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LA SUICIDA

della Torre di Joppolo

 

   

    Bianca Vasquez, una di quelle creature che la campagna calabrese sa creare sane e forti, era figlia di contadini. Nelle sue vene scorreva il buon sangue Andaluso, perché gli avi di lei, in tempi remoti, costretti ad emigrare, si erano trasferiti nelle nostre ospitali contrade, dove avevano saputo vivere bene e rispettati, lavorando quali fittavoli.

    Era bella, bruna, dai capelli corvini e dagli occhini neri, parlanti.

    Avea modi cortesi e spigliati che la rendevano cara a tutti. Alla bellezza fisica accoppiava la purità dei costumi e la costante laboriosità. La chiamavano la Gemma dei campi.

    A diciassette anni appena era passata sposa ad un giovane virtuoso della riviera e viveva da moglie modello e da madre virtuosa quando il crudele destino volle colpirla dei suoi strali avvelenati.

    Ebbe due angeli di bambini e la sventurata entrò nell’invidiata casa trovando la Bianca in procinto di nuovo parto.

    Il marito di lei, giovine ornato delle virtù più spiccate, una sera nel rincasare dal lavoro, fu colto da grave malore. Le cure affettuose dei sanitari ed i sacrifici della propria compagna non valsero a salvarlo e dovette soccombere peri germi del triste male.

    L’infelice, rimasta vedova, affrante dal dolore, fu sorretta dal sentimento del dovere e dall’affetto delle proprie creature e, con sacrifici e privazioni d’ogni genere, campava alla meglio la vita, dedicando le ore della notte al lavoro della rocca e del telaio.

    Era divenuta madre per la terza volta, dopo appena quaranta giorni dalla perdita del marito ed al pargoletto aveva imposto il nome del suo adorato scomparso, a conferma di eterna ed incontaminabile fede.

    Nestore era un vero angioletto puro conforto dei materni affanni. Nel libro del destino era scritta, a caratteri di fuoco, la sorte degli infelici…

    Trascorso appena un anno dalla perdita del marito, la bimba più grandicella, Lia, colta dallo stesso male paterno, fin tra le braccia dell’infelice madre, che non seppe trovar più conforto nelle diuturne lagrime e nel lavoro.

    Incominciò a venir meno all’infelice anche l’assistenza dei vicini di casa e delle amiche, che nei tempi prosperi ella avea beneficiati, talchè non le rimase che il palpito della delirante passione pei figli ancor vivi ed il timore di doverli perdere.

    Il triste presentimento materno doveva avverarsi !

    La seconda figlia Nedda si era ammalata e dopo due mesi di continue sofferenze, una sera dell’ottobre, mentre sulle vie cadevano i primi goccioloni autunnali, le ali della morte battevano sull’invetriata della casa derelitta.

    La piccola Nedda scese nella tomba, lasciando l’infelice nel tormentoso dolore che solo può comprendere che è madre.

    La forte tempra della donna calabrese, provata così duramente dal fato, avea ricevuto un colpo letale, fatto ancor più grave dal costante pensiero di dover forse perdere anche il piccolo Nestore.

    Non sapea più staccarsi dalla sua creatura. Non sapea che fare, né che pensare, per allontanare dal superstite la temuta falce della morte. Non dormiva più, né aveva la forza di animo di accudire ad alcun lavoro, e rimaneva giorno e notte con la propria creaturina tra le smagrite braccia, vivendo di astinenze incomprese e letali.

    Un giorno la infelice, costretta a parlare con una donna, sedicente amica, ebbe a sapere che per la possibile salvezza del figlioletto, si sarebbe dovuta allontanare dal paese. Questo nuovo lampo di speranza costituì, per l’infelice Bianca, un pensiero ancor più tormentoso.

    Era necessario allontanarsi … Se non si fosse allontanata, il suo Nestore sarebbe morto come Lia e Nedda…

    E dove recarsi ? A chi chiedere consigli ed aiuti ? Non avea ella visti allontanarsi dalla sua casa, dopo i tristi giorni di dolori e di miseria, i parenti e gli amici ? Non avea provate le mille amare disillusioni per la finta pietà di parolai benestanti e di sedicenti caritatevoli che antepongono il proprio brutale egoismo ad ogni atti di vera pietà?

    Tutto ciò non poteva non preoccupare sempre più la povera donna …. Una sera, sull’imbrunire, Bianca Vasquez, ravvolto il suo Nestore in una sciarpa di lana, raccolti in unico fagottino i pochi stracci che le erano rimasti, senza dir parola ad alcuno, prese a battere la via che pei campi conduce a Nicotera.

Sperava di poter giungere in quel Comune per invocare assistenza e protezione da una antica famiglia ai di cui servizi i genitori di lei erano stati quando essa era bambina.

    Povera creatura … Camminò tutta la notte e l’alba la colse proprio nei pressi della torre di Joppolo.

Era stanca e sfinita. Intese il bisogno di fermarsi e si adagiò sul gradino della torre cadente.

    Altri avrebbe goduto del panorama incantevole di quel grandioso quadro di naturali bellezze che solo può dare il sorgere del sole sul cangiante verde marino, strato di squame d’argento, ma l’infelice non avea nella mente e nel cuore se non che il pensiero del suo Nestore ed i baci e la carezze dei poveri defunti.

    Intanto il bambino, che il moto della madre in cammino avea tenuto sino allora assonnato, si destò e prese a piagnucolare per fame.

    Cosa dargli? La povera donna bacia e ribacia la creatura e questa apre la boccuccia, come per succhiare dalla materna bocca il nutrimento che brama. Bianca freme… non ha nulla che possa tacitare per poco gli stimoli della fame infantile…perde ogni energia e viene assalita da uno sconforto profondo …     Un pensiero ben triste l’assale…

    Il mare potea dirsi un vero specchio smeraldino di limpidità purissima. I primi raggi del sole irradianti la superficie quasi immota pareano gemme cadenti dal cielo. La bianca e cheta schiuma marina, verso il lido, parve alla povera madre latte d’angeli montato dalle mani della Divinità per beneficare i mortali. Bianca sale sul cadente ianerottolo della torre, insensata guarda il mare e sorride, poi ripone la bocca sel duo Nestore sulle sue smunte labbra e stringe forte forte al seno l’incosciente creatura…

    Un tonfo sordo … tetro … crudele e poi nulla più …. !

    Il panorama incantato rimase ad esternare il godimento dei gaudenti mentre i profondi del calabro tirreno seppero del materno sacrificio che pur la diuturna pietà di pochi buoni avrebbe potuto serbare alla vita…

 

 

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Bianvich

 

 

Estratto da : La Campana della Carità – Rivista mensile illustrata - Organo dell’istituto di propaganda pro Opere Assistenziali della Provincia di Catanzaro – Bollettino Federale dell’Opera Nazionale per l’assistenza della maternità e dell’Infanzia. Anno I, n. 2 – Agosto 1927 – Anno V. E. F – Tipo-Editrice Brutia, Catanzaro 1927.

Direttore Fondatore Vincenzo Bianchi