II°  CONGRESSO REGIONALE CAMPANO

 

3/4 DICEMBRE 2005

 

DOCUMENTO CONCLUSIVO

 

 

 

Abbiamo aperto questo nostro secondo congresso regionale con una espressione davvero impegnativa : "i movimenti e la politica per cambiare la Campania". E’ una dichiarazione pubblica di intenti e al tempo stesso una sfida per il nostro stesso partito. In quella sequenza (movimenti, politica, cambiare, Campania) la parola che appare come la più scontata, è cioè “politica”, si carica necessariamente di complessità. Da un lato, la spinta dei movimenti; dall'altro la pratica del cambiamento: dentro una tale stretta, la politica è chiamata a declinarsi in forme nuove e con nuovi contenuti, ma non nel senso di una sapienza “altra e diversa” rispetto alla sapienza politica oggi egemone, come se il problema fosse semplicemente di cambiare ispirazione e proposte. Alludiamo invece a un cambiamento sostanziale della politica proprio come categoria, come modalità di regolazione dei rapporti di potere tra gli esseri umani. Nel nostro ragionamento la critica dell'attuale politica, delle sue proposte e delle sue logiche di funzionamento, ciò che comunemente concepiamo come contesa tra linee politiche, tende obiettivamente ad intrecciarsi e a ri-articolarsi in una critica più profonda, di spessore storico, che riguarda la politica in sé, come base e cifra esplicativa della società e delle relazioni tra gli individui.

Del resto, nel nostro orizzonte, nell’orizzonte dei comunisti, è inscritta l'estinzione dello stato, e con essa del diritto e della stessa politica, la quale serve esattamente a fondare il diritto e, attraverso di esso, a modellare lo stato. Far vivere oggi una tale prospettiva -ciò che Marx indicava definendo il comunismo come il salto dalla preistoria alla storia dell’umanità- vuol dire avviare un cammino sicuramente complesso, ma reso oggi concretamente possibile proprio dallo stadio avanzato dei livelli di produzione e dalla moderna connessione sociale che vi corrisponde.

In concreto si tratta di contribuire ad un progressivo deperimento delle logiche di rappresentanza a favore delle logiche di partecipazione, di modo che la connessione politica/governo ceda il posto via via ad una nuova connessione generale di autorganizzazione/trasformazione.

E’ in questa direzione il cambiamento che noi proponiamo anche qui in Campania. Una direzione di marcia che si sostanzi già da subito, per esempio, nei municipi partecipati e nei bilanci partecipativi, e soprattutto in una rete ampia di movimenti, comitati, associazioni. In un simile impianto, il conflitto sociale non va visto come un problema, ma anzi come un valore. Esso è un problema per la politica che ragiona in termini di governo; ma è un valore per la politica che intende promuovere processi di autorganizzazione nel corpo vivo della società, e che, per ciò stesso, tende al superamento di se medesima.

Sappiamo di dire cose forti, ma a ciò ci spinge la consapevolezza, così intensamente presente nel nostro dibattito, a partire dalla relazione introduttiva del segretario regionale uscente Vito Nocera, del carattere pressoché ultimativo delle contraddizioni del nostro tempo e dei nostri luoghi. E’ vero, in altri termini, che noi siamo sospesi, qui ed ora, tra la catastrofe e il futuro.

E’ una dinamica che concerne non solo il quadro generale, ma anche ciascuno dei suoi segmenti, sicché la tendenza verso la catastrofe convive inestricabilmente, passo dopo passo, con faticosi percorsi di futuro. Percorsi faticosi, soprattutto perché è venuto progressivamente meno la tradizionale identità proletaria e l’immediato riconoscersi della classe come soggetto sociale teso al futuro. Ha morso in profondità la disgregazione sociale della moderna economia globalizzata, con il moltiplicarsi, ovunque e anche in Campania, di vistosi processi di deindustrializzazione, e con il ridimensionarsi ovunque, e anche in Campania, della leva pubblica in economia, la quale forniva in passato punti certi di riferimento per le regole del lavoro e per la stessa contrattazione.

Il lavoro è divenuto, in gran parte, stabilmente precario, ed anzi la precarietà è diventata il segno più autentico della nostra epoca: precario è il lavoro, precarie sono le esistenze, precarie sono le regole, precarie sono le strutture di servizio, precari sono i tempi e i luoghi medesimi del vivere associato. La disgregazione ci consegna così un popolo”sparso”, che è largamente proletarizzato, ma non agisce più come classe, né agisce ancora come moltitudini consapevoli. Un popolo che si mostra costitutivamente contraddittorio: troppo spesso affastella contiguità senza unità, ma al tempo stesso, in più occasioni, riesce anche a produrre, soprattutto su grandi temi –pace, salute, diritti, cultura, ambiente- una dinamica unitaria, positivamente aperta alla speranza e alle pratiche di trasformazione. Questo popolo variegato e disgregato dei nostri luoghi e del nostro tempo rappresenta, per un partito come Rifondazione Comunista, davvero un miscuglio inestricabile di possibilità e di insidia. Capirne la complessità, e anzi la contraddittorietà, e intervenirvi in modo da favorire la progressione in avanti, in direzione di ciò che abbiamo chiamato in tante occasioni come “nuovo movimento operaio”: è questa la grande sfida che abbiamo di fronte.

Proprio in questo nostro rapporto col popolo, e coi popoli multiculturalmente intrecciati, fa perno la sfida per l’egemonia che noi siamo condannati a lanciare continuamente tanto alle politiche socialdemocratiche e liberiste, quanto alle culture interclassiste e conservatrici: la possibilità di vincere sta appunto nella nostra capacità di far vivere, dentro questo popolo così difficile, una autentica connessione –razionale, ma anche sentimentale e morale- tra i bisogni che emergono, le speranze che li accompagnano e le concrete potenzialità di futuro cui esse rinviano. Per dirla in una parola, noi abbiamo bisogno che la realtà sociale non sia stagnante ma dinamica; abbiamo bisogno in pari tempo che questo dinamismo sia quanto più possibile movimento consapevole, e ciò è possibile solo a condizione che la politica intervenga sì, ma non in modo separato, bensì come linguaggio della soggettività sociale quando essa ritrova e trasforma se stessa nell’attività. Rifondazione Comunista è un soggetto politico; ma per i comunisti un soggetto politico ha senso solo se accompagna un soggetto storico nel suo “farsi storia”.

 

Tutto ciò ha molto a che vedere non solo con le iniziative politiche generali di questa fase, ma anche con la nostra proposta politica qui in Campania. In Campania, come in Italia, le questioni si caricano di ultimatività, sicché non è più, ammesso che lo sia mai stata, una questione di semplice sviluppo: quello che abbiamo di fronte interroga sì anche i nodi più tradizionali delle “arretratezze” e dei “ritardi”, ma nella sua essenza riguarda direttamente il piano della civiltà.

D’altra parte, l’alternativa di civiltà si presenta al sud con caratteri più netti che nelle altre parti d’Italia, e con minori spazi di mediazione economica, sociale e culturale. Da noi agisce, per così dire, la faccia brutale del capitale globalizzato, che esalta quasi senza ammortizzatori e finzioni tutto quanto serve alla logica del profitto, dalla marcescenza sociale alla irreggimentazione produttiva, dalla mercificazione di qualsivoglia spazio umano alla distruzione sistematica degli equilibri ambientali.

Il terreno di una tale contesa di civiltà è perciò quello di vere e proprie emergenze: dall’acqua ai rifiuti al lavoro alla casa alla salute...

Su ciascuno di questi punti, i nostri compagni sono largamente interni alle lotte che si sviluppano spontaneamente, mentre sosteniamo, come partito, tutte le forme di organizzazione e resistenza che i proletari e i cittadini mettono in campo sul tema generale dei diritti sociali.

Anche la nostra azione istituzionale si muove in questa direzione, con battaglie difficili, a volte vittoriose. Parliamo ovviamente di vittorie solo parziali, talvolta di vittorie solo di principio. Per fare un esempio, il “reddito di cittadinanza”, approvato su nostra spinta decisiva dal Consiglio Regionale nella scorsa legislatura, ancora non è stato reso effettivo. Così come la pratica dell’orientamento per i disoccupati e i corsi di formazione ormai prossimi -strappati certamente dalle lotte, ma anche dalla capacità dei nostri compagni nelle istituzioni di muoversi con lungimiranza e determinazione- ancora non hanno sullo sfondo una chiara e definita conclusione che porti ad effettivi posti di lavoro.

Altre battaglie, che pure il partito, assieme ai movimenti, ha condotto con grande impegno e coerenza, segnano purtroppo il passo: è il caso, ad esempio, degli inceneritori previsti ad Acerra e S. Maria La Fossa. La lotta di Acerra è stata vissuta da tutto il partito, così come le battaglie contro le discariche nel salernitano, nell’Irpinia, nel Sannio, nell’area nord di Napoli. Sono state lotte straordinarie, che durano tuttora, e che si accompagnano a proposte precise: moratoria della costruzione degli impianti, superamento dei poteri commissariali nella gestione dei rifiuti; e soprattutto: valorizzazione della raccolta differenziata finalizzata al riuso e al riciclaggio, incentivi per la riduzione a monte della produzione di rifiuti, sperimentazione della pressodistruzione.

Non si è trattato e non si tratta solo di proposte istituzionali, fatte a Napoli e a Roma. Noi abbiamo partecipato, assieme alle popolazioni interessate, soprattutto alle proteste di piazza, portandovi dentro un contributo specifico di anticapitalismo. La battaglia contro gli inceneritori e le discariche, infatti, non muove per noi soltanto da una logica ambientalista, pure di estrema importanza, ma si nutre anche di problematiche sociali, culturali, economiche.

Abbiamo, infatti, sottolineato la pericolosità di simili impianti e siti e l’alto impatto ambientale che hanno sul territorio dove vengono realizzati; ma abbiamo sostenuto altresì che questi impianti sono un business per grandi lobby economiche (vedi FIBE del gruppo FIAT, ENEL, ecc.), le quali speculano letteralmente sulla salute dei cittadini. Siamo perfino riusciti a dire che inceneritori e discariche sono la logica conseguenza del sistema capitalistico nel quale viviamo, che produce smodatamente, ci costringe a comprare tante cose spesso inutili, con un consumo abnorme di materie prime, e che, alla fine, non sa vedere in quello che ha prodotto un materiale utile, da recuperare ancora come ricchezza sociale. Le merci consumate diventano, invece, in questa società della falsa opulenza, solamente un rifiuto da bruciare o da tenere a marcire a cielo aperto, e si traducono perciò in ricchezza per pochi, gli stessi che hanno innescato tale meccanismo all’origine.

Siamo riusciti, in poche parole, a trattare la questione da comunisti.

Attualmente il piano rifiuti è fallito per generale ammissione. Scadono i poteri commissariali ed è rescisso lo stesso contratto con la FIBE. E’ anche una nostra vittoria. Ma la situazione non si è affatto capovolta e le “lobby del rifiuto” continuano a dettar legge in gran parte del centro-sinistra, oltre che nel centro-destra. E potremmo ancora continuare: per esempio, con la vicenda dell’acqua e col durissimo braccio di ferro tuttora in corso tra il movimento di lotta (del quale noi siamo parte decisiva e importante), impegnato a difendere, a partire dall’acqua, lo stesso principio generale dei beni comuni, e i molti sostenitori istituzionali e politici (molti, purtroppo, e non tutti in buona fede) della privatizzazione.

Il fatto è che scontiamo su tutti questi punti, e non potrebbe essere altrimenti, la particolare vischiosità del terreno istituzionale, la sua scarsa permeabilità alle istanze dei diritti e di nuova cittadinanza umana. In questo senso, la nostra iniziativa si configura, pur dentro un quadro articolato di maggioranza, come continua battaglia politica e culturale. Ovviamente, poiché l’articolazione del quadro è, appunto, di maggioranza e non di opposizione, la nostra battaglia si sviluppa prevalentemente come ricerca della egemonia, ma in diversi casi specifici -i rifiuti e l’acqua, ad esempio- assume, non potrebbe essere altrimenti, anche le caratteristiche di una contrapposizione netta e frontale.

Del resto è noto che per Rifondazione Comunista esiste il primato assoluto delle piazze sulle stanze dei palazzi e che il terreno centrale del nostro fare politica è esattamente quello dell’opposizione sociale. Ci proponiamo infatti di sviluppare ovunque, e anche qui in Campania, reti e interscambio di esperienze, lavorando in particolare ad una vera e propria carta dei diritti sociali, che unifichi i conflitti, raccolga le sollecitazioni generali del movimento e dia soprattutto una prospettiva ulteriore per la mobilitazione e la tenuta dello scontro sociale e politico.

Da anni ci cimentiamo, qui a Napoli e in Campania, in una tale impresa. Lo facciamo non solo perché ne vale la pena e probabilmente ce ne sono le condizioni, ma anche perché la nostra regione rappresenta davvero uno spaccato straordinario della modernizzazione capitalistica, quella che si contrappone alla modernità positiva che noi rivendichiamo, e che è venuta affermandosi nelle lotte del lavoro, nelle lotte di genere, nell’assunzione del limite ambientale.

Non è solo questione di sottosviluppo, lo ripetiamo. Al sud dell’Italia, alla Campania, è stata destinata anche l’altra faccia dello sviluppo, quella di un’altissima precarizzazione del lavoro, di una disparità profonda nell'accesso al reddito, di una politica costante di dismissioni e ristrutturazioni dell'apparato industriale. Accanto ai segni dell’arretratezza dell’apparato produttivo, che pure resta caratterizzante, convivono tratti di assoluta modernità capitalistica, dal centro direzionale di Napoli, ad esempio, che tuttavia contiene più di un aspetto della tradizionale politica "mattonara", a varie localizzazioni produttive disseminate sul territorio, che in ogni caso hanno goduto di sostanziose sovvenzioni pubbliche. E però, neppure con queste presenze, e neppure dentro i luoghi della produzione più avanzata, cambia l’assunto di fondo: precarietà, degrado, povertà.

Ma la nostra terra è anche uno dei luoghi storici del conflitto, dalla classe operaia dei poli industriali ai disoccupati organizzati del centro cittadino. E poi, ancora: le lotte sulla casa, sull’emergenza ambientale, sui servizi. E poi ancora: i movimenti studenteschi, i movimenti degli immigrati, i movimenti anticamorra… Un universo compiuto di conflitto sociale.

E allora: una carta dei diritti, che sostenga le vertenze che già ci sono, a cominciare dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro, e si proietti ancora oltre, proponendo, ad esempio, il salario sociale ai senza lavoro, la riduzione d’orario (a parità di salario), la requisizione delle case sfitte, la gratuità dei servizi e degli spazi ludici e culturali, l’affido agli immigrati stessi di centri di accoglienza civili e permanenti…

Si tratta anche di far valere, contro il degrado, talune leggi che pure esistono, per esempio in materia ambientale, sull’arredo urbano­, sull’infanzia. Ma si tratta soprattutto di suscitare protagonismo, di mobilitare persone, di promuovere conflitti. Si tratta, infine, di strappare alle istituzioni, a partire da quelle locali, risultati autentici e visibili su lavoro, orari, servizi, casa, ambiente, scuola, sanità, previdenza, cultura. I diritti, appunto.

 

Del resto, il contenzioso con le altre forze politiche dell’Unione resta ampio qui in Campania anche per ragioni di ordine generale, che riguardano il nostro netto dissenso rispetto alle logiche di privatizzazione dei servizi e alle logiche tecnocratiche.

Noi contestiamo queste logiche non soltanto in nome della nostra antica e nobile tradizione di contrapporre la dimensione pubblica dei servizi e dell'economia all'arrembaggio degli affari e dei profitti privati -e anche da questo versante avremmo non poche argomentazioni, perché è sotto gli occhi di tutti come nel corso degli anni si sia progressivamente ribaltata la favola che vuole il “pubblico” come terreno d'elezione dello spreco e dell'inefficienza, e come oggi siano piuttosto i processi di privatizzazione ad accompagnarsi a fenomeni vistosi di sperpero, di dispersione e di inadeguatezza; la nostra contrarietà a privatizzazioni e tecnocraticismi si incentra, invece, ancora una volta, sul punto fondamentale della democrazia.

Dando in appalto un servizio pubblico o affidando a comitati esterni di consulenti finanche il ridisegno di un territorio e la programmazione di decisivi processi produttivi, le istituzioni -gli enti locali, non meno che lo stato- restringono il loro ruolo a un esercizio astratto di mera volontà e determinano una situazione nella quale l'atto amministrativo si separa innaturalmente dalla pratica amministrativa. In tal modo, la politica si sacralizza, blinda le sue stanze, e perde del tutto il contatto autentico con la società. Di contro, anche nella quotidianità delle persone entra il mercato, il quale già domina per intero i territori dell'economia; ed entrano i tecnici, con i loro riti astrusi di razionalizzazione. Il risultato per la democrazia è drammaticamente penalizzante: diventa evanescente lo stesso concetto di servizio pubblico e si calano dall'alto le pratiche concrete di governo, le quali, a questo punto, dalla politica vera e propria ricevono semplicemente l’input iniziale. Ma il fatto è che sono proprio le attività effettive di gestione e le pratiche effettive di programmazione quelle che poi ridisegnano gli assetti sociali, che dislocano risorse e comunità, che aprano al futuro o alla catastrofe.

Il nostro problema è dunque duplice, perché da un lato noi vogliamo investire la politica del protagonismo della gente, attivando quanto più possibile meccanismi reali di partecipazione; dall'altro per arrivare a un simile risultato occorre stanare la politica dalla sua condizione di separatezza, facendo giustizia della pletora di lobby e faccendieri, di tecnici e consulenti che affollano le stanze del palazzo.

Non ci sfugge peraltro che proprio in questo affollamento “extra-politico” dei palazzi della politica si situa una questione morale di prima grandezza, la quale nelle nostre zone, così drammaticamente segnate dalla presenza invasiva della criminalità organizzata, pone finanche un serissimo problema più generale di legalità, e non solo di eticità, dei comportamenti amministrativi e della vita pubblica in generale. L'inquinamento camorristico della politica, quando c'è, perché su questo piano rischiano di essere davvero troppe le strumentalizzazioni interessate e le speculazioni politiche di parte, trova una straordinaria via di ingresso esattamente nella dinamica delle dismissioni e delle privatizzazioni dei servizi e nella dinamica delle consulenze tecniche.

Il nostro partito si è storicamente caratterizzato per essere un baluardo contro la camorra, ma parlarne oggi non significa per noi semplicemente riprendere un punto abituale di programma. Il fatto è che continua nei nostri territori una vera e propria emergenza criminalità, mentre negli ultimi tempi abbiamo colto un abbassamento preoccupante della soglia di attenzione da parte della politica. La riforma della politica per la quale noi ci battiamo postula una contestuale battaglia decisa contro camorra e illegalità. Vale nei territori, dove la camorra aggiunge degrado al degrado, e vale nei palazzi del potere dove i condizionamenti di criminalità e consorterie aggiungono ulteriore crisi alla crisi già storicamente in atto del tessuto democratico.

 

Noi sappiamo bene che siamo oggi in presenza di un autentico strangolamento del sistema delle autonomie, con il sostanziale dimezzamento negli ultimi 20 anni dei trasferimenti statali ai comuni. E sappiamo che per questa via a molti amministratori si affaccia un dilemma terribile: o privatizzare le poche cose che ancora restano a gestione pubblica, oppure tagliare ulteriormente la spesa sociale, accrescendo l’insicurezza di vita di milioni di persone, già quotidianamente alle prese con difficoltà di ogni genere per far quadrare il bilancio familiare.

E’ perciò del tutto ovvio che che quando noi parliamo di un'altra politica intrecciamo strettamente le vicende locali e le questioni più generali. Non solo nel senso che rivendichiamo in generale più risorse per le spese sociali, e dunque anche più trasferimenti agli enti locali; ma anche nel senso inverso, nel senso cioè che il tema delle regioni e delle comunità locali assume per noi un valore strategico in quanto può consentirci di spostare l'asse programmatico dell'Unione a sinistra, e, oltre ciò, di far avanzare concretamente il processo complessivo di critica e riforma della politica e di nuovo protagonismo sociale.

Le nostre rivendicazioni a difesa dei beni comuni, dei servizi pubblici e delle pratiche di solidarietà attiva –in concreto: una legge regionale per la ripubblicizzazione del sistema idrico; un nuovo piano rifiuti che ribalti le scelte degli ultimi dieci anni; la realizzazione compiuta del reddito di cittadinanza; il completamento della stabilizzazione dei lavoratori pubblici precari; una legge regionale sulla cooperazione internazionale e decentrata, che favorisca la crescita di questo settore in direzione di una vera sinergia tra sistemi economici diversi, sulla base dei principi di pace e di universalità dei diritti; una legge regionale sull’immigrazione che produca reale cittadinanza e agevoli la convivenza di immigrati, nomadi e nativi, e che tanto per cominciare affidi agli enti locali e non più alle forze dell’ordine l’intera partita sui permessi di soggiorno- così come il nostro discorso sulla democrazia partecipativa, hanno senso a Napoli così come a scala nazionale. Si tratta anche di grandi battaglie strategiche, come quella per un nuovo piano energetico nazionale e regionale, che utilizzi sapientemente le stesse leve fiscali a favore delle fonti rinnovabili e alternative, e che si opponga alle politiche dell’attuale governo, tutte poste a sostegno di tecnologie inquinanti e obosolete -e ne sappiamo qualcosa noi in Campania, con i progetti delle centrali elettriche a Pontecagnano, Sparanise e Grottaminarda, recentemente sbloccati dal ministro Marzano...

Contrastando le logiche del profitto e valorizzando i diritti e l’ambiente, si segna una direzione di marcia, la stessa che indichiamo ponendo ai nostri alleati dell'Unione la necessità di procedere subito, in caso di vittoria alle elezioni politiche, alla triplice abrogazione della legge 30 sul mercato del lavoro, della riforma Moratti della scuola dell'università, e della Bossi-Fini sulle questioni che riguardano i nostri fratelli migranti. Una abrogazione immediata che crei le condizioni per una alternativa vera, che dia stabilità al lavoro, che dia protagonismo agli studenti e gli operatori della scuola, che dia piena cittadinanza a tutti quelli che tentano di trovare nel nostro paese una migliore condizione di esistenza, andando ben al di , per essere chiari, delle regole definite dal pacchetto Treu, dalle riforme Zecchino e Berlinguer e dalla legge Turco-Napolitano. Si tratta, ancora una volta, di una sfida di civiltà, la stessa che ci fa rivendicare con forza l’immediato ritiro dei soldati italiani dall'Iraq e dalle altre zone di guerra del mondo e che ci fa parlare qui a Napoli di un Mediterraneo di pace crocevia fecondo di popoli e culture. La stessa che ci fa rivendicare il principio dell'autodeterminazione, che rischia di essere messo al bando sotto il peso degli attacchi che vengono dalle gerarchie ecclesiastiche alla laicità dello stato.

Sul principio dell'autodeterminazione occorre attrezzare linee concrete di difese anche a livello locale, partecipando in tutte le forme alle iniziative che vedono come protagoniste le donne, ma anche contrastando a tutti i livelli la presenza dei volontari del movimento della vita nei consultori pubblici. Occorre anzi chiedere che le istituzioni facciano per intero la propria parte, per esempio restituendo ai consultori esattamente il loro significato originale di luogo di prevenzione, accoglienza ed aiuto, dove le donne trovino davvero sostegno e i medici svolgano il proprio lavoro senza pregiudizi, attivando tutta l'informazione possibile sulla contraccezione e sui servizi sanitari gratuiti per tutte e tutti.

D’altra parte, proprio qui in Campania la sanità rappresenta un nodo aperto sul quale dobbiamo chiamare  la cittadinanza ad intervenire attivamente. Non è possibile che non si possa arrivare nella nostra regione ad una sanità contemporaneamente pubblica, gratuita e di alto livello. Su questo terreno serve davvero che la politica regionale, e qui usiamo il termine nella sua più tradizionale accezione, faccia per intero la propria parte, evitando ad esempio la definizione del fabbisogno annuale sulla base del consuntivo dell'anno precedente, e ponendosi seri obiettivi di maggiore efficienza e riduzione degli sprechi.

E analogamente insistiamo per modalità di verifica più trasparenti delle iniziative di spesa regionali, a partire dalla partita legata agli F.S.E., che non possono essere gestiti alla luce del mero criterio della contabilità, e cioè a partire dalla convinzione che vadano semplicemente consumati tutti i finanziamenti che arrivano dalla Unione Europea. Il punto è che questi soldi devono essere spesi bene. E per “bene” noi intendiamo due cose: l’impatto occupazionale dei singoli progetti e il loro inserimento in un quadro organico di sviluppo civile ed economico del territorio.

Da questo punto di vista, giudichiamo molto negativamente la mancanza, a tutt’oggi, dopo Sarno e i vari dissesti idrogeologici, di un piano organico di pianificazione urbanistica e messa in sicurezza dei territori; e anzi, guardiamo con preoccupazione ed allarme ad una logica di “pianificazione spezzatino”, che procede per pezzi, senza elementi certi di pianificazione territoriale, lasciando briglia libera alle spinte più varie, le quali si ritagliano nicchie franche nei territori, promuovono sovrapposizioni, competizioni e contraddizioni tra zone e zone, disarticolano senza pudore anche le attuali leggi di tutela ambientale e paesaggistica. Né si va molto in avanti quando alla “logica  spezzatino” si sostituisce una logicaunitaria, ma del tutto irrispettosa delle compatibilità ambientali e dell'opinione delle popolazioni interessate. Tra l’altro, questa logica non paga neppure sul piano operativo e moltiplica soltanto i punti di crisi, come è stato abbondantemente dimostrato dal fallimentare piano rifiuti regionale.

Un analogo momento di crisi noi lo vediamo delinearsi con preoccupazione nel progetto della linea ad alta velocità che dovrebbe attraversare la provincia di Salerno, realizzando due tracciati in galleria di quasi dieci chilometri ciascuno. Noi sosteniamo da sempre e con convinzione la centralità del trasporto su ferro, ma una tale opera, a nostro giudizio, così come altre in costruzione in Italia, (una per tutte, la TAV in val di Susa), rappresenta il segno di uno sviluppo malato, subalterno ai potentati economici, che sacrifica risorse naturali ed economiche e calpesta finanche le pur minime procedure democratiche e partecipative previste dalla legge. Noi chiediamo esplicitamente che una tale opera venga riconsiderata, e soprattutto che le popolazioni locali abbiano una parola decisiva.

Il punto è che in materia ambientale, così come in materia economica, occorre mettere al primo posto non lo sviluppo del mercato ma lo sviluppo effettivo dei territori. Che l’ente regione abbia un compito fondamentale di promozione dello sviluppo, è cosa comunemente accettata. Ma proprio per questo, noi poniamo con forza la necessità di una pianificazione sociale degli interventi di sostegno regionale all’economia. Pianificazione sociale: tesa, cioè, a promuovere anzitutto un impatto civile degli interventi economici, che punti sulla qualità (qualità sociale, non di mercato) delle produzioni e dei lavori.

Non ci bastano, per essere chiari, i singoli provvedimenti positivi. In materia, per esempio, di immigrazione, di recupero ambientale, di servizi al cittadino, così come, ad esempio, sulle politiche della formazione-lavoro, del personale, dell’assetto urbano, delle infrastrutture, della gestione del patrimonio, noi vogliamo che si vada oltre la buona e corretta amministrazione, e anche oltre le singole delibere a “qualificazione politica di sinistra”. Vogliamo, per dirla in una parola, che gli atti specifici si iscrivano in una strategia complessiva che punti alla qualificazione democratica delle stesse innovazioni produttive e sociali, e che questa strategia complessiva sia incentrata appunto sui diritti sociali.

In questa ottica, noi sosteniamo che occorre rilanciare al più presto, a livello nazionale, ma anche nella nostra regione, l'intervento pubblico in economia. Pensiamo a una sorte di IRI regionale che investa nel tessuto produttivo, con garanzie precise sull’occupazione e sugli impatti ambientali e con possibilità di gestione diretta delle aziende. Un IRI regionale che abbia anche, come missione specifica, la promozione e la gestione, con modalità partecipate che coinvolgano anche i comuni, di molteplici segmenti di “ciclo corto produzione/consumo. L’idea è di valorizzare appieno le vocazioni dei territori e di agire da controtendenza alla logica insensata del mercato globalizzato, il quale sposta manufatti e merci sul piano planetario in base alla sola convenienza dei prezzi di vendita, indipendentemente dallo sviluppo sociale e civile tanto dei luoghi di produzione quanto dei territori di smercio. I cicli corti di produzione e consumo possono invece permettere uno sviluppo armonico dell'intera regione, contrastando i fenomeni di abbandono delle zone interne e dando nuova prospettiva alle stesse congestionate aree metropolitane della fascia costiera.

Va sottolineato, in particolare, come il tema delle zone interne -che troppo spesso sono state vissute alla stregua di lembi marginali della regione (e ciò non necessariamente nel senso dell’arretratezza, ché anzi dai più avvertiti vengono viste addirittura come compiuti “modelli di sviluppo capitalistico”)- si colleghi strettamente alla iniziativa generale del partito, alla sua spinta perché dentro una nuova cultura meridionalistica, vengano pienamente assunti gli obiettivi di una reale umanizzazione dello sviluppo e del più ampio protagonismo di massa. Nell’ambito di un tale nuovo meridionalismo occorre far vivere una nuova consapevolezza della naturalità del vivere, così come il movimento dei movimenti la sta proponendo in questi anni a scala mondiale: agricoltura biologica, recupero della tipicità delle colture, valorizzazione dei sapori e delle tradizioni storiche dei territori.   

Noi rivendichiamo una prospettiva del genere in Campania anche come terreno di sperimentazione che parli all'intero paese e che dica che è possibile davvero un diverso modello di crescita economica, che faciliti e non contrasti la prospettiva di un’alternativa di sistema. La condizione è che prevalga l'interesse pubblico sull’interesse privato e il metro della civiltà sul semplice metro dello sviluppo.

 

Con questo Congresso, il PRC campano rinnova i propri organismi, anzitutto il Comitato Regionale, che ha compiti di promozione dell’iniziativa politica complessiva e di gestione della politica regionale. Il comitato regionale si pone come sistema di coordinamento tra le federazioni, snodo di informazioni e sostegno, politico e materiale, alle realtà meno forti. Si pone anche come punto di raccordo con le battaglie generali del Partito: le prossime elezioni politiche e amministrative, nelle quali faremo vivere quanto più possibile il protagonismo di massa, a cominciare dalle primarie nel comune di Napoli; la tornata referendaria sulla sciagurata riforma del titolo V della Costituzione repubblicana; le iniziative specifiche di movimento, a cominciare dalla scadenza di gennaio sull’autodeterminazione delle donne e sulla laicità dello stato.

Il tema dell’autodeterminazione entra nell’attualità politica ma si si lega di per sé anche alla più ampia prospettiva strategica della liberazione sociale ed antropologica degli esseri umani, la quale ha ricevuto nuovo impulso storico proprio dalla presa di coscienza delle donne. E’ noto quanto il nostro partito abbia imparato dal movimento delle donne, dalla sua radicalità, dalla sua capacità di allargare con la contraddizione di genere l’insieme delle contraddizioni specificamente prodotte dal capitalismo. Ed è noto quanto la presenza delle donne a tutti i livelli di gestione del nostro partito abbia arricchito proprio le logiche di alternativa delle quali il PRC è costitutivamente portatore. Una presenza che deve potersi liberamente esprimere: nelle strutture previste dal nostro statuto, e cioè gli organismi di direzione e il Forum delle donne, ma anche in altre forme organizzate, che raccolgano e valorizzino la soggettività delle compagne per come essa concretamente si manifesta.

D’altra parte, il tema della partecipazione dei compagni, della valorizzazione delle loro soggettività, percorre per intero la vita organizzativa del nostro partito, e costituisce la cartina di tornasole per intervenire sui nostri stessi difetti, sui limiti della nostra pratica, limiti ampiamente noti, e che si presentano con particolare frequenza nel raccordo tra figure istituzionali e istanze di partito. L’impegno che il Congresso demanda al Comitato Regionale è di intervenirvi con tutta la necessaria efficacia, anche attraverso un forum regionale di tutti i nostri consiglieri ed assessori. Occorre fare in modo che, come è negli auspici di noi tutti, davvero la nostra linea politica, comprese le sue articolazioni tattiche, siano decise dagli organi di partito. Naturalmente ciò non comporta che i nostri eletti ed amministratori si trasformino in semplici esecutori; questo non sarebbe né giusto né possibile. Non a caso, del resto, essi sono parte integrante degli organismi decisionali di partito, e dunque sono coautori della linea sulla quale poi operano concretamente nelle istituzioni. Ai nostri amministratori e rappresentanti, gli organismi di partito debbono tuttavia fornire criteri e logiche di riferimento, che li aiutino a fare proposte e a prendere positivamente posizione, sia sulle questioni politiche sia sulle scelte di gestione che interessano le amministrazioni locali.

Il punto è che, per affermare fino in fondo il ruolo dirigente del partito, dobbiamo migliorare anche la tenuta concreta dei comitati federali e regionali, esaltando il loro ruolo statutario di sedi di elaborazione della linea e di organizzazione dell'iniziativa. Oggi non è sempre così. I comitati di partito vivono per lo più una vita stentata e discontinua, e i loro orari e le loro modalità di lavoro non consentano la piena partecipazione di tutti loro membri, soprattutto delle compagne e dei compagni operai. Inoltre, solo raramente hanno un carattere tematico o un andamento davvero stringente rispetto all'ordine del giorno; e per finire, la loro convocazione non è sempre tempestiva in rapporto ai tempi e ai terreni dello scontro politico e istituzionale. Tutto ciò assegna gli esecutivi un ruolo improprio di supplenza degli organismi e delle loro competenze, la qual cosa rende più difficile lo stesso coinvolgimento generale del partito nelle battaglie nelle quali è comunque impegnato.

Anche da questo punto di vista, dunque, torna il tema centrale della militanza. Noi abbiamo bisogno di un Partito capace di coniugare strettamente la vita democratica al suo interno, la trasparenza delle scelte e il rispetto delle regole, con una forte tenuta militante.

Siamo chiamati, infatti, a far valere nella società e nelle istituzioni, anzitutto col più grande impegno delle nostre compagne e compagni, l’insieme dei diritti di cittadinanza, andando oltre le logiche della governabilità e della gestione, e recuperando livelli reali di protagonismo dal basso e di democrazia partecipata. Siamo chiamati a concorrere, con le forze dell'Unione, al governo della regione delle province e di tanti comuni; ma dobbiamo farlo sempre con lo spirito di autonomia che ci contraddistingue, e che per noi significa semplicemente il primato dei contenuti sugli schieramenti e delle lotte sulle istituzioni.

Siamo chiamati anche a modificarci e a modificare la qualità del nostro insediamento sociale e del nostro fare politica, e ciò in una logica di apertura complessiva, costruendo un partito aperto al proprio interno, che valorizzi la voglia di fare dei compagni, ne solleciti la riflessione, si arricchisca delle loro proposte. Ma si tratta di costruire anche un partito davvero aperto verso la società, tanto più necessario e urgente oggi, dopo che il movimento dei movimenti ha sedimentato un'area ampia di radicalità sociale, culturale e politica. Il Partito della sinistra europea rappresenta uno spazio e un'occasione preziosa per mettere in relazione Rifondazione Comunista con l'universo molteplice della radicalità sociale e politica, così come lo sviluppo di una pratica aperta nei territori, che intrecci una nuova capacità di agire “per zone”, con tutte le soggettività variegate che concretamente esprimono un'attenzione al cambiamento e alla partecipazione.

Insomma, se proveremo a praticare, unitariamente e a tutti livelli, l'innovazione necessaria, e se manterremo la bussola della nostra ragione costitutiva -e cioè la rifondazione del comunismo e la pratica della liberazione-, allora i prossimi mesi e i prossimi anni, benché difficili per il quadro generale che incombe con l’alternativa drammatica della nostra epoca, “socialismo o barbarie”, potranno vedere anche un effettivo avanzamento delle nostre comuni speranze di trasformazione economica, sociale, politica e antropologica del mondo in cui viviamo.