Moltitudine/classe operaia

 

Mise en ligne mai 2002

 

Vi sono alcune analogie e molte differenze tra la moltitudine contemporanea e la moltitudine studiata dai filosofi della politica seicentesca. Agli albori della modernità, i "molti" coincidono con i cittadini delle repubbliche comunali anteriori alla nascita dei grandi Stati nazionali. Quei "molti" si avvalsero del "diritto di resistenza", dello ius resistentiae. Tale diritto non significa, banalmente, legittima difesa : è qualcosa di più fine e complicato.

Il "diritto di resistenza" consiste nel far valere contro il potere centrale le prerogative di un singolo, di una comunità locale, di una associazione di mestiere, salvaguardando forme di vita già affermatesi a tutto tondo, proteggendo consuetudini già radicate. Si tratta dunque di difendere un che di positivo : è una violenza conservatrice (nel senso buono, nobile del termine). Forse lo ius resistentiae, ossia il diritto di proteggere qualcosa che già esiste e sembra degno di durare, è ciò che più accomuna la multitudo seicentesca alla moltitudine postfordista. Anche per quest’ultima, non si tratta certo di "prendere il potere", di costruire un nuovo Stato, un nuovo monopolio della decisione politica, ma di difendere esperienze plurali, embrioni di sfera pubblica non statale, forme di vita innovative. Non guerra civile, ma jus resistentiae. Altro esempio. Tipico della moltitudine postfordista è di provocare il collasso della rappresentanza politica : non come gesto anarchico, ma come ricerca pacata e realistica di istituzioni politiche che eludano miti e riti della sovranità. Già Hobbes metteva in guardia contro la tendenza della moltitudine a dotarsi di organismi politici irregolari : "nient’altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente prive di un’unione finalizzata a qualche disegno particolare o determinata da obbligazione degli uni verso gli altri" (Leviatano, cap. XXII). Ma è ovvio che la democrazia non rappresentativa basata sul general intellect ha tutt’altra portata : niente di interstiziale, marginale, residuale ; piuttosto, la concreta appropriazione e riarticolazione del sapere/potere oggi congelato negli apparati amministrativi degli Stati.

E veniamo alla differenza capitale. La moltitudine contemporanea porta in sé la storia del capitalismo. Di più : essa fa tutt’uno con una classe operaia la cui materia prima è costituita dal sapere, dal linguaggio, dagli affetti. Vorrei dissipare, per quanto posso, una illusione ottica. Si dice : la moltitudine segna la fine della classe operaia. Si dice : nell’universo dei "molti", non c’è più posto per le tute blu, tutte uguali, che fanno corpo tra loro, poco sensibili al caleidoscopio delle "differenze". Chi dice questo, sbaglia. Ed è un errore privo di fantasia : ogni vent’anni c’è chi annuncia la fine della classe operaia. Eppure quest’ultima non si identifica, né in Marx né nell’opinione di qualsiasi persona seria, con una specifica organizzazione del lavoro, uno specifico complesso di abitudini, una specifica mentalità. Classe operaia è un concetto teorico, non una foto-ricordo : indica il soggetto che produce plusvalore assoluto e relativo. La nozione di ’moltitudine’ si contrappone a quella di ’popolo’, non a quella di ’classe operaia’. Essere moltitudine non impedisce affatto di produrre plusvalore. E, d’altra parte, produrre plusvalore non implica affatto la necessità di essere politicamente "popolo". Certo, allorché la classe operaia non è più popolo, ma moltitudine, cambiano moltissime cose : a cominciare dalle forme dell’organizzazione e del conflitto. Tutto si complica e diventa paradossale. Quanto sarebbe più semplice raccontarci che ora c’è la moltitudine, non più la classe operaia... Ma se si vuole semplicità a tutti i costi, basta scolarsi una bottiglia di vino rosso. E poi, sia detto per inciso, vi sono brani dello stesso Marx in cui la classe operaia perde i tratti fisiognomici del "popolo" e acquista quelli della "moltitudine". Un esempio solo : si pensi all’ultimo capitolo del primo libro de Il Capitale, dove Marx analizza la condizione della classe operaia negli Stati Uniti (cap. XXV, "La moderna teoria della colonizzazione"). Ci sono, lì, grandi pagine sul West americano, sull’esodo, sull’iniziativa individuale dei "molti". Gli operai europei, scacciati dai loro paesi da epidemie, carestie, crisi economiche, vanno a lavorare nei grandi centri industriali della costa Est degli Usa. Ma attenzione : ci restano alcuni anni, soltanto alcuni anni. Poi disertano la fabbrica, inoltrandosi a Ovest, verso le terre libere. Il lavoro salariato, anziché ergastolo, si presenta come un episodio transitorio. Sia pure per un solo ventennio, i salariati ebbero la possibilità di seminare il disordine nelle ferree leggi del mercato del lavoro : abbandonando la propria condizione di partenza, determinarono la relativa scarsità di manodopera e, quindi, la lievitazione delle paghe. Marx, descrivendo questa situazione, offre un ritratto assai vivido di una classe operaia che è anche moltitudine.