VINCENT VAN GOGH

Vincent Willem van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese.

Autore di quasi 900 tele e di più di mille disegni, tanto geniale quanto incompreso in vita, si formò sull'esempio del realismo paesaggistico dei pittori di Barbizon e del messaggio etico e sociale di Jean-François Millet. Attraversata l'esperienza dell'Impressionismo, ribadì la propria adesione a una concezione romantica, nella quale l'immagine pittorica è l'oggettivazione della coscienza dell'artista: identificando arte ed esistenza, van Gogh pose le basi dell'Espressionismo.

Biografia

Gli studi interrotti (1868)

Dal 1861 al 1864 Vincent frequentò la scuola del paese e dal 1° ottobre un collegio della vicina Zevenbergen dove apprese il francese, l'inglese e il tedesco e l'arte del disegno. Dal 1866 frequentò una scuola di Tilburg ma il 19 marzo 1868 ritornò a Zundert senza aver concluso gli studi.

Il lavoro nella casa d'arte Goupil (1869-1875)

La scarsità del suo profitto scolastico convinse la famiglia a trovargli un impiego: lo zio paterno Vincent detto Cent (1820-1888), già mercante d'antiquariato, nel luglio del 1869 lo raccomandò alla casa d'arte Goupil & C. alla quale, per motivi di salute, aveva ceduto la sua attività a L'Aja; l'attività della casa Goupil consisteva nella vendita di riproduzioni di opere d'arte e il giovane Vincent sembrò molto interessato al suo lavoro, che lo obbligava a un approfondimento delle tematiche artistiche e lo stimolava a leggere e a frequentare musei e collezioni d'arte. Mantenne i contatti con la famiglia, che dal gennaio del 1871 si era trasferita a Helvoirt, dove il padre Theodorus svolgeva la sua attività pastorale. Vincent oltre ad incontrare frequentemente a L'Aja il fratello Théo, intesse con lui una corrispondenza che durerà tutta la vita.

Nel 1873 venne trasferito nella filiale Goupil di Bruxelles e a maggio in quella di Londra. Durante il trasferimento nella capitale inglese si fermò per alcuni giorni a Parigi, rimanendo affascinato dalla bellezza della città e dai fermenti culturali che la animavano: la visita del Louvre e delle esposizioni di quadri al Salon lo colpirono profondamente.

A Londra disegnò schizzi di scorci cittadini, che tuttavia non conservò (ne rimane solo uno, peraltro assai rovinato e scoperto nel 1977, raffigurante la casa dove visse). Nella pensione in cui alloggiava, si dichiarò un giorno ad una figlia della proprietaria, Eugenia Loyer (e non Ursula come si era sempre creduto), che, già fidanzata, lo respinse: caduto in una crisi depressiva, chiese ed ottenne di essere trasferito a L'Aja. Da questo momento iniziò a trascurare il lavoro: a poco servì il ritorno a Londra, nel luglio del 1874, insieme con la sorella Anna. I suoi interessi cominciarono a indirizzarsi verso le tematiche religiose, che si approfondirono anche dopo il suo trasferimento a Parigi, nel maggio 1875: qui tuttavia frequentò anche i musei, appassionandosi a Corot e alla pittura secentesca olandese. I dirigenti della Goupil erano sempre più scontenti di lui, che nel Natale del 1875 lasciò senza preavviso il lavoro, andando a trovare la famiglia, che allora risiedeva a Etten, un piccolo paese presso Breda. Vincent comprese tuttavia di non potere più continuare la sua collaborazione in un'attività che ormai sentiva profondamente estranea e si dimise dall'impiego il 1° aprile 1876.

La svolta artistica (1881)

Si legò d'amicizia con il pittore olandese Anthon van Rappard e studiò prospettiva e anatomia, impegnandosi in disegni che ritraevano soprattutto umili lavoratori della terra e delle miniere: non a caso i suoi pittori di riferimento erano Millet e Daumier. Nell'aprile 1881 lasciò l'Accademia e fece ritorno presso la famiglia, ad Etten, dove s'innamorò della cugina Kate Vos-Stricker, detta Kee, figlia di un pastore protestante, da poco vedova con un figlio, senza però venir corrisposto. Non si rassegnò e la seguì ad Amsterdam, dove lei si era trasferita in casa dei genitori: al suo rifiuto di riceverlo, di fronte ai genitori della donna, van Gogh si ustionò volontariamente una mano alla fiamma di una lampada.

A L'Aja ottenne l'incoraggiamento e i consigli del pittore Anton Mauve, cognato della madre, continuò a disegnare sotto la sua guida e, per la prima volta, verso la fine del 1881, eseguì nature morte dipinte a olio e figure all'acquarello: le nature morte con il Cavolo e gli zoccoli del Van Gogh Museum di Amsterdam e il Boccale e pere di Wuppertal sono tra i suoi primi lavori. In rotta con i genitori per la sua insistente ostinazione verso la cugina e per l'aperto distacco mostrato nei confronti della religione (venendo scacciato di casa dal padre il giorno di Natale), lasciò Etten, rifiutando ogni loro aiuto economico, trasferendosi a L'Aja, vicino allo studio di Mauve, il quale, insieme con il fratello Théo, lo soccorse economicamente. Dopo pochi mesi, tuttavia, contrasti con il pittore - che avrebbe voluto, secondo i suoi sistemi didattici, che Vincent si esercitasse copiando calchi in gesso, mentre egli preferiva ispirarsi direttamente alla realtà - portarono alla rottura tra i due.

Del resto, van Gogh avrà sempre molta difficoltà a relazionarsi con gli altri pittori, pur stimati da lui: in questo periodo, l'unico pittore che mostrava considerazione per le sue possibilità era il connazionale Johan Hendrik Weissenbruch (1824-1903), artista già noto ed apprezzato.

A Neunen (1883 - 1885)

Nel gennaio del 1882 Vincent conobbe una trentenne prostituta alcolizzata, butterata dal vaiolo, Clasina Maria Hoornik detta Sien, già madre di una bambina e in attesa di un altro figlio, che gli fece da modella: dopo il parto, vissero insieme ed egli pensò anche di sposarla, sperando di sottrarla alla sua triste condizione: scrisse al pittore van Rappard: «Quando la terra non viene messa alla prova, non se ne può ottenere nulla. Lei, lei è stata messa alla prova; di conseguenza trovo più in lei che in tutto un insieme di donne che non siano state messe alla prova dalla vita».

Tutto questo non gli impedì tuttavia, dapprima di ammalarsi di gonorrea (e fu per questo ricoverato in ospedale dove, secondo le lettere a Theo, eseguì un ritratto, andato perduto, del medico che lo ebbe in cura), e poi di lasciare Sien dopo un anno, anche per la pressione della famiglia (che, appresa la volontà di Vincent di voler sposare una prostituta, tentò addirittura di farlo internare) e, nel settembre del 1883, andò a vivere nel nord dell'Olanda, nella Drenthe, ricca di torbiere, spostandosi spesso e ritraendo gli operai e i contadini della regione. Si recò anche a Nieuw-Amsterdam e a Zweeloo, sperando invano di conoscere il pittore Max Liebermann, che aveva abitato in quei dintorni; in compenso, la gita a Zweloo venne da lui immortalata con vari disegni e una vivissima lettera a Theo.

Alla fine del 1883 tornò a vivere con i genitori, che si erano trasferiti a Nuenen, dove il padre era pastore. Questi era intenzionato ad aiutare Vincent, ponendo fine alla sua vita errabonda, consentendogli di allestire un suo studio nella lavanderia del presbiterio; ma Vincent preferì prepararne uno in casa del sagrestano della parrocchia di Neunen, dove aveva la disponibilità di un paio di stanze. Lavorò intensamente e prese anche lezioni di pianoforte convinto, sulla scorta delle teorie di Wagner e dei simbolisti, dell'esistenza di una relazione tra musica e colore.

Della scuola impressionista, al fratello che gliene scriveva, rispondeva di non saperne nulla e di considerare veri e originali artisti Delacroix, Millet e Corot, «intorno ai quali i pittori di contadini e di paesaggi devono girare come intorno a un asse».

Non gli mancarono nuovi problemi: una vicina di casa, Margot Begemann, che accudì sua madre dopo una caduta e con la quale aveva avuto una relazione, tentò il suicidio, e il 26 marzo 1885 il padre morì improvvisamente d'infarto dopo un violento alterco con lui; inoltre fu accusato dal parroco cattolico di essere responsabile della gravidanza di una ragazza, Gordina De Groot, che aveva posato per lui. Nell'aprile del 1885 dipinse le due versioni de I mangiatori di patate, con il quale, scrisse a Théo,

« ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole »

È qui espressa la radice etica della sua vocazione di pittore: e aggiunse:

« So benissimo che la tela ha dei difetti ma, rendendomi conto che le teste che dipingo adesso sono sempre più vigorose, oso affermare che I mangiatori di patate, insieme con le tele che dipingerò in avvenire, resteranno »

L'opera (della quale Vincent eseguì anche una litografia) non piacque all'amico van Rappard, che non glielo nascose: ma van Gogh, pur consapevole dei difetti dell'opera, la difese apertamente:

« Anche se seguito a produrre opere nelle quali si potranno ritrovare difetti, volendole considerare con occhio critico, esse avranno una vita propria e una ragione d'essere che supereranno i loro difetti, soprattutto per coloro che sapranno apprezzarne il carattere e lo spirito. Non mi lascerò incantare facilmente, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente quale scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipingere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccuparmi di quello che gli altri dicono di me. Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d'uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e di indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno »

il reciproco risentimento portò alla fine della loro amicizia.

Anversa e Parigi (1886 - 1887)

Un breve viaggio ad Amsterdam e la visita al Rijksmuseum appena aperto gli permisero di riscoprire Frans Hals e Rembrandt, che riconobbe come gli ideali anticipatori della sua ricerca formale; poi, comprendendo di non poter rimanere in un paesino come Nuenen (il curato cattolico, a causa dell'episodio di Gordina De Groot, aveva proibito ai parrocchiani di posare per Vincent, che da allora era stato costretto a dipingere solo nature morte), nel novembre del 1885 si trasferì a pensione ad Anversa, frequentando assiduamente le chiese ed i musei della città dove scoprì le stampe giapponesi e ammirò il colorismo di Rubens

« Rubens è superficiale, vuoto, ampolloso, e in conclusione, ampolloso come Giulio Romano o, peggio ancora, come i pittori della decadenza. Nonostante questo, mi entusiasma, proprio perché è il pittore che cerca di esprimere l'allegrezza, la serenità, il dolore, e rappresenta questi sentimenti in modo veritiero grazie alle sue combinazioni di colori »

Un rigattiere di Nuenen acquistò da sua madre una serie di dipinti rimasti nello studio, vendendoli a 10 centesimi l'uno e bruciando quelli che non gli sembravano commerciabili.

Nel gennaio 1886, dopo aver frequentato un corso di disegno, si iscrisse ai corsi di pittura e disegno dell'École des Beaux-Arts ma senza alcun successo: il 31 marzo venne respinto il suo lavoro presentato per accedere ai corsi d'insegnamento superiore, ma van Gogh si era già trasferito a Parigi per seguire i corsi di pittura di Fernand Cormon, pittore accademico mediocre ma di successo, allo scopo di migliorare la sua tecnica e poter ritrarre dei modelli; in questo studio conobbe Émile Bernard, Louis Anquetin e Toulouse-Lautrec.

La capitale francese è il centro della cultura mondiale: «non c'è che Parigi: per quanto difficile possa essere qui la vita, e anche se divenisse peggiore e più dura, l'aria francese libera il cervello e fa bene, un mondo di bene». Il fratello Théo vi era trasferito da sette anni per dirigere, a Montmartre, una piccola galleria d'arte per conto di Boussod e Valadon, i successori dell'impresa Goupil. Egli lo ospitò nella sua casa, dove Vincent allestì lo studio e dipinse vedute della capitale, e gli presentò i maggiori pittori impressionisti. Inizialmente, la loro pittura lo interessò molto poco:

« Ad Anversa non sapevo nemmeno che cosa fossero gli impressionisti: adesso li ho veduti e pur non facendo ancora parte del loro clan ho molto ammirato alcuni dei loro quadri: un nudo di Degas, un paesaggio di Claude Monet da quando ho veduto gli impressionisti, Le assicuro che né il Suo colore né il mio sono esattamente uguali alle loro teorie »

e ribadirà ancora la sua lontananza da quella pittura due anni dopo alla sorella:

« quando si vedono per la prima volta si rimane delusi: le loro opere sono brutte, disordinate, mal dipinte e mal disegnate, sono povere di colore e addirittura spregevoli. Questa è la mia prima impressione quando sono venuto a Parigi »

Per Vincent, l'arte moderna era rappresentata dalla scuola di Barbizon: oltre all'ormai classico Delacroix, egli ammirava Corot, Daumier, Troyon, Daubigny, Bastien Lepage e soprattutto Millet, che rappresentava per lui il vertice della pittura. L'importanza, che il suo iniziale dilettantismo e la sua inclinazione essenzialmente romantica, attribuiva al soggetto del dipinto e alla correttezza tecnica dell'esecuzione, gli faceva apprezzare perfino un Meissonier, lodatissimo a quel tempo e che pure era molto lontano dal suo spirito. Sapeva tuttavia che l'abilità tecnica non doveva essere il fine dell'arte ma solo il mezzo per poter esprimere quello che sentiva: «quando non posso farlo in modo soddisfacente, mi sforzo di correggermi. Ma se il mio linguaggio non piace, ciò mi lascia completamente indifferente».

L'osservazione più puntuale delle opere degli impressionisti gli fece comprendere l'originalità e i valori racchiusi in quella nuova concezione della visione: anche se non aderì mai a quella scuola, perché egli intese sempre esprimere solo quello che aveva «dentro la mente e il cuore», guardò con favore a Guillaumin e a Pissarro, e la sua tavolozza, fino a quel momento scura e terrosa, si schiarì proprio grazie all'influsso della pittura impressionista e alleggerì i propri soggetti, tralasciando i temi sociali per i paesaggi e le nature morte; sperimentò anche l'accostamento dei colori complementari cimentandosi, nell' Interno di ristorante, con la tecnica puntinista inventata da Seurat.

Con Bernard, suo grande amico all'epoca, andò spesso a dipingere ad Asnières, il sobborgo che sorgeva sulle rive della Senna; espose suoi dipinti nella bottega di colori di père Tanguy e, insieme con il gruppo del Petit boulevard di Anquetin, Bernard, Gauguin e Toulouse-Lautrec, nel café Tambourin, gestito dall'ex-modella di Degas, l'italiana Agostina Segatori, con la quale, per qualche mese, ebbe una relazione.

I rapporti con il fratello Théo non erano sempre facili: pur volendosi molto bene, entrambi soffrivano di disturbi nervosi. Il carattere, generoso ma imprevedibile e collerico di Vincent, non gli rendeva agevole mantenere durevoli rapporti di amicizia; egli stesso si rendeva conto di non riuscire a non esprimere direttamente i propri sentimenti e a non manifestare con violenza le proprie opinioni: «non riesco a starmene tranquillo, le mie idee fanno talmente parte di me stesso che, talora, mi sembra che mi prendano alla gola».

Il desiderio di conoscere il Mezzogiorno francese, «dove c'è più colore, più sole», con la sua luce e i suoi colori mediterranei così lontani dal cromatismo nordico, fu una buona occasione per porre fine a una convivenza divenuta difficile.

Arles (1888)

Trasferitosi ad Arles il 20 febbraio 1888, andò ad alloggiare prima in albergo e poi, in maggio, affittò un appartamento di quattro stanze di una casa dalle mura gialle che si affacciava sulla piazza Lamartine, ritratta in un quadro famoso.

Produsse una tela dopo l'altra, come temesse che la sua ispirazione, esaltata dalla novità del nuovo modello della natura provenzale, potesse abbandonarlo. Si sentiva trascinato dall'emozione, che egli identificava con la sincerità dei suoi sentimenti verso la natura: le emozioni che provava di fronte alla natura provenzale potevano essere così forti da costringerlo a lavorare senza sosta, allo stesso modo per il quale non si possono fermare i pensieri, quando questi si sviluppano in una coerenta sequenza nella propria mente. D'altra parte, affermava di mettere sulla tela non impressioni momentanee, ma immagini studiate a lungo e assimilate nel suo spirito attraverso una lunga e precedente osservazione del modello.

Del modello naturale confessava di non poter fare a meno: non si sentiva in grado di inventare un soggetto anzi, per quanto riguarda le forme, aveva «il terrore di allontanarsi dal verosimile» ma non aveva problemi a combinare diversamente i colori, accentuandone alcuni e semplificando altri. Scrisse alla sorella Wilhelmina:

« La natura di questo paesaggio meridionale non può essere resa con precisione con la tavolozza di un Mauve, per esempio, che appartiene al Nord e che è un maestro e rimane un maestro del grigio. La tavolozza di oggi è assolutamente colorata: celeste, arancione rosa, vermiglio, giallo vivissimo, verde chiaro, il rosso trasparente del vino, violetto. Ma, pur giocando con tutti questi colori, si finisce con il creare la calma, l'armonia »

Al fratello confidò di aver abbandonato le tecniche utilizzate a Parigi, che risentivano dell'esperienza impressionista, per ribadire la visione romantica di Delacroix, non ritraendo fedelmente quello che gli sta di fronte ma ricercando il vigore dell'espressione attraverso il libero uso del colore. E all'amico pittore Bernard:

« Non seguo alcun sistema di pennellatura: picchio sulla tela a colpi irregolari che lascio tali e quali. Impasti, pezzi di tela lasciati qua e là, angoli totalmente incompiuti, ripensamenti, brutalità: insomma, il risultato è, sono portato a crederlo, piuttosto inquietante e irritante, per non fare la felicità delle persone con idee preconcette in fatto di tecnica gli spazi, limitati da contorni espressi o no, ma in ogni caso sentiti, li riempo di toni ugualmente semplificati, nel senso che tutto ciò che sarà suolo parteciperà di un unico tono violaceo, tutto il cielo avrà una tonalità azzurra, le verzure saranno o dei verdi blu o dei verdi gialli, esagerando di proposito, in questo caso, le qualità gialle o blu »

Sperimentava techiche diverse. ora mettendo in risalto le forme circondandole di contorni scuri e pennellando lo sfondo a strati, per creare una struttura a traliccio, ora ondulando i contorni per accentuare la struttura delle forme, ora punteggiando con brevi pennellate e ora invece spremendo il colore dal tubetto direttamente sulla tela. Altre volte si convinceva «di non disegnare più il quadro con il carboncino. Non serve a niente; se si vuole un buon disegno, si deve eseguire direttamente con il colore».

Andando incontro a un desiderio di Vincent, nell'estate del 1888 Théo van Gogh contattò Gauguin, offrendo di pagargli il soggiorno ad Arles con il fratello e garantendogli l'acquisto di dodici suoi quadri ogni anno per 150 franchi. Gauguin, dopo qualche esitazione, accettò, pensando di mettere da parte quanto gli era necessario per realizzare il suo desiderio di trasferirsi, di lì a un anno, in Martinica.

Il dramma di Arles

Nell'attesa dell'arrivo di Gauguin, van Gogh si preoccupò di arredare con qualche altro mobile l'appartamento e ornò con propri quadri la camera da letto. Gli scrisse:

« ho fatto, sempre come decorazione, un quadro della mia camera da letto, con i mobili in legno bianco, come sapete. Ebbene, mi ha molto divertito fare questo interno senza niente, di una semplicità alla Seurat; a tinte piatte, ma date grossolanamente senza sciogliere il colore; i muri lilla pallido; il pavimento di un rosso qua e là rotto e sfumato; le sedie e il letto giallo cromo; i guanciali e le lenzuola verde limone molto pallido; la coperta rosso sangue, il tavolo da toilette arancione; la catinella blu; la finestra verde. Avrei voluto esprimere il riposo assoluto attraverso tutti questi toni così diversi e tra i quali non vi è che una piccola nota di bianco nello specchio incorniciato di nero, per mettere anche là dentro la quarta coppia di complementari »

 

Eppure, vi è chi ha visto nel dipinto di questa camera da letto il desiderio mancato di rappresentare il sonno e il riposo: «La tragedia della sua mente si avvicinava con segni di squilibrio e non gli permetteva né riposo né sonno. Nella camera abbandonata regna la calma, ma è una calma senza speranza e senza pietà. È una camera vuota, ma non per caso. essa è abbandonata per sempre causa la partenza o la morte. I colori sono brillanti e puri, senza ombre, ma non suggeriscono gioia, anzi soltanto tristezza. È un riposo nato dalla disperazione. Così i colori rivelano l'animo dell'artista a sua insaputa. Non si rende conto di quel che sente, né nella sua lettera, né nella sua pittura, e perciò il suo sentimento, la sua accorata umiltà, è espresso spontaneamente».

Gauguin giunse ad Arles il 29 ottobre 1888. All'opposto di van Gogh, rimase subito deluso di Arles, «il luogo più sporco del Mezzogiorno», e della Provenza: «Trovo tutto piccolo, meschino, i paesaggi e le persone»; il sogno di van Gogh di fondare un'associazione di pittori che perseguissero un'arte nuova lo lasciava scettico; quanto a sé, egli contava soltanto di trasferirsi, non appena ne avesse avuto la possibilità, ai tropici; lo irritavano anche le abitudini disordinate di Vincent e la sua scarsa oculatezza nell'amministrare il denaro che avevano messo in comune.

Invece van Gogh manifestava un'aperta ammirazione per Gauguin, che considerava un artista superiore: riteneva che le proprie teorie artistiche fossero molto banali se confrontate con le sue e la propria resa pittorica sempre inferiore, persino grossolana, rispetto al modello naturale. Nelle sue memorie, Gauguin volle attribuirsi, generalmente a torto, il merito di aver corretto la tavolozza di van Gogh:

« Vincent, quando sono arrivato ad Arles, militava nella scuola neoimpressionista, anzi vi sguazzava, cosa che lo faceva soffrire, non perché questa scuola, come tutte le scuole, sia cattiva, ma perché non corrispondeva alla sua natura così impaziente e così indipendente. Con tutti questi gialli sui violetti, tutto questo lavoro sui complementari -lavoro disordinato, d'altra parte - non riusciva a raggiungere che delle dolci armonie, incomplete e monotone; ci mancava lo squillo di tromba. Mi assunsi il compito di chiarirglielo, e mi fu facile, perché trovavo un terreno ricco e fecondo »

Nei primi giorni del dicembre 1888 Gauguin fece il ritratto di van Gogh, rappresentandolo nell'atto di dipingere girasoli. Vincent commentò: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Nelle sue memorie Gauguin scrive che quella sera stessa, al caffé, i due pittori bevvero molto e improvvisamente Vincent scagliò il suo bicchiere contro la sua testa, che Gauguin riuscì appena a evitare: da quel momento Gauguin prese la decisione di partire da Arles. Seguirono giorni di tensione: anche una visita al museo di Montpellier per osservare le opere di Delacroix e di Courbet degenerò in litigio.

L'episodio più grave accadde il pomeriggio del 23 dicembre: van Gogh - la ricostruzione del fatto è tuttavia controversa - avrebbe rincorso per strada Gauguin con un rasoio, rinunciando ad aggedirlo quando Gauguin si voltò, affrontandolo. Tornato a casa, mentre Gauguin andò ad alloggiare in albergo, preparandosi a lasciare Arles, van Gogh, in preda ad allucinazioni, si tagliò metà dell'orecchio sinistro, lo incartò, lo consegnò a una prostituta del bordello che i due pittori erano soliti frequentare, e tornò a dormire a casa sua. La mattina seguente venne fatto ricoverare dalla polizia in ospedale: ne uscì il 7 gennaio 1889.

Suoi buoni amici, in questi frangenti, furono il dottor Rey, il pastore Salles e il postino Roulin, del quale aveva fatto qualche mese prima un ritratto rimasto celebre: in questa occasione dipinse cinque versioni del ritratto della moglie Augustine, spedendone una a Gauguin, e dipinse anche se stesso, con l'orecchio bendato. Alternava periodi di serenità, nei quali era in grado di valutare lucidamente e ironicamente tutto quello che gli era successo, a momenti di ricadute nella malattia: il 9 febbraio, dopo una crisi nella quale credette che qualcuno volesse avvelenarlo, fu nuovamente ricoverato in ospedale. Uscito, vi fu ricondotto in marzo dalla polizia a seguito di una petizione firmata il 26 febbraio da ottanta cittadini di Arles.

In ospedale, ricevette la visita di Signac, che ottenne il permesso di accompagnarlo nella sua casa gialla: «Per tutto il giorno mi parlò di pittura, di letteratura, di socialismo. La sera era un po' stanco. Tirava un maestrale spaventoso che forse lo aveva innervosito. Volle bere un litro di essenza di trementina che si trovava sul tavolo in camera. Era ora di rientrare all'ospedale».

ll 17 aprile il fratello Théo si sposò. Vincent scrisse alla sorella, come rassegnato di dover ormai convivere per sempre con la sua malattia:

« Leggo poco per aver tempo di riflettere. È molto probabile che abbia ancora tanto da soffrire. E questo non mi va affatto, a dire il vero, perché in nessun modo desidero il ruolo di martire Prendo tutti i giorni il rimedio che l'incomparabile Dickens prescriveva contro il suicidio. Consiste in un bicchiere di vino, un boccone di pane e di formaggio e una pipa di tabacco »

Al fratello espresse la volontà di essere internato in una casa di cura:

« Mi sento decisamente incapace di ricominciare a riprendere un nuovo studio e di restarci solo, qui ad Arles a te, a Salles, a Rey io chiedo di fare in modo che alla fine del mese o all'inizio di maggio io possa andare come pensionato internato se l'alcool è stato certamente una delle più grandi cause della mia follia, allora è venuta molto lentamente e se ne andrà molto lentamente, se se ne andrà Infine, bisogna prendere una posizione di fronte alle malattie del nostro tempo io non avrei precisamente scelto la follia, se c'era da scegliere, ma una volta che le cose stanno così, non vi si può sfuggire. Tuttavia esisterà forse ancora la possibilità di lavorare con la pittura »

L'8 maggio 1889 van Gogh, accompagnato dal pastore Salles, entrò volontariamente nella Maison de santé di Saint-Paul-de-Mausole, un vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico, a venti chilometri da Saint-Rémy-de-Provence.

A Saint-Rémy-de-Provence (1889)

La diagnosi del direttore della clinica, il dottor Peyron, fu di epilessia. Oggi si ritiene che van Gogh soffrisse di psicosi epilettica o "latente epilessia mentale": preceduti dallo "stadio crepuscolare", egli subiva attacchi di panico e allucinazioni ai quali reagiva con atti di violenza e tentativi di suicidio, seguendo alla fine uno stato di torpore. Nei lunghi intervalli della malattia era in grado di comportarsi in modo del tutto normale.

Nella clinica di Saint-Rémy non veniva praticata nessuna cura, a meno di definire cura i due bagni settimanali cui i pazienti erano sottoposti. Non se ne lamentava il pittore, che scriveva che «osservando la realtà della vita dei pazzi in questo serraglio, perdo il vago terrore, la paura della cosa e a poco a poco posso arrivare a considerare la pazzia una malattia come un'altra».

La finestra munita di sbarre guardava un giardino della clinica e, al di là di quello, i campi e, più lontano, le montagne delle Alpilles, l'ultima catena delle Alpi francesi. Aveva a disposizione per lavorare un'altra camera vuota, poteva anche andare a dipingere fuori dal manicomio, accompagnato da un sorvegliante, e si manteneva in contatto epistolare con il fratello che gli spediva libri e giornali.

« Osservo negli altri che anch'essi durante le crisi percepiscono suoni e voci strane come me e vedono le cose trasformate. E questo mitiga l'orrore che conservavo delle crisi che ho avuto oso credere che una volta che si sa quello che si è, una volta che si ha coscienza del proprio stato e di poter essere soggetti a delle crisi, allora si può fare qualcosa per non essere sorpresi dall'angoscia e dal terrore Quelli che sono in questo luogo da molti anni, a mio parere soffrono di un completo afflosciamento. Il mio lavoro mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo »

(Lettera a Théo van Gogh, 25 maggio 1889)

A giugno cominciò a dipingere cipressi: «il cipresso è bello come legno e come proporzioni, è come un obelisco egiziano. E il verde è di una qualità così particolare. È una macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una delle note più interessanti, la più difficile a essere dipinta che io conosca» [29] e spedì al fratello un gruppo di tele, che gli vennero lodate.

Ad agosto subì un grave attacco, con allucinazioni e un tentativo di suicidio, dal quale si rimise a fatica a settembre, quando ricevette la notizia che due suoi dipinti, la Notte stellata e le Piante di iris, erano state esposte al Salon des Artistes Indépendants di Parigi.

Nella Notte stellata van Gogh sembra allontanarsi decisamente dalla diretta osservazione della natura, per esprimere uno stato d'animo attraverso la libera fantasia, per liberare le proprie emozioni piuttosto che ricercare un aspetto nascosto del paesaggio. Ma in quella visione della luna, delle stelle e di fantasiose comete è «come se il cielo, passando attraverso i suoi gialli e i suoi azzurri, diventasse un irradiarsi di luci in moto per incutere un timor panico agli umani che sentono il mistero della natura». E l'intento perseguito nel Oliveto con nuvola bianca, viene spiegato da Vincent al fratello come risultato di ricerca stilistica:

« Gli ulivi con la nuvola bianca e lo sfondo di montagne, così come il sorgere della luna e l'effetto notturno, costituiscono un'esagerazione dal punto di vista dell'esecuzione; le linee sono incisive come quelle degli antichi legni. Là dove queste linee sono serrate e volute comincia il quadro, anche se può sembrare esagerato. È un po' quello che sentono Bernard e Gauguin. Non ricercano la forma esatta di un albero, ma vogliono assolutamente che sia definito se essa è tonda o quadrata, e io dò loro ragione, perché sono esasperato dalla perfezione fotografica e banale di certuni io mi sento spinto a ricercare, se vuoi, uno stile, ma intendendo con questo un disegno più maturo e più intenzionale gli studi disegnati con grandi linee nodose come nell'ultimo invio non erano quello che dovevano essere, ma voglio convincerti che nei paesaggi si continuerà ad ammassare le cose mediante un disegno che cerca di esprimere il groviglio delle masse »

A novembre ricevette l'invito a esporre sue tele all'associazione «Les XX», a Bruxelles: accettò, inviando sei quadri, due Girasoli, L'edera, Frutteto in fiore, Campo di grano all'alba e La vigna rossa.

Fu il pittore Bernard a invitare il critico d'arte Albert Aurier, redattore de «Le Moderniste» e ammiratore della letteratura simbolista, a interessarsi di van Gogh: questi pubblicò allora sul «Mercure de France» del gennaio 1890 l'articolo Les Isolés: Vincent van Gogh in cui analizzò ed esaltò entusiasticamente la sua pittura. Definì inizialmente la sua personalità:

« La scelta dei soggetti, il rapporto costante delle annotazioni più ardite, lo studio coscienzioso dei caratteri, la continua ricerca del segno essenziale per ogni cosa, mille significativi particolari testimoniano irrefutabilmente la sua profonda e quasi infantile sincerità, il suo grande amore per la natura e per la verità, per la sua verità. Ciò che caratterizza tutta la sua opera è l'eccesso, l'eccesso della forza, l'eccesso della nervosità, la violenza dell'espressione. nella sua categorica affermazione della caratteristica delle cose, nella sua sovente temeraria semplificazione delle forme, nella sua insolenza nel guardare il sole in faccia, nella foga del suo disegno e del suo colore, fino ai più piccoli particolari della sua tecnica, si rivela una personalità potente, maschia, audace, molto brutale ma a volte ingenuamente delicata. Questo, inoltre, si intuisce anche dalle esagerazioni quasi orgiastiche presenti in tutta la sua pittura: è un esaltato, nemico della sobrietà borghese e delle minuzie, una specie di gigante ebbro un genio folle e terribile, spesso sublime, qualche volta grottesco, quasi sempre svelante qualcosa di patologico »

In seguito, Aurier rintracciò la sostanza della sua pittura nella poetica del simbolismo: van Gogh percepirebbe
« le segrete caratteristiche delle linee e delle forme, ma più ancora dei colori, le sfumature invisibili alle menti sane, le magiche irradiazioni delle ombre egli è quasi sempre un simbolista perché sente la continua necessità di rivestire le sue idee di forme precise, consistenti, tangibili, di involucri materiali e carnali. In tutti i suoi quadri, sotto questo involucro fisico, sotto questa carne trasparente, sotto questa materia così materia, è nascosta, per gli spiriti che la sanno cogliere, un'Idea »

Per quanto riguarda la sua tecnica,

« l'esecuzione è vigorosa, esaltata, brutale, intensa. Il suo disegno rabbioso, potente, spesso maldestro e un po' grossolano, esagera il carattere, lo semplifica, elimina abilmente i dettagli, attinge una sintesi magistrale, qualche volta il grande stile è il solo pittore che che concepisca il cromatismo degli oggetti con questa intensità, con questa qualità da metallo prezioso »

Non credeva che van Gogh potesse mai godere di un successo che pure avrebbe meritato:

« quando anche la moda farà sì che i suoi quadri vengano comprati - cosa poco probabile - ai prezzi delle infamie di Meissonier, non penso che tanta sincerità possa suscitare la tardiva ammirazione del grosso pubblico. Vincent van Gogh è al contempo troppo semplice e troppo raffinato per lo spirito borghese contemporaneo. Sarà completamente compreso soltanto dai suoi fratelli, gli artisti »

Per quanto van Gogh potesse essere lusingato dalle lodi, giudicò l'articolo più un interessante pezzo di letteratura, piuttosto che un'analisi corretta della sua pittura. Al critico rispose direttamente che le valutazioni sul suo cromatismo gli sembravano più pertinenti se riferite a un pittore come Adolphe Monticelli e difese anche la pittura di Meissonier, per il quale espresse «un'ammirazione senza limiti».

Qualche giorno dopo si recò da solo ad Arles: al ritorno in clinica ebbe una grave e lunghissima crisi, dalla sembrava non potersi rimettere mai, tanto che fu lasciato a se stesso, libero di fare quel che voleva finché, ingeriti i colori, gli fu impedito di dipingere. Solo alla fine di aprile fu in grado di riprendersi e manifestò allora il suo desiderio di lasciare la clinica, vista la mancanza di benefici per la sua salute.

Si era intanto aperta a Parigi, il 19 marzo, una mostra dei pittori indipendenti, inaugurata dal Presidente della Repubblica - dimostrazione di quanto la moderna pittura impressionista, neo-impressionista e post-impressionista fosse ormai divenuta «rispettabile» - e van Gogh vi partecipava con dieci tele. erano esposti dipinti di Seurat, Signac, Toulouse-Lautrec, il doganiere Rousseau, Guillaumin, Dubois-Pillet, Théo van Rysselberghe, Anquetin, Lucien Pissarro, Henry van de Velde. Monet sostenne che le opere di van Gogh erano le cose migliori della mostra e anche Gauguin gli scrisse, congratulandosi: «con soggetti ispirati alla natura, là siete il solo che pensa»

Decisa ormai la partenza - «qui l'ambiente comincia a pesarmi più di quanto possa esprimere: ho pazientato più di un anno, ho bisogno d'aria, mi sento oppresso dalla noia e dal dolore» - i soggetti degli ultimi dipinti di Vincent a Saint-Rémy si alleggeriscono: sono rose e iris su un fondo uniforme, ora con un «effetto dolce e armonioso per la combinazione dei verdi, rosa, violetti», ora con «un effetto di complementari terribilmente disparati che si esaltano per la loro opposizione».

Il 16 maggio 1890 Vincent lasciò definitivamente Saint-Rémy per raggiungere il fratello a Parigi. Il direttore della clinica aveva rilasciato regolare autorizzazione e stilato l'ultima scheda. Rilevate le molte crisi avute dall'artista durante la sua permanenza, della durata ciascuna di alcune settimane - ma l'ultima di quasi due mesi - e i suoi tentativi di avvelenarsi con i colori e il petrolio, il dottor Peyron concludeva le sue osservazioni scrivendo: «Guarito».

A Auvers-sur-Oise (1890)

Van Gogh prese alloggio nel caffé-locanda gestito dai coniugi Ravoux, nella piazza del Municipio. Appariva abbastanza soddisfatto della nuova sistemazione: «Auvers è di una bellezza severa, e la campagna è caratteristica e pittoresca».In quegli stessi giorni van Gogh confidò che il suo maggior interesse, nella pittura, era il ritratto, «il ritratto moderno»:

« Vorrei fare dei ritratti che tra un secolo, alla gente di quel tempo, sembrassero delle apparizioni. Non cerco di raggiungere questo risultato attraverso la somiglianza fotografica, ma attraverso un'espressione appassionata, impiegando come mezzo di espressione e di esaltazione del carattere la nostra conoscenza e il nostro gusto moderno del colore »

In giugno Théo e la famiglia gli fecero visita e progettarono la possibilità di affittare a Auvers una casa dove Vincent avrebbe potuto vivere insieme a qualche altro artista. La visita fu ricambiata da Vincent il 6 luglio a Parigi, dove incontrò Toulouse-Lautrec e, per la prima volta, il critico d'arte Albert Aurier. In quei giorni Théo, oltre ad avere il figlio seriamente malato, era afflitto da problemi di lavoro: così, Vincent preferì ritornare presto a Auvers, non sopportando il clima di tensione che percepiva nella famiglia del fratello.

Cominciava a temere una nuova crisi, e l'eventualità lo rendeva particolarmente nervoso: ebbe una violenta lite con Gachet per motivi banali - gli rimproverava di non aver fatto incorniciare una tela di Guillaumin che il dottore teneva in casa - e scrisse al fratello:

« Credo che non bisogna contare in alcun modo sul dottor Gachet. Mi sembra che sia più malato di me, o almeno quanto me. Ora, quando un cieco guida un altro cieco, non andranno a finire tutti e due nel fosso? Non so che dire. Certamente la mia ultima crisi, che fu terribile, fu in gran parte dovuta all'influenza di altri malati; e poi la prigione mi opprimeva e il dottor Peyron non ci faceva caso, lasciandomi vegetare in quell'ambiente profondamente corrotto »

È certo che egli non faceva nulla per alleviare la sua solitudine nonostante ne fosse oppresso: non frequentò mai i non pochi pittori che soggiornavano a Auvers - uno di essi, l'olandese Anton Hirschig, alloggiava nel suo stesso albergo - anche se forse loro stessi, spaventati, lo evitavano, a causa della sua malattia. Per lo stesso Hirschig, egli «aveva un'espressione assolutamente folle, con gli occhi infuocati, che non osavo guardare»

Il suicidio

La sera del 27 luglio, una domenica, dopo essere uscito per dipingere come al solito nelle campagne che circondavano il paese, rientrò sofferente nella locanda e si rifugiò subito nella sua camera: al Ravoux che, non vedendolo presentarsi per il pranzo, salì per accertarsi della sua salute e lo trovò sdraiato sul letto, confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto in un campo vicino

Al dottor Gachet che, non potendo estrargli il proiettile, si limitò a fasciarlo ma gli esprimeva, per rincuorarlo, la sua speranza di salvarlo, rispose che egli aveva tentato coscientemente il suicidio e che, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto «riprovarci» - «volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca» - esclamò); rifiutò di dare spiegazioni del suo gesto ai gendarmi e, con il fratello Théo che, avvertito, era accorso la mattina dopo, Vincent passò tutto il 28 luglio, fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto: gli confidò ancora che la sua «tristezza non avrà mai fine». Sembra che le sue ultime parole fossero: «ora vorrei ritornare». Poco dopo ebbe un accesso di soffocamento, poi perse conoscenza e morì quella notte stessa, verso l'una e mezza del 29 luglio.

In tasca gli trovarono una lettera non spedita a Théo, dove aveva scritto, tra l'altro: «Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l'inutilità ... per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione ... ».

In quanto suicida, il parroco di Auvers si rifiutò di benedire la salma e il carro funebre fu fornito da un municipio vicino. Il 30 luglio la bara, rivestita da un drappo bianco e ricoperta di fiori gialli, fu calata in una fossa accanto al muro del piccolo cimitero di Auvers: assistevano Théo, che non smetteva di piangere, il dottor Gachet e i pochi amici giunti da Parigi: Lucien Pissarro, figlio di Camille, Emile Bernard, pére Tanguy.

Pochi mesi dopo anche Théo van Gogh venne ricoverato in una clinica parigina di malattie mentali. Dopo un apparente miglioramento, si trasferì a Utrecht, dove morì il 25 gennaio 1891. Nel 1914 le sue spoglie, per volontà della vedova, furono trasferite ad Auvers e tumulate accanto a quelle di Vincent.

L'arte di van Gogh

Non si può sostenere che la pittura sia stata una vocazione per van Gogh, che infatti cominciò a dipingere dopo aver compiuto ventotto anni. A giudicare dagli anni della sua piena giovinezza, se egli ebbe una vocazione, fu quella di essere vicino ai miseri della terra, i braccianti, i contadini poveri e gli operai per i quali il lavoro rappresentava la maggiore sofferenza, quelli delle miniere. Figlio di un pastore protestante, cercò di unire la solidarietà sociale al messaggio evangelico, ma la Chiesa ufficiale sembrò sospettosa e forse spaventata dell'unione di quel duplice messaggio e gli negò il suo appoggio.

Un'altra contingenza familiare - l'attività del fratello Thèo nell'ambito del commercio d'arte - lo indirizzò alla pittura, ove raccolse e fece proprio il messaggio, che non era soltanto artistico, ma ancora sociale ed etico, di Daumier, Courbet e Millet. La maggiore realizzazione di questo periodo fu I mangiatori di patate, nei quali, oltre a voler esprimere la propria simpatia verso gli umili, immedesimando in loro se stesso, volle sopratturro rappresentare - come scrisse - coloro che esprimono la dignità della propria umanità, vivendo pur miseramente ma del prodotto del loro lavoro, seppure, come è stato detto, egli qui non fu «ben servito né dal suo disegno pesante e materiale, né dal suo colore assai scuro e sporco, senza energia né vitalità». E tuttavia, ancora alla fine del 1887, da Parigi confidava che «le scene di contadini che mangiano patate» erano ancora le cose migliori che avesse mai fatto.

A Parigi van Gogh comprese la necessità di concentrarsi non tanto su un soggetto determinato, ma su come dipingere: assimilò il modo impressionista ma senza accettarlo, perché egli aveva necessità di porsi direttamente di fronte alle cose, eliminando la mediazione degli effetti atmosferici e delle vibrazioni di luce. Il paesaggio meridionale della Provenza, con la certezza della sua visione immobile e assolata, serviva al meglio al suo scopo.

Così, nella Pianura della Crau, dipinta nel giugno del 1888 ad Arles, i colori si distendono in zone compatte, susseguendosi in profondità,

« risultano a un tempo più intensi e preziosi e più calmi, di quella calma che è propria della certezza alfine raggiunta. Se in primo piano vi sono ancora i tocchi impressionistici, più lontano le zone danno al motivo una consistenza e una chiarezza assoluta. I toni di giallo, dal limone all'arancio, appaiono interrotti da una zona di verde, si spingono all'orizzonte che è alto ma lontano, così da apparire infinito, contro il cielo di un verde azzurro tendente al grigio. L'arte di van Gogh, che era estremamente soggettiva, si è fatta oggettiva, l'anima dell'artista si è distaccata dal suo prodotto, si è annullata nell'oggetto, l'ha reso stupendo per sé, un'immagine da adorare »

Ci si chiede perché egli abbia abbandonato la polemica sociale, pur mantenendo costante il suo impegno morale: o forse, se egli abbia realmente abbandonato quella polemica e non l'abbia invece trasformata in una ancora più generale e radicale.

Da Arles, nell'agosto 1888, scriveva di essere tornato alle idee sostenute prima di trasferirsi a Parigi, ossia alla necessità di rendere con maggior forza la realtà attraverso un uso «arbitrario» del colore: così, il ritratto di un artista dovrà essere sì il più fedele possibile quanto ai lineamenti, ma per esprimere che quell'artista «sogna sogni grandiosi» e «lavora come l'usignolo canta, perché così è la sua natura», dovrà esagerare il biondo dei capelli, arrivando fino «al limone pallido», e come sfondo, anziché la banale parete di un appartamento, dipingere «l'infinito», il «turchino più intenso e più violento», in modo che «la testa bionda illuminata sullo sfondo turchino cupo» ottenga un effetto misterioso, «come una stella nel profondo azzurro».

Detto altrimenti, si potrebbe sostenere che van Gogh,

« ha capito che l'arte non deve essere uno strumento, ma un agente della trasformazione della società e, più a monte, dell'esperienza che l'uomo fa del mondo. Nel generale attivismo, l'arte deve inserirsi come una forza attiva, ma di segno contrario: lampante scoperta della verità contro la crescente tendenza all'alienazione e alla mistificazione. Anche la tecnica della pittura deve mutare, opporsi alla tecnica meccanica dell'industria come un fare suscitato dalle forze profonde dell'essere: il fare etico dell'uomo contro il fare razionale della macchina. Non si tratta più di rapprsentare il mondo in modo superficiale o profondo: ogni segno di van Gogh è un gesto con cui affronta la realtà per cogliere e far proprio il suo contenuto essenziale, la vita »

Fonte : Wikipedia
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