LA CGIL BUTTA VIA IL CONGRESSO E SPRECA LA GRANDE OCCASIONE

Riflessione amara sul sindacato che ha paura di discutere .

Giorgio Cremaschi

La Cgil sta buttando via il suo congresso. La più importante struttura dell'organizzazione, la Lombardia che ha 900.000 iscritti, conclude la propria assise congressuale con rotture profonde. Il segretario di una delle più importanti camere del lavoro, quella di Brescia, decide di non entrare nel direttivo regionale per protesta contro un non rispetto del voto degli iscritti, che, a suo giudizio, riporta la vita interna della Cgil indietro di decine di anni. Quando allo stesso modo si conclude il congresso della camera del lavoro di Torino, mentre in tante realtà il percorso congressuale si sviluppa tra rotture, incomprensioni e intolleranze, bisognerebbe avere il coraggio di dire che qualcosa di fondo non va. Al contrario, sinora assistiamo a lamentele e prediche contro il destino cinico e baro e, come al solito, al rimprovero che viene dalle maggioranze nei confronti di minoranze e dissensi che non sanno stare al loro posto. Eppure il congresso si era avviato con una piattaforma unitaria su molte questioni di fondo e con l'idea che la differenza su questioni importanti, la contrattazione e la democrazia sindacale in primo luogo, non dovesse riprodurre le contrapposizioni frontali del passato. Invece sinora è andata persino peggio che nel passato, perché da un lato si è amministrata la vita interna come se ancora ci fossero mozioni, maggioranze minoranze; dall'altro però si è negata alle differenze reali la dignità del riconoscimento politico. Le tesi alternative presentate da Gianni Rinaldini hanno tenuto tra i 15 e il 20% dei consensi. Nei grandi centri industriali esse sono generalmente sopra il 20%. A sua volta, la tesi presentata dal gruppo dirigente di lavoro società ha ottenuto poco più del 10% dei voti.Ebbene tutto questo, nei congressi successivi a quelli nei luoghi di lavoro, pare non avere alcun valore. Prima di tutto pesa il cosiddetto " patto dei dodici segretari uscenti ". Quello secondo il quale, indipendentemente da tutto, i gruppi dirigenti del sindacato dovrebbero essere definiti risalendo al 80%, raccolto dal documento che nel 2001 aveva come primo firmatario Sergio Cofferati, e dal 20% allora raggiunto dalla minoranza di lavoro e società. Può sembrare paradossale, ma secondo questa logica il voto attuale degli iscritti non conta: il congresso del 2006 è definito con i voti di quello del 2001. Già questo, ovviamente, determina un primo cortocircuito. Perché è chiaro che, soprattutto dove il voto alle tesi alternative non è marginale, la rigida applicazione di quel patto mette in discussione alla radice la possibilità che gli organismi della Cgil rappresentino l'opinione degli iscritti. Così il principio democratico " una testa-un voto ", viene soverchiato da quello delle rappresentanze di struttura, degli equilibri d'apparato, dei pesi definiti a tavolino per le correnti. Ma non c'è solo questo. La verità purtroppo è che nella Cgil, mentre la Fiom era impegnata drammaticamente nelle vicende contrattuali, si è diffuso lo spirito di rivalsa e di polemica verso il gruppo dirigente e le esperienze di questa categoria. Spesso sono proprio i quadri confederali e la vecchia corrente di sinistra di lavoro società, che si distinguono in questo clima. Essi, ad esempio, hanno approvato gran parte degli accordi sinora sottoscritti nelle altre categorie e a livello confederale, riservando evidentemente tutto il loro spirito critico verso quello dei metalmeccanici, che peraltro sarà l'unico ad essere sottoposto al voto dei lavoratori. Un certo rancore da parte di chi, in questi anni, si è più distinto per l'impegno a garantire collocazioni e promozioni nei gruppi dirigenti, piuttosto che sul piano della battaglia ideale e delle esperienze,è in fondo scontato. Esso però non spiega tutto. Credo che all'origine delle polemiche ci sia una questione politica, cioè la scelta da parte del gruppo dirigente confederale di rinviare il confronto su temi sindacali che sono sempre più pressantemente all'ordine del giorno. Subito dopo la firma dell'accordo per i metalmeccanici, la presidenza della Confindustria è partita alla carica verso le Confederazioni, rivendicando quella flessibilità che non aveva ottenuto in quella vertenza e rilanciando l'attacco al contratto nazionale. Non solo da parte del governo Berlusconi, ma anche in tutto il mondo liberista del centro sinistra, questa offensiva ha trovato eco. Pietro Ichino ha dato ad essa una veste compiuta. In fondo si tratta di far fare al contratto nazionale lo stesso percorso della scala mobile: un lento ridimensionamento fino alla sua scomparsa. La Cgil finora ha preso tempo, sperando forse che un nuovo governo di centro sinistra sia più disponibile a dare una mano. Così però, certe pratiche profondamente diverse si sono incancrenite nell'organizzazione. La Fiom ha respinto l'esigibilità della flessibilità, che invece è stata sottoscritta in diversi contratti. Sul salario l'accordo dei metalmeccanici allude alla possibilità non semplicemente di difendere, ma addirittura di rafforzare il peso salariale del contratto nazionale, ridistribuendo in quella sede una quota della ricchezza complessiva. Poi, come si è detto, i metalmeccanici fanno il referendum sugli accordi, mentre di altri non si sa neppure che cosa sia avvenuto nelle assemblee. Se il congresso non si confronta liberamente su questi nodi centrali, ai quali si aggiunge oggi l'emergere di rilevanti differenze su vicende come quella della TAV, allora è inevitabile che puoi rifluisca verso il conflitto sugli equilibri politici nei gruppi dirigenti. A sua volta tale conflitto, viene poi alimentato da una maggioranza congressuale che dichiara di non esistere, ma nello stesso tempo pretende di essere presente nei gruppi dirigenti fino all'ultima virgola percentuale. In questo modo si spreca una grande occasione. Questo congresso potrebbe davvero svolgere una funzione innovativa, anche rispetto al confronto politico più generale. Il congresso poteva approfondire e chiarire le differenze, nell'ambito di una comune piattaforma che rivendica una nuova politica economica sociale. Poteva interrogare l'organizzazione sindacale sulle proprie pratiche concrete,sulle proprie difficoltà e crisi, sui drammatici problemi quotidiani del mondo del lavoro. Per fare questo bisognava saper dare la giusta dimensione a ciò che è comune, così come a ciò che è differente. Invece questo non sta avvenendo. Naturalmente tutti diranno che è colpa di tutti, però, in un congresso che si avvia con un patto tra i segretari uscenti e nel quale, in ogni caso, c'è una maggioranza di voti del 75% sulle tesi del segretario generale, è difficile pensare che tocchino ad altri le responsabilità.