Intervista al segretario generale della Fiom
Rinaldini: «Il sindacato deve pensare europeo»
"Liberazione", 9 luglio 2006 di Andrea Milluzzi.
Delocalizzazioni, direttive europee - come la Bolkestein -, manovre delle grandi multinazionali: nell’Europa che si è aperta al mercato e che si sta trasformando di nuovo sotto l’impulso dei movimenti epocali dell’economia internazionale, anche i temi del lavoro non possono più permettersi di stare all’interno del loro alveo nazionale. Non che si parta da zero, ma il movimento sindacale europeo è un’entità che deve ancora prender corpo. Chi ci sta provando con più convinzione è il sindacato metalmeccanico e verrebbe da dire che non poteva essere altrimenti, quando, come sempre, le tute blu sono i lavoratori più esposti a finire come prime vittime sacrificali sul piatto del dio mercato. Liberazione prova a capire a che punto è il percorso e quale ne sia la meta, con il segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini.
C’è la necessità di un sindacato internazionale?
Rispetto ai processi in atto - liberismo, globalizzazione - il sindacato deve necessariamente puntare ad un ruolo di dimensione europea. Altrimenti, aldilà delle scelte prese in questo o quel Paese, si corre seriamente il rischio di essere travolti. In realtà però sia le organizzazioni europee che quelle internazionali sono ben lontane non da capire questa necessità, ma dall’esprimere una volontà precisa di andare in questa direzione. Siamo ancora fermi sul terreno dei coordinamenti, esperienze importanti che ci hanno portato a uno sciopero europeo e ad una giornata dedicata alla Fiat, ma da qua a dire che siamo ad un livello adeguato per andare a contrattare con delle controparti che agiscono su diversi paesi, ce ne passa. Perché contemporaneamente si potrebbero fare mille esempi dove invece è prevalsa la contrapposizione fra stabilimenti di diversi paesi, giocando una gara a chi offre condizioni migliori alle imprese, e quindi peggiorative per i lavoratori e le lavoratrici. E molte volte queste cose non emergono.
Perché? Per una sorta di “nazionalismo sindacale?
Perché da una parte c’è ancora l’illusione di potersi difendere in una dimensione nazionale e dall’altra ci sono storie sindacali e politiche totalmente diverse. Poi anche le strutture contrattuali e le stesse organizzazioni sindacali variano di paese in paese.
Ci sono stati episodi di movimento sindacale europeo, penso alla mobilitazione
anti-Bolkestein...
E’ vero, non ho intenzione di sottovalutare gli elementi di avanzamento e di passaggio delle difficoltà, come è stata appunto la Bolkestein, o la direttiva sull’orario del lavoro. Dico però che sono sempre in ritardo rispetto alla velocità dei processi a cui andiamo incontro. Per questo dico che andrebbe cercata una forzatura, una rottura di questi processi graduali di cui non si capiscono i tempi.
Come farlo? A breve ci sarà il congresso della Ces, potrebbe essere l’occasione
buona...
Bisogna discuterne, ma la Fiom, che già da alcuni anni va proponendo la costruzione di un sindacato europeo, è già andata sotto al congresso della Fem. Ripeto, questa consapevolezza deve essere ancora acquisita. Tenendo conto che in alcune zone d’Europa i sindacati stanno dentro le aziende private e che in altre il tasso di sindacalizzazione è ancora molto basso. Si parla tanto della Francia, ma là tutti i sindacati rappresentano il 9-10% dei lavoratori. E il dato non è poi così diverso in Spagna. Dove il sindacato continua ad avere un ruolo fondamentale è in Germania, la struttura produttiva dell’Europa con i suoi 4 milioni di metalmeccanici. Non è un caso che fra le operazioni fatte dalla Fiom c’è la creazione di un rapporto diretto con l’Ig Metall. Proprio la settimana scorsa abbiamo fatto un incontro per discutere sulle dinamiche contrattuali, e ne abbiamo già calendarizzato un altro sull’orario di lavoro.
Si può creare un’ “asse” Fiom-Fem? Quali scenari potrebbe aprire?
Guarda, il segretario della Fem diceva come, aldilà dei dati macroeconomici, i processi sociali in Germania non sono diversi da quelli in italia. Un esempio sono le delocalizzazioni, rispetto alle quali i tedeschi che hanno un alto costo del lavoro - altro che quello italiano - sono i più esposti, tanto che per evitarle hanno dovuto firmare anche accordi peggiorativi. In Germania ci sono strutture sindacali e negoziali vecchie di 50 anni, tanto era considerato al sicuro il sindacato, ma la velocità dei processi ha incrinato le difese e anche per questo hanno cominciato ad aprirsi ad una discussione più seria a livello europeo. E’ evidente che dipenderà da loro il futuro del sindacato europeo, e se anche loro dicessero che ce ne è bisogno, allora forse potremmo finalmente pensare di costruirlo.