oraria, nuda e cruda, stabilita dallazienda.
Nessuna delle tre categorie riscuote un salario sufficiente per coprire le necessità di
base della propria famiglia, che in media in Kenya è composta da sei persone. Ma la
situazione degli avventisti è la più drammatica. Qualora lavorassero per quattro
settimane di fila si porterebbero a casa solo 2.300 scellini (ossia 69.000 lire)
sufficienti a coprire appena il 20% del fabbisogno mensile di base di una famiglia.
In effetti il salario che Del Monte paga gli avventizi è di 12 scellini lora (360
lire) corrispondente al prezzo di una coppia di uova. Se fossero pagati in natura, gli
avventizi si porterebbero a casa appena 3 kg di farina di mais al giorno in cambio di nove
ore di lavoro.
Ciò è possibile anche grazie alle scandalose leggi del governo del Kenya, che sostiene
un salario minimo legale attorno ai 2.000 scellini mensili.
Benché tutti i salari siano bassi, la differenza fra le categorie sono enormi. In effetti
se facessimo uguale a 100 il costo dellazienda di 1 ora di lavoro di un permanente,
quello di un discontinuo risulterebbe uguale a 52, mentre quello di un avventizio uguale a
16. Dunque linteresse di Del Monte è di ricorrere il più possibile al lavoro degli
avventizi e dei discontinui riducendo al massimo quello dei permanenti. Questa è la
ragione per la quale alla Del Monte si trovano in servizio permanente centinaia di
avventizi che da anni sono assunti di lunedì in lunedì. E anche la ragione per la
quale 2000 lavoratori, che fino al dicembre 1998 erano in servizio come permanenti, sono
stati licenziati e riassunti come discontinui. Di punto in bianco la loro paga è
diminuita del 45% ed è cessato il diritto a ricevere lindennità di fine rapporto.
ABUSI E CLASSISMO
Limpiego di avventizi e discontinui in posti di lavoro
permanente, è una chiara violazione della legge e dei contratti. Ma purtroppo non è
lunica. Il sindacato denuncia labitudine di Del Monte Kenya di inquadrare i
lavoratori in mansioni inferiori a quelle realmente svolte per pagare salari più bassi.
Denuncia anche comportamenti anti sindacali. Ad esempio nellaprile 1997
lazienda licenziò 1.700 lavoratori discontinui che stavano aderendo ad uno
sciopero, indetto secondo tutte le procedure legali, e mandò dei camion a reclutare mano
dopera avventizia per i quartieri più poveri. Nel 1994 licenziò 17 autisti perché
avevano osato iscriversi ad un sindacato sgradito alla direzione per la determinazione con
la quale difende i diritti dei lavoratori. I 17 licenziati sono ricorsi in tribunale, ma
la cosa va per le lunghe. In conclusione anche questa volta è improbabile che i
lavoratori riescano ad ottenere giustizia e non tanto perché limpresa verrà
riconosciuta innocente, ma perché il dibattimento finale non si farà mai. Pare
impossibile, eppure tutti i casi avviati contro Del Monte si trascinano per anni con
rinvii continui che esasperano i lavoratori e li dissanguano economicamente con spese per
bolli, controbolli, avvocati e viaggi nella capitale. Alla fine non ce la fanno più e
smettono di presentarsi alle udienze dando la possibilità ai giudici di archiviare il
processo per la rinuncia della parte lesa. Come Del Monte incappi sempre in giudici che
amano rinviare i processi, rimane un mistero. In ogni caso, questa situazione rende Del
Monte arrogante perché la fa sentire in uno stato di impunità. Di qui gli abusi rispetto
alle assunzioni, ai salari, e naturalmente rispetto alle indennità da pagare in caso di
infortunio. Del Monte non paga neanche quando i suoi obblighi sono evidenti.
Decine di famiglie lottano da 10 anni per ottenere il risarcimento relativo ad un
incidente avvenuto nel 1988 che causò la morte di 34 persone e il ferimento di altre 20
per lurto di un camion dellimpresa su cui stavano viaggiando.
Ma di tutti gli abusi, forse quello che i lavoratori sentono di più è il mancato
pagamento da parte di Del Monte delle medicine e della assistenza ospedaliera. Eppure la
legge prevede che ogni datore di lavoro debba farsi carico di queste spese. Al colmo dello
scherno, Del Monte Kenya va dicendo che garantisce lassistenza sanitaria a tutti i
suoi dipendenti solo perché dispone di cinque ambulatori allinterno della
piantagione.
Ma i lavoratori sanno di non poter contare su queste strutture perché per ordine della
direzione lassistenza può essere prestata solo a chi si sente male durante il
servizio. In tutti gli altri casi è inutile bussare alla porta Del Monte. Gli infermieri
(il personale sanitario è composto da 12 infermieri generici, 2 diplomati e un medico)
sono così intimoriti che preferiscono vedere morire la gente piuttosto che trasgredire
lordine ricevuto.
Un caso del genere si è verificato il 2 agosto 1999. Alle 10 di sera linfermiere
reperibile venne svegliato per soccorrere un lavoratore che dal pomeriggio vomitava, aveva
febbre e respirava con fatica. Ma linfermiere allargò le braccia e disse che non
poteva fare niente perché si era ammalato fuori servizio. Allora i familiari lo pregarono
almeno di mettere a disposizione lambulanza per trasportare il malato
allospedale, ma linfermiere si rifiutò di fare anche questo. Preso dalla
disperazione, il fratello andò di corsa al villaggio più vicino in cerca di
unautomobile. Dopo affannose ricerche finalmente la trovò, ma ahimé era senza
benzina. Trafelato tornò di nuovo allambulatorio Del Monte nella speranza che
qualcuno avesse deciso di trasportare suo fratello allospedale. Ma quando arrivò
trovò tutto come prima mentre il fratello stava sempre peggio. Mezzora dopo morì.
A quel punto, come dincanto, lazienda si attivò e decise di mettere a
disposizione non solo lambulanza ma anche un paio di auto di scorta per trasportare
il corpo non si sa bene dove.
La rabbia dei lavoratori è che mentre a loro si negano salari dignitosi e
lassistenza minima, ai dirigenti e ai tecnici stranieri sono garantite somme da
capogiro.
Al responsabile del personale, ad esempio, è garantito uno stipendio mensile di circa 4
milioni di lire (15 volte più alto di un impiegato dufficio) oltre alla presa in
carico da parte dellazienda di tutte le spese per listruzione dei figli e per
lassistenza sanitaria nei migliori ospedali del Kenya allinterno del nucleo
familiare.
Non sappiamo quanto prendano i dirigenti stranieri, ma ai tecnici italiani sono garantiti
11 milioni di lire al mese (consegnati in dollari) oltre al viaggio pagato in Italia ogni
due mesi.
In conclusione emerge un comportamento di Del Monte estremamente classista: paghe da fame
e abusi per gli operai africani di basso rango e paghe profumate per i bianchi e i
dirigenti locali di alto rango.
Del resto il classismo risulta evidente anche solo compiendo una visita ai villaggi che
Del Monte ha costruito per fornire alloggio ad una parte dei propri dipendenti. I
direttori generali, tutti stranieri, sono ospitati in ville di lusso sprofondate in parchi
favolosi guardati a vista da guardie armate. Inutile dire che al loro interno lavora un
esercito di servitori, pagati dallimpresa, che si occupano di tutti i lavori
domestici.
Spostandoci al villaggio dei quadri intermedi (supervisori, capi reparto, capi ufficio) si
nota che lo standard è già più basso anche se sono garantite case di quattro stanze
dotate di luce, acqua, elettrodomestici e bagno.
Arrivando infine ai villaggi costruiti per i braccianti, la differenza è stridente. Le
abitazioni consistono in stanze uniche di 3 metri x 4 per famiglie di sei, otto persone.
Alcune case non hanno neanche le finestre mentre il tetto è sempre di
lamiera, un prodotto che fa morire dal caldo al primo raggio di sole.
E inutile dire che le capanne sono sprovviste di luce, di acqua e naturalmente di
gabinetti. Per fare i propri bisogni la gente deve fare la fila di fronte ai cessi comuni
che sono due per villaggio, allincirca uno ogni cento abitanti. I cessi, non solo
sono pochi, ma sono anche stomachevoli. Nellera dellelettronica consistono
ancora in un buco per terra comunicante con una fossa profonda pochi decimetri che deve
essere svuotata ogni poco. Tutti possono immaginare lodore nauseabondo che regna in
questi luoghi e la quantità di mosche che li popolano.
Queste sono le condizioni igieniche che la potente Del Monte Kenya riserva ancora ai
propri dipendenti come ringraziamento per i lauti profitti che ottiene ogni anno dal loro
lavoro.
COME
PARTECIPARE
Si partecipa alla campagna inviando cartoline a:
Sergio Cragnotti c/o Cirio, via Fondi di Monastero 26, 00131 Roma
ANCC (Coop), via Panaro 14, 00199 Roma
Associazione Calciatori Avv. Sergio Campana, via Cangio 32, 36100 Vicenza
Le cartoline possono essere richieste al
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
via della Barra, 32 56019 Vecchiano (PI)
tel.050/826354, fax 050/827165
e-mail: coord@cnms.it |
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Le nostre richieste a Del Monte
Come cittadini e consumatori responsabili ci rifiutiamo di sostenere sistemi produttivi
che generano povertà, emarginazione e squilibrio a livello internazionale.
Per questo chiediamo a Del Monte di correggere il suo comportamento tramite
laccoglimento delle seguenti richieste:
1. Chiediamo che agli avventizi e ai discontinui vengano garantiti gli stessi diritti e le
stesse paghe orarie previste per i permanenti. In ogni caso chiediamo che le paghe
giornaliere siano tali da garantire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali dei
singoli lavoratori e delle loro famiglie.
2. Chiediamo che venga sospeso luso dei prodotti chimici particolarmente dannosi per
chi li usa, per la popolazione, per lambiente e forse anche per i consumatori.
Inoltre chiediamo che i lavoratori siano adeguatamente informati sulla pericolosità degli
agenti chimici e che vengano utilizzate le stesse precauzioni e le stesse misure
protettive e sanitarie utilizzate nei paesi industrializzati.
3. Chiediamo che vengano rispettati tutti gli obblighi imposti dalla legge e dai contratti
in materia di livelli salariali, assistenza sanitaria e libertà sindacali.
Chiediamo anche che limpresa reinvesta parte dei profitti in strutture sociali al
servizio di tutta la comunità locale e che vengano ristrutturati i villaggi abitativi
assegnati ai braccianti.
4. Chiediamo che venga accettato lintervento di una commissione indipendente
(formata da rappresentanti sindacali del Kenya, rappresentanti della locale commissione
per i diritti umani e da rappresentanti delle organizzazioni italiane che hanno
organizzato la campagna) col compito di verificare il rispetto dei diritti dei lavoratori.
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