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La festa di Sant’Antonio Abate

Il culto di Sant’Antonio Abate è molto sentito in tutta Italia e numerose sono i festeggiamenti in onore del protettore degli animali dal Nord al Sud della penisola.

In molto località italiane, la mattina si benedicono gli animali e si preparano cataste di legna che al tramonto si accendono, in ricordo del fuoco trafugato dal Santo al demonio. La gente cerca di portarsi a casa un po’ di cenere o qualche resto di tizzone per preservare stalle e animali da eventuali sciagure.

Il 17 Gennaio, i sagrati delle chiese di tante città brulicano di animali condotti dai loro proprietari per la benedizione di Sant’Antonio: cani di ogni razza, gatti, uccelli, ma anche tartarughe, criceti, pesciolini se non che agnelli, capre, pecore, cavalli.

Si rinnova così, nel giorno della festa, una tradizione plurisecolare che, negli anni ha ripreso vigore grazie alla riscoperta della natura, alla cultura ecologista, all’amore per gli animali.

Questa ricorrenza è accompagnata anche da una serie di manifestazioni di origine antichissime attraverso le quali le genti dei campi esprimevano la loro devozione a Sant’Antonio, rappresentando le ansie e le gioie di una vita spesso troppo grama e insidiata da mille difficoltà.

Goethe ci ha lasciato una vivace testimonianza di un festeggiamento romano di Sant’Antonio. Nel suo diari, egli ci descrive il 17 Gennaio 1787, giorno sereno e trepido dopo una notte in cui aveva gelato, caratterizzato dalla consacrazione di cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua.

Il culto di Sant’Antonio Abate è particolarmente vivo in Campania, dove vi è un paese nella provincia parthenopea che porta lo stesso nome del Santo: Sant’Antonio Abate, appunto.

La festa, oltre che nei comuni dell’hinterland napoletano ad economia fortemente agricola (ad esempio Sant’Antonio Abate e Cicciano), viene celebrata anche nel capoluogo.

Campania

Il culto di Sant’Antonio Abate è particolarmente vivo in Campania; nella provincia parthenopea vi è, tra l’altro, un comune che porta lo stesso nome del Santo: Sant’Antonio Abate, appunto.

In questa regione del Meridione, i riti in onore del protettore degli animali sono strettamente legati al Carnevale, tradizione derivante dalle antiche feste pagane in cui vi era il momentaneo sovvertimento dei ruoli all’interno della società e per questo condannato dalla Chiesa.

Con il pianto rituale per la morte di Carnevale, il popolo campano festeggia l’inizio di un nuovo ciclo di vita comunitaria.

17 Gennaio, festa di Sant’Antonio Abate: come nel resto della penisola, grandi fuochi vengono accesi al calar del sole nei quartieri popolari delle città; e così, intorno ai "fucaroni", comincia il ciclo carnevalesco, che si estingue soltanto tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo.

Nei paesi vesuviani e in Cilento, la preparazione dei "cippi" in onore di Sant’Antonio viene vissuta come momento addirittura di carattere agonistico: gruppi di persone si aggregano spesso al fine di allestire il fuoco più grande.

Intorno ai falò, nella apertura della festa, si balla e si canta " pe’ fà’ ‘a devuzjone " – commentano i più anziani.

Pie associazioni, in certi casi però perfettamente autonome nei confronti dell’autorità ecclesiastica locale, provvedono a quanto possa servire ai festeggiamenti: vengono raccolte le fascine che saranno poi bruciate per le strade, si assoldano le bande di musici che annunciano alla popolazione il successivo periodo carnevalesco, si preparano i prodotti culinarî tipici, si provvede ad illuminare il centro cittadino.

Tuttavia, il più delle volte si tende a mettere insieme i rituali tradizionali legati al Santo con quelli pagani del Carnevale.

Più ci si allontana dalle zone economicamente più arretrate e culturalmente meno disgregate della Regione, più si viene a contatto con modalità festive arcaiche ed incontaminate, ricche di valenze simboliche.

Le istituzioni religiose si oppongono ai rituali "primitivi", che non rispondono ai "buoni dettami della fede".

Nel 1976, ad esempio, a Macerata Campania e a Portico, per iniziativa del Vescovo di Nola, è stata eliminata la questua e la bruciatura di alcuni fantocci, tre per l’esattezza, rappresentanti rispettivamente un somaro, un maiale ed una donna, denominata "signora".

I primi due si riferivano ad elementi sessuali, mentre il terzo era collegato alla leggenda delle Tentazioni di Sant’Antonio Abate, il quale era stato perseguitato dal demone anche sotto vesti di donna.

Sempre nei due paesini suddetti, la festa in onore del Santo è caratterizzata dalla sfilata per le vie di carri trainati da trattori, ricoperti di foglie di palma, sui quali gruppi di giovani battono il ritmo percuotendo botti, tini e falci con mazze e bastoni.

Si tratta di un rituale propiziatorio, che può essere inteso in base a due simbologia: la prima vedrebbe la botte come il contenitore in cui alloggiano gli spiriti maligni, che con la percussione sono costretti ad andarsene; la seconda vorrebbe la botte come metafora della sessualità femminile, sul quale la mazza percuote e feconda.

La festa, oltre che nelle zone ad economia fortemente agricola (Cilento, Campi Flegrei, Irpinia, Sannio, Vesuviano, Nolano), viene celebrata anche nel capoluogo regionale.

Napoli

Per Napoli, metropoli violenta dalle mille contraddizioni, la festa di Sant’Antonio Abate è un rito quasi in via di estinzione, relitto di un ciclo festivo un tempo vissuto in prima persona da ogni cittadino.

In città festeggiamenti avvengono nella zona intorno il borgo di Sant’Antonio Abate, cosiddetto per la presenza della chiesa omonima; il rione si trova nella zona di Via Foria ed è chiamato dai Napoletani " ‘o Buvero ‘e Sant’Antuono" o più semplicemente " ‘o buvero".

Il 17 Gennaio, dalle prime luci dell’alba, in concomitanza della prima celebrazione che, in genere, si tiene alle sette del mattino, si assiste ad una sorta di processione di persone provenienti da tutta la provincia parthenopea, intenzionate a far benedire se stessi e gli animali: cavalli da traino, somari, pecore, animali domestici da cortile, come conigli, cani, gatti, galline.

Il momento più suggestivo della festa è però la sera.

Allora le bancarelle, numerosissime fino a qualche decennio fa ma oggi ridotte di numero, si cimentano nella vendita dei taralli. I taralli sono una sorta di ciambella di diversi gusti e dimensioni: grandi come una graffa, morbidi e più piccoli, duri, "nasprati" bianchi o al cioccolato.

Quelli più richiesti restano i bianchi, che uniti da un cordoncino formano collane che vengono poste al collo degli animali prima di essere benedetti.

Un’altra specialità culinaria preparata in occasione della festa è il "soffritto" , un composto di interiora e salsa di pomodoro, che si mangia con la pasta o sul pane abbrustolito.

Pochi anni fa non mancava lo scugnizzo che per l’evento preparava alla sua pecorella una sorta di calessino addobbato con nastri e fiocchi, alla maniera del carretto siciliano.

La pecorella, o pecora più grossa dalle orecchie nere che in gergo partenopeo si suole chiamare " ‘o cora chiatto’", riluttante a camminare e a trainare quel calessino, veniva invogliata con fieno, porto alla bocca man mano che avanzava!

In serata, un tempo, dopo la celebrazione eucaristica, la statua d’oro di Sant’Antonio Abate, proveniente direttamente dal Duomo di Napoli, veniva fatta uscire dalla chiesa di Via Foria e portata in processione lungo le strade del quartiere. Al passaggio del simulacro, al grido di "menate, menate", lanciato dalla moltitudine dei bambini, da ogni finestra venivano calati, nei canestri legati alle funi, tutti gli oggetti di legno che in casa non servivano più: mobili vecchi, sedie impagliate, tavoli in disuso e alberi di Natale ormai secchi .

Nel frattempo, con quei materiali, nel quartiere Carlo III, si preparava una vampa di fuoco, detta " ‘o cippo’" oppure " ‘o fucarazzo" .

Intorno agli anni ‘70 " ‘e cippe " venivano accesi in diverse strade del quartiere: partendo dalla chiesa di Sant’Antonio Abate, ce ne era uno proprio poco più avanti dell’edificio religioso e, dirigendosi verso piazza Carlo III, ne era visibile un altro al bivio tra Gaetano Argento e via Pecchia, adiacente alla scuola Dante Alighieri e al liceo classico Giuseppe Garibaldi.

Questo falò, però, nell’arco di un quarto d’ora veniva spento dai vigili del fuoco, considerato pericoloso per lo spazio angusto e la densità abitativa.

Più voluminoso era quello che " s’appicciava" tra via Arenaccia e via De Meo in prossimità della parrocchia di Santa Maria delle Grazie in Sant’Atanasio, poi spostato sotto i ponti perché più ampio e sicuro risultava lo spazio.

Ciascun falò aveva in comune cogli altri l’orario di accensione, sintonizzato alle ore 19:00.

Qui, intanto, la zona si affollava e s’inscenava un funerale: era morto Carnevale!

Questi, impagliato, vestito con un abito scuro, con un cappello in testa, la pipa sostituita a volte da una carota, era posto su un pezzo di legno (in genere l’anta di legno di un vecchio armadio) e in processione era pianto da tutti quelli che seguivano il feretro e, a gran voce, si gridava: "è muorto Carnevale". Carnevale, poi, adagiato sulla pila di legna, veniva dato alle fiamme. Allora calava un gran silenzio, la zona s’illuminava, le fiamme facevano ombre sui muri dell’orto botanico e di palazzo Fuga. Si sentiva solo lo scoppiettio della legna che bruciava: tutti erano in silenzio ad osservare quel fuoco che cresceva, che riscaldava, in attesa del momento fatidico: lo scoppiettio dei petardi di cui era stato imbottito Carnevale. Solo allora la gente urlava dalla sorpresa e in quel momento la chiesa chiudeva la gente tornava alle dimore e attorno al falò rimanevano solo poche persone anziane in attesa che il fuoco smettesse di bruciare e offrisse loro legna calda per riscaldare le umili dimore.

Cicciano

La festa non viene celebrata il 17 ma viene di solito rimandata al sabato successivo. Essa  dura 3 giorni ed ha inizio il sabato con l’accensione del falò (nel dialetto locale " ‘o fucarone ") subito dopo la messa serale.

Il falò viene acceso contemporaneamente in tutti i quartieri dopo un segnale particolare: tre spari di fuochi d’artificio. Le popolazioni antiche celebravano il fuoco collettivamente con danze e canti eseguiti intorno ad esso.

Queste manifestazioni tipiche delle civiltà contadine avevano lo scopo di ottenere dal fuoco le sue virtù: la purificazione e l’energia vitale. Fin dai tempi antichi si è usato accendere il falò per girarci intorno, perché esso è stato considerato essenziale per la crescita dei raccolti, il benessere degli uomini e delle bestie. Forse sono proprio questi i motivi che spiegano la presenza nella tradizione di Cicciano del falò acceso con la legna ottenuta dalla potatura delle piante in autunno e che viene legata in piccoli fasci (" ‘e ffascine ").

Intorno al falò si trascorre la serata ballando, cantando e arrostendo salsicce che vengono consumate con panini e un buon bicchiere di vino. Anche se solo simbolicamente vengono, così come accadeva tanto tempo fa, preparate le patate alla brace.

La domenica mattina inizia la processione che viene accompagnata da fuochi pirotecnici organizzati dai vari comitati rionali. La domenica sera, dinanzi alla chiesa, vengono venduti all’asta  i prodotti tipici locali che sono stati raccolti dal carro di Sant’Antonio in giro per le strade del paese. Il lunedì, ultimo giorno della festa, continua la processione che si conclude con il ritorno della statua di Sant’Antonio in chiesa. Prima dell’ingresso nell’edificio sacro, la statua, portata in spalla dalle persone, viene fatta "ballare" al suono della musica della banda che ha accompagnato il Santo nella processione.

Continua la vendita all’asta fino a sera, il cui ricavato viene devoluto per la Festa.

I festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate si concludono il lunedì sera con una gara di fuochi d’artificio a colori.

Per antica tradizione durante i giorni dei festeggiamenti in onore di Sant’Antonio, molta gente gira per tre volte intorno alla chiesetta. Tre i motivi: per chiedere al santo protezione sulla casa; per chiedere la protezione sugli animali; per avere una buona salute.

Pertanto è bene pregare durante i tre giri, altrimenti non avrebbe senso fare un tale gesto, soprattutto se si parla.

A Cicciano, fino agli anni Cinquanta, il Comitato che organizzava la festa comprava un maiale che veniva lasciato libero per le vie del paese e nutrito dal popolo. Questo maialino veniva venduto il giorno della festa e il ricavato serviva per le spese affrontate dal Comitato.

L’usanza del maialino di girare libero per le strade e fermarsi a mangiare dove capitava ha fatto nascere nella tradizione popolare il detto "Me pare ‘o puorco ‘e Sant’Antuono" (Mi sembri il maiale di Sant’Antonio) che si dice di una persona che mangia a spese degli altri. Infine, nella tradizione, si dice "Sant’Antuonio s’annammuraje d’ ‘o puorco" (Sant’Antonio si innamorò del maiale), che vuole indicare una persona che si innamora di qualcosa ritenuta sgradevole.

Un prodotto tipico è il "tortano", una ciambella di pane bianco con il quale si addobba anche il Carro di Sant’Antonio. L’usanza di sfilare per le vie del paese con un carro, inizialmente addobbato con palme e tortani, che raccoglie i prodotti tipici locali offerti dalla popolazione, sembra avere molte similitudini con il carro del Pane che sfilava a Napoli nel Seicento il giorno di Sant’Antonio e che inaugurava il Carnevale.

Infatti  alcuni rituali,   seppur  con forme diverse, si ritrovano sia nel Carro del Pane del ‘600, che in quello attuale di Sant’Antonio: addobbo del Carro, prima ad opera dei panettieri, ora ad opera del Comitato Festa e del popolo; sfilata per le vie del paese; distribuzione dei beni (prima offerti gratuitamente dai  panettieri, oggi offerti dal Comitato Festa attraverso una vendita all’asta). 

Il rituale conclusivo della "distribuzione gratuita" sembra avere due significati: quello economico del superamento delle differenze tra classi sociali, anche se per un solo giorno, e quello magico-protettivo del dare gratuitamente con la speranza di ricevere gratuitamente e in tal modo allontanare il male.

 
 
 

 

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Ultimo aggiornamento:  09-12-10