RIGENERAZIONI POLITICHE

 

Le ragioni di un confronto su pratiche politiche, modalità di lotta e partecipazione

per una nuova sinistra unita ed alternativa

 

 

 

Le prossime politiche non sono elezioni “normali”. Il centro sinistra ha retrocesso all’ultimo posto dell’agenda politica della coalizione l’allarme sugli effetti nefasti derivanti dall’ipotesi di una sconfitta, eventualità sempre immanente a qualunque tipo di elezione, ma che questa volta, evidentemente, pare tanto improbabile. Ammesso che sia difficile stabilire i confini della reale convinzione con quelli della propaganda rassicurante, e che la scaramanzia non è una categoria politica, non condividiamo l’approccio “ottimistico” dei vertici dell’Unione.

Il centro della battaglia  non potrà non essere la consapevolezza che dall’esito del voto dipenderà la tenuta della democrazia italiana e l’equilibrio tra i poteri dello stato. A dar ragione a molti editorialisti riformisti questa parrebbe un’esagerazione…

E’ però vero che, da una parte il potere giudiziario, dopo le riforme già votate (e quelle calendarizzate nel prossimo futuro) corre il rischio di essere sottoposto  ai “desiderata” di quello legislativo, dall’altra quest’ultimo, ancor più di quanto è già avvenuto nella scorsa legislatura, sarebbe prevedibilmente ridotto a mero esecutore materiale dei diktat dell’esecutivo. L’elezione del nuovo presidente della repubblica, ultima carica cui appellarsi per un bilanciamento dei poteri, sarebbe anch’esso espressione dalla sola maggioranza, nella probabile persona dell’attuale presidente del consiglio. Per non parlare poi di tutti gli effetti che deriverebbero da un simile scenario nelle altre casamatte dei poteri. Non è per dare un dispiacere a chi non vuol sentire nemmeno parlare di “regime,” ma non appartiene alla nostra cultura l’idea che le garanzie che rendono tale una democrazia risiedano nella sola facoltà di andare a votare una volta ogni cinque anni.

Dunque siamo i primi a ritenere assolutamente prioritaria la battaglia contro la riconferma di questo governo, però siamo anche convinti che questa lotta non possa esaurire i nostri obiettivi imprescindibili.

 

Non basta liberarsi di Berlusconi per liberarsi del Berlusconismo.

L’imprimatur del cavaliere sulla scena politica italiana ha inquinato profondamente modi, metodi e strutture dialettiche, ed è dalla radice che bisogna eliminare il problema, se non vogliamo che esso si ripresenti, sotto nuove e mutate sembianze, anche a sinistra. Il modello di governo Berlusconiano non trova le sue specificità, se vogliamo irrepetibili, solo per i vantaggi arrecati a se stesso ed ai suoi amici, ma anche, e soprattutto, per i modi di gestione del potere: solitario, autoritario, decisionista che non sopporta quelle forme di dialettica e controllo tra poteri che la democrazia impone. I sintomi di questa malattia, in realtà, traggono origine da molto più lontano[1].  Il sentiero di quella <<crisi della politica, quella dei partiti che non fanno più politica >>  è uscito dai confini dell’analisi  Berlingueriana contaminando l’intero panorama politico e rendendo così sempre più rara la sopravvivenza di quei soggetti <<anomali>> che un tempo segnavano i limiti di quella <<diversità>>,  rivendicata da una grossa fetta della sinistra. La crisi post ’89 ha trovato in Berlusconi soltanto un mirabile interprete, che, semmai, proprio perché rilevatosi un modello vincente e non estraneo alla cultura morale di cui il nostro paese spesso si è nutrito, ha cosi ben “attecchito” da risultare, in buona o cattiva fede, esportabile anche altrove: il plebiscitarismo, la gestione autoritaria delle assemblee; gli scontri tra i signori delle tessere che muovono, da soli, le geopolitiche interne portandosi dietro interi pezzi di partito (o di istituzioni); le dubbie anagrafi degli iscritti i cui picchi seguono le curve dei congressi; il centralismo delle decisioni e lo svilimento della militanza sul territorio; l’istituzione di società fantasma a partecipazione pubblica, esistenti solo sulla carta ed utili al solo scopo di garantire consulenze e stipendi come contropartita per chi è fuori dai giochi istituzionali; il potere di eterodirezione dei rappresentanti istituzionali sugli organismi di partito; l’annacquamento del peso decisionale di organismi dirigenti sempre più pletorici e sempre più inutili perché bypassati dalle dichiarazioni (mai discusse e nemmeno condivise) davanti stampa e televisioni dei nuovi “avanguardisti solitari” che vengono chiamati leader. Il tutto condito da una rincorsa alla sovraesposizione mediatica ed alla costruzione di piccoli (e grandi) potentati economici e clientelari al fine di mantenere e gestire il potere, sempre e comunque, a qualunque costo.

              

            Tanti gli esempi. In Campania, il “Bassolinismo”:  Dopo aver abilmente galleggiato per anni sull’area di senso rappresentata dalla retorica della modernizzazione italiana-antipartitica e personalistica, il sindaco “più carismatico d’Italia” durante l’ultimo mandato di governatore/presidente ha perseguito ostinatamente il consolidamento di un potere quasi regio intorno palazzo Santa Lucia. Sia con fortissimi mezzi di “condizionamento” interno ai partiti (DS in primis, ma non solo) sia con  gli strumenti della macchina della regione: la moltiplicazioni delle commissioni, i tentativi di  modifica dello statuto regionale, e i commissariati straordinari. Si è quindi adoperato in un’opera di privatizzazione, e lottizzazione, degli enti pubblici: da quello sanitario locale, a quello sul diritto allo studio, passando per la gestione dell’infinita emergenza rifiuti fino all’ultima crociata sulla privatizzazione dell’acqua.

Parte da integrare necessariamente con altri esempi di degenerazioni del centro sinistra nelle sua funzione di governo …………………………………………………………………………………………………………………………

               Se vogliamo ribaltare gli effetti degenerativi delle pratiche politiche che l’hanno contaminata, la sinistra deve avviare su stessa una discussione molto più profonda. La possibilità della trasformazione radicale della società non abita i paesi privi del lavoro diffuso di centinaia di migliaia di cittadini e militanti ed è proprio questo il patrimonio che sta scivolando, in Italia come altrove, nel profondo fiume dell’indifferenza e della delusione. Questo discorso non vale solo per i partiti. Si pensi, per esempio, al ruolo del Sindacato: c’è chi lo vorrebbe trasformare in un centro erogatore di servizi, chi lo vorrebbe sempre addomesticato nella gabbia di procedimenti concertativi; ma anche chi ne rivendica la forza essenziale di rappresentante diretto di interessi ed attore del conflitto sociale deve fare i conti con una degenerazione non dissimile da quella descritta sopra. Inoltre, proprio in virtù di quelle trasformazioni che stanno rivoluzionando contratti e condizioni di lavoro (e che oggi rappresentano per i giovani la regola e non più l’eccezione), è un dato obiettivo che il sindacato non riesca a coinvolgere tra le propria file e, di conseguenza, a rappresentare, quella che, in un immediato futuro se non già oggi, è la parte maggioritaria del mondo lavoro. Quella, oltretutto, con meno garanzie. Le battaglie di retroguardia non sono certo una responsabilità esclusiva del sindacato, ma sta di fatto che gli scenari di disgregazione della contrattazione collettiva e di rivendicazione di soggettività organizzate sono i presupposti in grado di accompagnarlo sul baratro della scomparsa.

                   

Certamente non si può pensare di risolvere i problemi magnificando tutto ciò che è riconducibile alle giovani generazioni, tutt’altro. La logica di una nuova corporazione “anagrafica” è una cura che rischia di produrre danni peggiori del male e che spesso si impone in termini di rivendicazione del “potere per il potere“.

I soldi pubblici finanziano la proliferazione di forum ed organismi vari dedicati alla gioventù. Luoghi completamente  inutili, offerti dalla classe politica in elemosina alle sue controfigure giovanili. Giovani divisi su tutto, ma che in una sorta di “lobby generazionale”  pretendono posti, visibilità, carriera. Questi meccanismi diventano comune anche nella dialettica interna ai partiti, con i convegni organizzati ciclicamente prima dai “ventenni”, poi dai “trentenni”, “quarantenni” etc… 

 Il peggio, come si suol dire, deve ancora venire. Le nostre esperienze, pur diverse, ci hanno presentato lo stesso scenario, tanto allarmante quanto, forse con più attenzione, prevedibile: capita spesso che la passione con cui tanti ragazzi iniziano la loro partecipazione (in partiti e sindacati) venga in breve tempo completamente stravolta. Si badi non parliamo di quella, anche salutare, “discesa sulla terra” degli spiriti idealistici, della presa di coscienza che se si vuole lavorare nel porcile dei mali della società ci si dovrà pure sporcare le mani. No, ci riferiamo a qualcosa di molto più profondo. La politica è un esercizio di pensieri, parole, azioni, e sono queste le pratiche quotidiane che allattano i giovani che entrano nelle stanze dei partiti. È  nel loro decadimento organizzativo, culturale e morale che si sta plasmando la nuova classe di dirigenti e militanti che, prima di quanto si creda, ne prenderà la guida.

È Gramsci che ci insegna che nei partiti il <<problema dei giovani (…) è un problema di educazione, ma educazione intesa nel significato più ampio della parola, educazione dei giovani alla disciplina dell’azione e del pensiero, ma educazione pure di tutto l’organismo del Partito, cioè di infusione in esso di nuovo sangue, di nuova energia, di nuovo desiderio e di nuova capacità di conoscere e di fare>>[2] ed in questo quadro di “osmosi dialettica” (oggi come ieri, purtroppo, ancora più in un senso che nell’altro) i risultati sono, spesso, aberranti. Giovani più realisti dei padri, più spregiudicati, più meschini ed ignoranti, che valutano le proprie collocazioni ed opinioni alla sola luce dei parametri della convenienza ed opportunità e non certo a quelli del ritenuto giusto o sbagliato. Assenza di coraggio, tatticismi esasperati, fedeltà acritica al capo ed equilibrismi diventano gli standard qualitativi che servono per farsi strada in quella che diventa una carriera come altre. È d’altronde davanti gli occhi di molti anche la mutazione genetica del “militante tipo” che oggi varca la soglia delle federazioni: rampanti yuppies, grigi burocrati e pseudo capipopolo esaltati, smaniosi di cariche, “medaglie” e micro porzione di potere.

Così è quasi naturale che la funzione stessa delle organizzazione giovanili venga mortificata al rango di  << materia atta per farle sorbire i discorsi di questo o quel padreterno>>. Le iniziative che producono spesso i partiti risultano essere, malgrado titoli pretestuosi, inutili esercizi di, mediocre, dialettica, utile per far procedere nel cursus honorum questo o quel dirigente, distribuendo, al massimo, contentini e prebende per chi ha avuto la pazienza di scaldare la sedia. Si arriva così al paradosso che i luoghi, in teoria, deputati all’analisi dei bisogni ed alla loro risoluzione concreta si trasformano in assisi il cui senso può essere compreso unicamente dal ceto politico, funzionale alla risoluzione dei suoi bisogni e non certo di quelli del popolo, che anzi risultano diventare quasi sconosciuti. Dimenticando la lezione basilare che la trasformazione della società non può non avere come motore quello dell’azione diretta di chi << lotta per spezzare le proprie catene >>, i partiti si condannano alla scomparsa, tra le fila dei loro militanti, dei giovani che provengono dalle classi più sfruttate ed emarginate. Questi, al contrario, saranno i primi a cadere nelle reti dello sfruttamento e dell’atomizzazione della società, divenendo nemici dell’ideologia progressista, o preda del qualunquismo, o peggio, delle più disparate sirene estremiste del ventunesimo secolo: da quelle militariste, patriottiche e razziste a quelle fondamentaliste di stampo religioso.

Lo scenario descritto ovviamente non vuole essere un’impietosa generalizzazione di tutti i giovani che fanno politica nei partiti. Una simile illazione sarebbe falsa prima che stupida ed ipocrita. È però, dal nostro punto di vista, uno spaccato diffuso, in alcune parti della sinistra maggioritario ed in altre meritoriamente ancora residuale. Proprio perché siamo ancora in tempo è nostra intenzione denunciarlo ora che ci sono ancora i margini per un’inversione di tendenza.

                 

                Partire da una severa autocritica sulle pratiche politiche. Questo è l’oggetto del nostro dibattito, questo uno dei compiti cui la sinistra deve adempiere per cercare di porre un freno alla sua degenerazione, prima responsabile degli asfittici artifizi retorico politicisti che riempiono le stanze del potere (da quello vero delle istituzioni a quello oramai farsesco di sezioni e direzioni) e svuotano quelle della partecipazione disinteressata.

Non ci possiamo permettere un mondo in cui la politica selezioni i propri dirigenti in base al loro appeal mediatico, pena la sua derubricazione a mero braccio operativo delle posizioni assunte nei consigli d’amministrazione delle multinazionali. Sappiamo che lo spartiacque in cui ci troviamo porta, da una parte, ad una deriva simile a quella Statunitense, dove, per trovare le radici di una vera sinistra, bisogna andare nelle università, negli studi di avvocati e giornalisti indipendenti, nelle chiese di preti coraggiosi ed in associazioni di tutela dei diritti civili, umani o che si prodigano per l’interesse di piccole comunità. L’altra strada, quella che noi non ci rassegniamo ad abbandonare, è quella della rigenerazione delle forme di lotta e partecipazione collettive. Non possiamo far altro se non vogliamo rinunciare a all’aspirazione di costruire una nuova società, un nuovo mondo possibile, quella che Marx chiamava << una società di liberi ed uguali>> in cui la lotta degli uomini e delle donne avrebbe raggiunto il fine << della produzione delle loro condizioni di vita>>.. Per queste ragioni promuoviamo un dibattito “strano,” che non ha ad oggetto uno tra la miriadi di temi (pace, diritti, lavoro, immigrazione, etc) che pure rivestono un ruolo assolutamente fondamentale per il rinnovamento di contenuto della sinistra. Bensì discuteremo dei presupposti strutturali di questo tanto agognato rinnovamento, promuovendo cioè un confronto su forme, pratiche e modi di partecipazione che stanno alla base delle iniziative dei gruppi che aderiscono alla rete di Uniti a Sinistra.

Non chiediamo, quindi, ai compagni che parteciperanno al dibattito, di dilungarsi  sull’analisi di contenuto dei temi di cui si occupano e che sono l’oggetto delle loro iniziative. Gli chiediamo, piuttosto, di intervenire descrivendoci come, cioè con quali modalità, tipologie di lotte  e coinvolgimento, riescono ad agire su quegli stessi temi, offrendoci una valutazione sui loro riscontri e risultati. 

Ovviamente, per essere un confronto reale, auspichiamo la partecipazione anche di tutte le altre forze che in questi anni sono state tra le protagoniste di quello straordinario movimento altermondialista, che è stato l’attore principale della palingenesi di contenuti e soprattutto, nel caso che oggi ci interessa, delle modalità  d’azione della  sinistra.

Quindi associazioni, collettivi, laboratori, esperienze di movimento che nel disincanto verso la politica degli ultimi anni hanno prodotto una riappropriazione di identità culturali ed attualità politiche che altrimenti sarebbero andate smarrite. Ci sono riusciti con la promozione di processi di delega verso il basso che, al contrario di quelle esistenti nei partiti e nel sindacato, hanno sviluppato decisioni sulle piattaforme sulle basi di un consenso più reale dei militanti di quanto sia quello ottenuto con l’elezione (spesso fatta a tavolino) dei rappresentanti delegati degli stessi. Principi e pratiche che hanno innovativamente congiunto la fase dell’elaborazione/discussione con quella della decisione dimostrando così che i movimenti non si caratterizzano per l’acefalia dei loro vertici, che difatti acefali non sono, ma si concretizzano, anche, per una selezione diversa dei gruppi dirigenti, capaci di raccoglier un consenso più veritiero ed incidere nei processi della società. Così, alle volte, quel movimento carsico, perché autorganizzato, è riuscito realmente ad essere un granellino di sabbia che inceppa i meccanismi oleati del capitalismo, di Brechteiana memoria.

Riteniamo utile a tutti un confronto simile, proprio nel momento in cui anche nel movimento il dibattito interno sta portando ad una riflessione su natura, e limiti, di priorità e modalità d’azione che comunque sono segnate, ahi noi, da parecchie crepe .

All’inizio del 900 fu il coinvolgimento e l’organizzazione diretta delle masse nei movimenti, poi divenuti partiti, d’ispirazione marxista che ha innovato l’intero sistema politico fino ad allora ancora oligarchico ed aristocratico. Oggi, nelle società di consumo occidentali, urge una nuova riscoperta di modelli di partecipazione e coinvolgimento di quelle masse che, uniche, hanno la potenzialità per essere la spinta propulsiva di un reale cambiamento dello status quo. Questo è il compito urgente della sinistra, che se persiste altrimenti in un percorso di svilimento delle forme di partecipazione fa il gioco del capitalismo globale: il disgregamento di qualunque solidarietà sociale, delle forme collettive della rappresentanza di bisogni ed interessi diversi dalle lobby. Il tutto in uno scenario di ordinaria emergenza sicurezza che alimenta i peggiori istinti umani: quello dell’homo homini lupus e della paura di qualunque forma di diversità e di  nuove soggettività.

 

Sono le giovani generazioni quelle più esposte, anzi, potremmo dire gli obiettivi dichiarati, del nuovo sfruttamento in cui il neoliberismo trascina giorno dopo giorno la società, nutrendosi dell’assenza di una sua vera alternativa dialettica. L’attuale modello “di sviluppo” è sempre più ineguale, come profetizzato più di 150 anni fa, i  ricchi diventano sempre più ricchi i poveri sempre più poveri

Di seguito intendiamo portare uno spaccato di esempi che possa offrire alla discussione la consapevolezza di come siano proprio i più giovani la parte più debole dell’attuale processo di imbarbarimento neoliberista e capitalista      

        

             Gli stati hanno scelto la via di armarsi di muri e barriere per garantire una sicurezza, falsa e comunque riservata ai soli cittadini di serie A.

Poi ci sono gli altri, quelli che danno fastidio anche solo allo sguardo, come ci ricordava qualche settimana fa il sindaco di Bologna: Migranti, homeless, disoccupati e giovani delle periferie e delle banlieus, vengono quasi nascosti, certamente dimenticati, salvo poi ritrovarsi “d’improvviso” la rivolta esplosa sui greti delle metropoli, coi sobborghi dati alle fiamme. Giovani dipinti come barbari da chi ha costruito ed abbandonato alla barbaria i ghetti suburbani, etichettati come feccia da chi ha la resi tali davanti ai caporali che ne hanno sfruttato a piacimento la forza lavoro, senza diritti.  Proprio perché la violenza  finisce, sempre, per colpire i più deboli siamo consapevoli che essa è un fenomeno di cui per prima la sinistra deve farsi carico. Perciò la comprensione della complessa genesi delle gesta dei nostri coetanei  Parigini, tanto scellerate quanto disperate, non fa parte di alcuna sorta di giustificazione “buonista,” ma dell’unico strumento che abbiamo a disposizione per combattere il malessere sociale lì dove esso cova simili comportamenti. Questa è la discriminante di un’azione di sinistra.

Uno stato che interviene solo per punire, per vietare, è uno stato debole che mostra la propria faccia più dura, così come fanno gli animali che ringhiano quando hanno paura. Ma nel momento in cui un simile stato, per qualsiasi ordine di ragione, non possa, anche solo per poco, esercitare il suo controllo repressivo, allora esplodono tutte le contraddizioni della sua falsa, imbonitrice pace sociale. Ci ritroviamo davanti agli occhi la mostruosità dei comportamenti di chi ha avuto come unica lezione che solo il più forte si salva, e così si arriva alle storie drammatiche di New Orleans. I poveri reietti abbandonati al proprio destino nel Superdome invece che aiutare chi stava morendo davanti i propri occhi si sono armati per derubare, violentare ed uccidere anche per il solo gusto di farlo. Ed intanto lo stato ha mobilitato le sue forze di polizia che (tra un suicidio e  l’altro) sono state schierate per difendere l’unica cosa che evidentemente avesse un valore: i WallMart, i supermarket e le loro merci che, seppur completamente sommerse dall’acqua, andavano difese con le armi, osceni simulacri della valore assoluto della proprietà, da difendere a qualunque costo, davanti qualunque bisogno.           

 

                Sono ancora giovani quelli più esposti agli, per i più, inarrivabili modelli e priorità di consumo che i media impongono. Il possesso di quegli status symbol che non si limitano certo a giudicare una persona più o meno “alla moda”, ma diventano gli unici parametri del successo e della realizzazione di un individuo. << Get rich or die tryin >> [3], in ogni modo, con qualunque mezzo e a qualunque prezzo. La ricchezza sponsorizzata come unico trofeo che vale la pena di cacciare nella giungla contemporanea e che da sola cancella ogni altra  valutazione, compresa quella sui mezzi che si sono usati per ottenerla: sia quelli violenti e ipocritamente condannati dall’opinione pubblica benpensante, sia quelli più “legali”, ma non meno immorali, come raider, palazzinari,  speculatori finanziari e trafficanti d’armi ( certo i più ignorano che siano tra i maggiori finanziatori di simili commerci, ma tant’è). In tutti è comune quell’ <<animal instincts>>  che, nell’economia classica come nella vita di tutti i giorni, fomenta le guerre tra poveri e spinge all’idolatria dei falsi miti del “self made man”

          

                Sono giovani in maggioranza gli immigrati, che stanno sperimentando una nuova evoluzione del concetto di “illegalità”, quella connaturata non più ad un’azione o omissione, bensì alla qualità stessa della persona, illegale per il solo fatto di essere immigrata. Se poi per emigrare altro mezzo non hai se non quello della clandestinità sulle carrette del mare o blindati nei furgoni merci, il circolo vizioso della legalità borghese è completato. Abbiamo accennato a come, ed in che condizioni, sopravvivono, serve solo ricordare come vengano anche ritenuti “utili” dal mercato. Impiegati in quel lavoro dequalificato e senza garanzie che la letteratura sociologica recente descrive o come lavoro delle tre P (Pesante- Precario-Pericoloso) oppure nella cura e nei servizi delle persone, ambiti di alta natura sociale, ma ugualmente considerati attività di natura meramente servile.

 

             Per proseguire nel quadro dei nuovi sfruttamenti c’è poi chi vive nel sistema della produzione di saperi e conoscenze: giovani gli studenti, giovani i ricercatori. Giovani produttori di saperi che mostrano la nascita di una nuova soggettività sfruttata, quella del mondo della conoscenza, dei soggetti in formazione. Soggetti in formazione che rivendicano libertà, che vorrebbero essere valorizzati in quanto soggetti attivi nella creazione di nuove conoscenze e quindi in prima linea nella crescita e nello sviluppo dell’intera società. Ed invece ci troviamo di fonte a cambiamenti velocissimi, che creano sempre più esclusione, insicurezza, precarietà sostanziale proprio a partire dall’acquisizione e dalla diffusione delle conoscenze che oggi sono l’oggetto del contendere del neoliberismo più incontrollato.

Questo è il fronte dove gettare le basi per lo sviluppo di una società più democratica, in cui gli individui abbiano la possibilità di accedere costantemente, senza alcuna discriminazione e senza pedaggi,  ai diversi percorsi formativi. Una necessità ineludibile in una società dove gli individui sembrano essere condannati,  nella propria vita, a dover cambiare in media quattro o cinque  volte professione.

Nonostante lo scenario drammatico gli investimenti continuano diminuire, i saperi assumono sempre più un ruolo di merce per le elite, gli unici fondi straordinari stanziati riguardano le scuole private, l’idea dei saperi come bene pubblico viene man mano smantellata. 
Noi crediamo che, oggi più che mai, parlare di formazione voglia dire pensare a quale mondo vogliamo costruire, a quale democrazia pensiamo per il futuro.
L’istruzione ormai non può più essere confinata tra le mura scolastiche ed universitarie, essa va inquadrata in un’ottica più globale: eppure non si può più ritardare la riforma del sistema d’istruzione, a partire proprio dalla scuola, sola in grado di assicurare, nella cosiddetta società della conoscenza, l’accesso autentico di tutti gli individui al sapere.
Le basi gettate dalla nostra costituzione sono molto solide (art 3,33,34), la repubblica ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana” ma la strada intrapresa negli ultimi anni dai governi che si sono succeduti ha visto estinguersi lentamente i pochi investimenti verso un sistema formativo che non è in grado di dare reali possibilità.
Oggi parlare di pari possibilità di accesso ai percorsi formativi implica una riflessione a 360° su quali sono i momenti della formazione nella vita di ogni individuo e di conseguenza la ricerca di un sistema sempre più complesso di servizi da offrire.
Costruire il diritto allo studio partendo dal basso, ascoltando le singole esigenze, rivendicare sulla base delle concrete necessità… Questa può essere la vera forza di un movimento in grado di scardinare un processo di esclusione sociale che va avanti inesorabilmente su un piano nazionale.

 

             Anche i giovani che riescono a trovare uno straccio di lavoro non sono esenti dal circuito di nuova emarginazione. I contratti di formazione riservati a chi ha meno di 32 anni, i co.co.pro, i lavori a cottimo nei call center e tutte le altre forme di lavori a tempo determinato sono un ricatto alla gola di chi ha il bisogno di entrare per la prima volta nel circuito lavorativo. La precarietà del lavoro porta alla precarietà della vita quotidiana; moderati e monsignori, che dicono d’avere tanta premura per la tutela della famiglia, farebbero bene a pensare al dramma quotidiano dei tanti che, pur volendolo, non riescono progettare matrimonio e convivenza. Essi non trovano di certo gli ostacoli nelle richieste di pari diritti delle coppie gay, ma nel fatto che i contratti che si rinnovano di tre, sei mesi alla volta non danno certo la sicurezza economica per avere un bambino.

I neo assunti sono i primi su cui si scarica il peso della competitività ed il conseguente abbassamento di salari e delle condizioni di lavoro, ma non basta. L’intero impianto delle riforme che, in Italia come nel resto di Europa, mirano al progressivo smantellamento dello stato sociale producono i propri effetti proprio a partire (alle volte anche in via elusiva) dai giovani. Si  può star certi che, se durante una difficile trattativa contrattuale, si è costretti a fare concessioni e sacrifici, i primi (alle volte anche gli unici) su cui questi sacrifici saranno scaricati saranno gli assunti da poco o quelli che lo saranno dopo la chiusura dell’accordo…con molta probabilità di nuovo, in maggioranza, ragazzi e ragazze. E quali tutele e garanzie sindacali si possono esercitare e rivendicare se la spada di Damocle del rinnovo del contratto pende sulla tua testa ogni sei mesi o, al massimo se sei fortunato, ogni due anni? 

Prima dall’alienazione alla catena di montaggio poteva anche nascere una coscienza di classe, forte della consapevolezza di essere, insieme agli altri, la forza produttiva determinante che plasmava la materia per renderla cosa utile. Oggi la terziarizzazione del lavoro rende la tua fatica “improduttiva”, ed anche quando il lavoro operaio resiste, e non è dislocato nei paesi poveri, le agenzie di lavoro interinale, i contratti a tempo fanno scomparire quella forma di legame quasi simbiotico con la fabbrica, che diventava, in un certo senso, la propria fabbrica. Così si perde prima la consapevolezza di essere gruppo, centro di interesse, classe (o come altro lo si voglia chiamare)  immediatamente poi  anche la sola possibilità di pensare in modo collettivo alla difesa di se stessi e dei propri diritti.

 

              Sono insomma le giovani generazioni quelle più colpite ed esposte alle nuove forme di subordinazione ed emarginazione sociale; è da loro che si è scelto di cominciare il programma di destrutturazione dell’impianto di conquiste sociali e democratiche del secolo scorso.

Quello che è forse, colpevolmente, meno evidente  è che quei poteri forti che traggono i loro profitti da questa trasformazione, stanno consolidando, proprio sulla pelle delle nuove generazioni, i presupposti per vincere questa sfida: tutto ciò che colpisce oggi i giovani rappresenta uno dei tasselli difficilmente reversibili su cu il capitalismo sta costruendo, dopo aver travolto gli argini politici che lo contenevano, il modello di futura società, perfettamente funzionale ai suoi meccanismi di sfruttamento.    

A vedere alcuni spaccati del nostro Paese sembra che intere generazioni siano assenti; docenza universitaria, posti chiave nell’amministrazione pubblica, economia, la politica, la magistratura, ovunque sembra che i giovani siano i grandi assenti. Ovviamente non è così. Nel mondo del lavoro i contratti fantoccio vorrebbero nasconderci, con l’assenza dei diritti vorrebbero toglierci la dignità e l’esistenza, nelle università un sapere sempre meno alla portata di tutti vorrebbe tagliare fuori quanti non sono come lo standard vorrebbe, l’accesso alla ricerca ed all’insegnamento è bloccato e pesantemente inficiato dalle clientele.

Il protagonismo di una generazione produce effetti virtuosi solo se è in grado di essere autonoma nell’organizzare la sua azione e se sa rappresentare una discontinuità con le generazioni che l’hanno preceduta.

La nostra società ha bisogno del protagonismo delle moltitudini che hanno popolato con convinzione e tenacia la piazza in questi anni, di coloro che ogni giorno senza profitto investono parte della loro vita nel volontariato, nella politica dal basso, nelle “buone pratiche”. Sono queste le generazioni di cui questo Paese ha un tremendo bisogno ed a cui la sinistra di oggi parla troppo poco. Un nuova sinistra deve fare delle nuove forme di partecipazione e di appropriazione-ridistribuzione del potere da parte di chi oggi è escluso, uno dei suoi tratti salienti,  a cominciare da chi oggi nella politica non si riconosce anche per i suoi caratteri gerontofili.

Non si può ignorare che solo nel nostro paese la stragrande maggioranza dei rappresentanti è mediamente più vecchia dei rappresentati. La chiave sta nella costruzione di un percorso di appropriazione del tempo, degli spazi, dei luoghi decisionali, di cessione (si badi cessione e non più conquista) di potere da parte delle classi dirigenti direttamente nelle mani dei popoli.

Per queste ragioni, noi, giovani della rete di Uniti a Sinistra, scegliamo di tenere a battesimo le nostre iniziative partendo proprio dal confronto, speriamo costruttivo, su quello che dovrebbe essere, almeno a sinistra, la cosa più elementare, e che invece è divenuta via via più rara: cioè come, con quali strumenti, iniziative, azioni, modelli di lavoro etc i gruppi organizzati << possano concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e cioè possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinioni, organizzando le aspirazione del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni >> [4]

Vi aspettiamo per un confronto pubblico il 13 gennaio a Napoli

 

 

 

 


 

[1] <<I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa su è oramai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e luoghi (…) i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali. Per esempio oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in anno di questo o quel partito (…!) insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe  lottizzare o spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconscimenti dovuti>>.Enrico Berliguer, 28l/7/81 da La Repubblica (intervista di E.Scalfari)

 

[2] << il congresso dei giovani>> da Ordine Nuovo, 29 gennaio1921, A. Gramsci

 

[3] << Diventa ricco o muori provandoci>> titolo dell’ultimo album /film di “50 cent”, uno dei più famosi rapper statunitensi. Sono state censurate (come accade ai rapper delle baliues parigine e ai cantanti funk delle favelas di Rio) alcune frasi ed il cartellone pubblicitario che lo raffigura mentre impugna, di spalle con le braccia allargate, un microfono nella mano destra ed una pistola in quella sinistra.

[4] << Che cos’è la diversità ?>> E. Berlinguer , Marzo ’81, intervista a Critica Marxista