RAFFAELE CORSO: Reputatrici calabresi    (7)

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                                     Da "CALABRIA letteraria - artistica - tuistica" - a. IX, maggio-giugno, 1961, pgg. 15-16

Reputatrici calabresi

                                                                               di RAFFAELE CORSO

       In uno zibaldone manoscritto in cui il benemerito cannico Vincendo Sorace (1769-1831) riassume le disposizioni sinodali di Nicotera, dove era Cancelliere della Curia vescovile, si legge che nel Sinodo celebrato il 24 luglio del 1588, il Vescovo Capece della diocesi, confermando le norme precedentemente emesse nel 1583, proibiva il repete ossia «quella sorta di canto lugubre, che si faceva dalle reputatrici sul cadavere e lo scarmigliarsi o svellersi dei capelli».

      Dopo tanto tempo e tante proibizioni ecclesiastiche, l'uso è completamente scomparso in Nicotèra, sebbene rimanga, qua e là, soprattutto nei villaggi, lo svellersi, dei capelli da parte delle donne che, affacciandosi dalle finestre e dai balconi, mostrano al pubblico l'interno strazio, scarmigliandosi e facendo cadere qualche ciocca sul feretro

     Per poter avere notizie dell'uso dobbiamo attendere, la pubblicazione del Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, in cui il Canonico Vincenzo Brancia di Nicotera prende la penna per informarci che «sulla morte della persone del popolo, le donne si scapigliano e intorno alla bara mandano urli da disperate, si strappano i capelli a |ciocche, e li depositano sul cadavere dell’estinto. Dalla parte del capo deve sistemarsi la donna più prossima in parentela al defunto. Tra le donne circostanti, a quando a quando, una di esse prende a dire le lodi del defunto con una specie di nenia che nomano ripetiamento ed allora cessano le altre di urlare e piangere.

      Vi sono talune nel volgo reputatissime per tale mestiere, le quali non lo esercitano a pagamento, come in alcuni luoghi fanno le moderne prèfiche, ma per amicizia e per riguardo a coloro verso i quali si sentono obbligati».

Indipendentemente dal canonico Branda, poi Vescovo di Ugento, nel 1874, il conte Vito Capialbi raccoglie dalla bocca di una delle:più vecchie reputatrici di Pizzo, alcune nenie funebri:per inviarle a Lionardo Vigo, che gliele aveva richieste, dicendo che in quel paese l'uso di piangere i morti era «una professione che si tramandava di madre in figlia» in determinate parentele.

      Secondo il Capialbi, le reputatrici, com’erano volgarmente dette le donne che facevano da prefiche (praeficae praetio conductae), vicine «al corpo dell'estinto» cantavano, o meglio i «ululavano vestite a bruno, con i capelli scarmigliati», pagate per elogiare il defunto.

      La costumanza è molto antica nella regione, e generalmente si fa, risalire, per le origini, ai Romani, che la diffusero e la divulgarono.

      Ma noi riteniamo che, in quanto al tempo, essa risalga al periodo greco, quando, secondo Eliano, Locrenses mortuos non lugebant, sed postquam cadaver efferrent et humarent, convivabant, che il Marafioti intende nel senso che i Locresi «non piangevano il morto, non perché veramente non piangessero, ma forse perché nel pianto dimostravano cantare ch’insino ad oggi usano le donne Locresi, e per tutto il territorio, piangere il morto a questa guisa, s'accoppiano due donne, o tre, le quali, con voci accordate, in mesto canto, cantano alcune lodi del morto, e le canzoni sono in tale rima, che subito finite dalle due, o tre donne, la canzone riprendono tutte le altre, quali stanno intorno e piangendo cantano con 1’istesso tono, sì che il pianto sovra il morto, non pare né canto, né pianto; ma piuttosto una nenia, nè' di allegrezza, nè di dolore».

A questa lunga tradizione, forse, riportasi il proverbio volgare, che dice, a proposito del pianto nelle nozze, pel distacco della sposa, e del canto nei morti, per elogiare l'estinto :

                                                      Non c'è matrimoniu senza chiantu,

                                                      Nè mortu senza cantu.

     Comunque, la morte è considerata la maggiore delle sventure, onde la violenta manifestazione delle donne che, disciolti i capelli, fanno, cordoglio intorno alla bara. Lo sfogo è obbligatorio per le donne della casa; ond'esse gridano, piangono e lodano il morto, altrimenti si espongono alla maldicenza del popolo piagnone, che a Cosenza prendono il nome di «chiagnitore» dal loro ufficio di piangre i morti, mentre i loro carmi sono appellati «dittagi» dal fatto che di dire i principali episodi della vita o le «lodi», dal particolare dell’elogio pronunziato.

     Partendo da questa idea, non ci sembra esatta la distinzione, che alcuni pretendono di fare tra «repetitrici» e «reputatrici», attribuendo alle prime la parte del coro, che ripete o fa eco alla voce della donna, che intona la nenia; e alle seconde la reputazione o la stima o l'elogio del defunto. Ciò facendo, si mostra di non tener conto della corruzione apportata dal popolo al verbo «reputo» trasformato in «repeto». Basta ricordare che le Costituzioni Sinodali celebrate in Tropea nel 1687, un secolo dopo quelle nicoteresi, dispongono il divieto di tutto ciò che «reputa vulgo vocantur, mulierum convocata multitudine, canere, poena excomunicationis».

     Sebbene nulla di particolare, il Sorace dica sul tenore delle nenie, bisogna convenire col Pitrè e col Salomone Marino, che alle reputatrici dedicò uno speciale studio, che la parola «reputatrice» è di derivazione meridionale, calabro-sicula,
per indicare le prefiche; e che nonostante nulla si sappia del variare delle nenie rispetto all'età, al sesso e alla condizione sociale, i canti lugubri si, rassomigliano nel contenuto e .nella forma, specie, quelli del Mezzogiorno, sia per la monotonia
dell'uso, sia perché, trattandosi di donne prezzolate, senza fantasia e sentimento.

Un esempio dell'identità intrinseca e formale di tali funebri cantilene, nel Mezzogiorno è dato dal raffronto tra un frammento raccolto dal conte Vito Capialbi, nel 1847, in Pizzo e un altro raccolto dal Pitrè, in Sicilia, e pubblicato nel 1889. Il primo frammento dice:

      Dunni vinni stu nuvulu?

      Vinni di l’autu mari.

                 Trasìu di la finestra

                  ruppìu lu spicchìali;

il secondo, con le identiche parole, così si esprime:

                 Dunni vinni sta nevula?

                 Vinni di l'autu mari.
                 Trasiu di la finestra,

                 Mi ruppiu lu spicchiali.


      La consonanza dialettale, e specialmente della fonetica siciliana e quella calabrese, l'unione politica delle regioni meridionali, contribuirono :all’adozione di siffatta cantilena; come contribuirono a diffondere nella Sicilia, nella Calabria e nelle province napoletane, in genere, il canzoniere popolare.

                                                                                                    RAFFAELE CORSO