La fabbrica del consenso
“democratico”
“Il Kgb stronca la protesta”, “I pretoriani del regime spazzano via
l’opposizione democratica da piazza Oktiabraskaja”, “Immediate e dure le
reazioni dell’Unione Europea e degli Usa che si apprestano a varare
sanzioni contro la Bielorussia”. Questo il tono prevalente dei commenti
apparsi sulla stampa il giorno successivo allo sgombero ad opera della
locale polizia di qualche migliaio di manifestanti dalla piazza di Minsk.
In questo modo gli effetti dell’ennesima pesante ingerenza
dell’Occidente vengono trasformati in una specie di riedizione dei fatti
di Genova rivisitati in salsa bielorussa. Ma il clima mediatico era
stato da tempo preparato. Era già oltremodo significativa l’unanimità
del coro intonato a proposito delle elezioni tenutesi il 19 marzo
scorso: pressoché tutti allineati e coperti dietro la denuncia
dell’illegittimità del plebiscito pro-Lukashenko e in sostanziale
sintonia con il Congresso Usa che già lo scorso 8 marzo (con un solo
voto contrario) si pronunciava contro “l’ultima tirannia d’Europa”.
Questa vicenda consente emblematicamente di apprezzare la forza dei
dispositivi attraverso cui è costruita l’informazione ufficiale e, più
in generale, quali gravi manipolazioni si celino dietro l’odierno uso
della nozione di ‘democrazia’. Accedendo a fonti ‘eterodosse’ - e posto
che si abbia la volontà politica di farlo - si ha tuttavia la
possibilità di ascoltare voci dissonanti: il sito de L’Ernesto lo ha
fatto pubblicando, ad esempio, un’intervista (tradotta dal russo) ad
Aleksandr Fadeev, incaricato per le questioni bielorusse dell’Istituto
dei Paesi della Csi. In essa leggiamo il seguente resoconto, tanto più
significativo in quanto fa riferimento a valutazioni di osservatori dei
Paesi Csi espresse prima del 19 marzo: “Già ora le elezioni
presidenziali vengono considerate falsificate sebbene nessuna scheda
elettorale sia stata ancora depositata nell’urna”. Eppure “i
rappresentanti dell’opposizione hanno potuto tranquillamente raccogliere
le firme per la presentazione delle candidature, esponenti
dell’opposizione sono oggi in corsa per la presidenza (…). A tutti i
candidati è stato concesso uno spazio televisivo, così che non è
assolutamente possibile parlare di discriminazione alcuna”. Nonostante
ciò, “non c’è alcun dubbio che Washington e Bruxelles dichiareranno le
elezioni illegittime. Tutto induce a pensarlo”. E così è stato: gli
osservatori internazionali di emanazione Osce (l’Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa) hanno subito parlato di gravi
irregolarità, ribadendo dunque quella che appare una condanna comminata
da tempo. Il commento di Giulietto Chiesa (anch’egli intervistato su
questo sito), deputato europeo della cui autorevolezza e competenza
nessuno potrebbe dubitare, è in proposito lapidario: “Il giudizio dato
dall’Osce sulla validità delle elezioni era già deciso. Si tratta, lo
dico senza mezzi termini, di giudizi tendenziosi, faziosi e manipolati.
Ho avuto molte volte l’occasione di vedere all’opera gli osservatori
internazionali e ho sempre verificato di prima mano come le loro
relazioni fossero bugiarde”.
Bielorussia: un ingombro sul cammino del neoliberismo
L’accanimento nei confronti della Bielorussia è in effetti fin troppo
sospetto. Che Lukashenko si sia dimostrato ostile all’Occidente, non vi
è dubbio: egli ha tenuto il suo Paese al riparo dalla “transizione al
capitalismo” scaturita dall’implosione del socialismo reale, evitando
per un verso di svendere le risorse nazionali e imponendo vincoli al
mercato, preservando per altro verso il già vigente sistema di sicurezza
sociale. Così Lukashenko ha sin qui impedito che accadesse in
Bielorussia quello che viceversa è accaduto in Ucraina, dove il
neo-liberista Yushenko ha immediatamente inaugurato il suo mandato
presidenziale procedendo ad oltre 3 mila passaggi di proprietà pubbliche
ai privati, vendendo beni pubblici di portata strategica quale il
colosso metallurgico Kryvorizhstal. Se l’anzidetta ispirazione
politico-ideologica ha consentito alla Bielorussia di mantenere un più
alto tenore di vita interno rispetto alle realtà circostanti (con un
tasso di disoccupazione azzerato, di contro al 18% della Polonia), l’ha
però anche resa un pericoloso corpo estraneo in un contesto regionale
strategicamente delicato, una sorta di ingombro sulla strada del
liberismo trionfante. Essa continua ad incarnare una flagrante
violazione al principio recitato dal finanziere George Soros nel corso
di una recente visita a Kiev: “E’ necessario affermare con forza il
diritto di proprietà, presupposto imprescindibile per la crescita” (cfr.
Liberazione, 27-11-05). Oltre a ciò, bisogna aggiungere che la
destabilizzazione di questo Paese è l’ultimo anello in ordine di tempo
di una linea di condotta che punta a fare progressivamente il vuoto
attorno alla Russia, sottraendole uno ad uno i suoi alleati più
prossimi: non è un mistero che i più autorevoli maitres à penser dei due
schieramenti politici statunitensi – bastino i nomi di Henry Kissinger e
di Zbigniew Brzezinsky – abbiano da sempre ritenuto essenziale agli
interessi Usa l’obiettivo di impedire alla Russia di tornare a svolgere
un ruolo di potenza mondiale. Anche per quel che concerne l’attuale
amministrazione Bush, il tasso di diffidenza nei confronti di Putin è
tornato ad essere in rapida ascesa, soprattutto a seguito dei
provvedimenti anti-oligarchi promossi da quest’ultimo nonché dopo le
recenti deliberazioni a tutela delle risorse strategiche nazionali e a
delimitazione della libertà d’azione degli investitori internazionali.
Tecniche di ingerenza targate Cia
Quanto detto è già sufficiente per affibbiare alla Bielorussia il
carattere dell’intollerabilità, per farla rientrare a pieno titolo nel
novero degli “stati-canaglia”. Gli strateghi della “guerra preventiva”
si sono immediatamente messi all’opera. Come ha osservato in occasione
della conferenza “Axis for Peace 2005” – il tedesco Andreas von Bulow,
ex ministro socialdemocratico e membro della Commissione di controllo
parlamentare sui servizi segreti, “i media rappresentano oggi il più
importante strumento di manipolazione delle opinioni. Il Pentagono
possiede, esso solo, un budget di 655 milioni di dollari per la
disinformazione e per influenzare l’opinione pubblica, in particolare in
quei Paesi poco disposti a seguire la politica di guerra preventiva
degli Stati Uniti”(cfr. www.voltairenet.org). I metodi per “esportare la
democrazia” sono infatti molteplici. E non sempre le soluzioni più
direttamente cruente sono compatibili con le esigenze della politica:
così, accanto alla scelta di un impegno militare diretto, troviamo ad
esempio quello che von Bulow definisce “uno degli strumenti millenari di
destabilizzazione”: l’uso delle minoranze etniche. Accanto a questo, i
servizi segreti statunitensi hanno perfezionato – negli ultimi anni e
specificatamente nell’area est-europea – un’ulteriore e quanto mai
insidiosa leva di destabilizzazione: l’urto antistituzionale di una
“rivoluzione interna” finalizzata ad un cambio di regime. Come - da
ultimo - il caso dell’Ucraina ha ulteriormente comprovato, le cosiddette
“rivoluzioni colorate”, pur rovesciando esecutivi in evidente difficoltà
interna, sono state visibilmente eterodirette. Ciò vuol dire che, al di
là dell’enfasi “democratica” profusa a piene mani dai mezzi di
informazione occidentali, dietro i colori vivaci e la pretesa
spontaneità “non violenta” si sono mossi e continuano a muoversi
colossali flussi di dollari e uomini della Cia e del Pentagono.
Beninteso, non è da oggi che sulla scena internazionale operano
associazioni e fondazioni statunitensi, alimentate attraverso
formidabili canali di finanziamento statale. Ne è un illustre esempio la
Freeedom House (Casa della Libertà: un nome, un programma!), creata da
Roosevelt per preparare l’opinione pubblica americana alla guerra; e,
successivamente, instancabilmente attiva sul fronte dell’anticomunismo
militante e delle missioni di libertà al servizio dell’atlantismo. Per
tutta la seconda metà del secolo scorso fino ad oggi, la Freedom House
ha attivato risorse e costruito opinione in sintonia con le necessità
della Casa Bianca: ha organizzato campagne a favore del Piano Marshall e
della Nato, ha preparato l’opinione pubblica motivando l’aggressione
imperialista in Vietnam, ha sovrinteso all’affaire Iran/Contra e
intrigato nel 1988 contro la rivoluzione sandinista. Negli anni ’90 ha
allargato i suoi interessi all’Europa dell’Est, organizzando programmi
di formazione per la dissidenza dell’Europa centro-orientale e - più
recentemente, sotto la direzione dell’ex patron della Cia James Woolsey
- creando in Ungheria un servizio web per le Ong est-europee e aprendo
uffici in Ungheria, Polonia, Romania, Serbia e Ucraina (ma anche in
Kazakhstan, Kirghizstan e Uzbekistan). (Cfr. Le reti di ingerenza Usa,
Newsletter Galileo).
Il colpo di stato non violento
Che da tempo operino associazioni private a supporto della politica
estera Usa od anche in qualche modo fiancheggiatrici dell’azione di
intelligence, non è certamente una novità. Degno di nota, nonchè fonte
di gravi ambiguità politiche, è viceversa il fatto che nel contesto di
un’ispirazione radicale e non violenta vi sia chi si è posto al servizio
della Cia e del pensiero neo-cons, per favorire e mettere in opera le
tecniche del “colpo di stato postmoderno”. E’ il caso di Gene Sharp, già
autore di un noto manuale radicale (Politica dell’azione non violenta) e
successivamente patrocinatore dell’Albert Einstein Institution,
un’associazione che sin dagli anni ’90 “iniziava una collaborazione,
fatta di finanziamenti e consulenze, con istituti filo-governativi come
il National Endowment for Democracy creato da Reagan nel 1983, il
National Democratic Institute presieduto da Madeleine Albright e l’
International Republican Institute, fino alla Freedom House, nata
durante la guerra fredda (…)” (F. Giovannini, Strategie non violente al
servizio dell’Impero, ‘La Rinascita della sinistra’, 3-3-2006). Il
“modello Sharp” è appunto quello felicemente sperimentato nell’ex
Jugoslavia, in Georgia e Ucraina; e da ultimo applicato - questa volta
con esito negativo - in Bielorussia: “Non le semplici tecniche di azione
non violenta, ma ingenti finanziamenti ai gruppi di opposizione, stretta
collaborazione con gli ambasciatori americani, appoggio dei mezzi di
informazione e uso delle Ong per monitorare le elezioni accusando i
singoli regimi di frodi elettorali” (Ibid.). Questa sorta di
“imperialismo democratico e senza spargimenti di sangue” ha anche
provato a sfondare – ma senza successo – nel Venezuela del presidente
Chavez, dove l’Albert Einstein Institute di Sharp assieme al reaganiano
National Endowment for Democracy hanno collaborato nell’organizzazione
delle contestazioni di piazza e, anche qui, nell’amplificazione delle
denunce di brogli elettorali: coloro che hanno sostenuto il fallito
colpo di stato del 12 e 13 aprile 2003, mirante a rovesciare Chavez,
hanno ricevuto finanziamenti anche dalle suddette associazioni.
Bisogna insistere sul fatto che attività come quelle sopra descritte non
solo sono l’opposto di quel che si intende per “normali e democratiche
relazioni tra stati”, ma – in un senso propriamente tecnico –
configurano un’ingerenza assolutamente indebita negli affari interni di
un Paese. E’ quanto viene sottolineato in un recente articolo da Wayne
S. Smith (La Cia di scorta si chiama Ned, ‘Il Manifesto’, 1-3-2006). Il
National Endowment for Democracy (Ned) “è in apparenza una fondazione
privata, non governativa e senza scopo di lucro”. In realtà “riceve un
finanziamento annuale dal Congresso. La finzione ha una sua particolare
importanza perché nella maggior parte dei Paesi – e anche negli Stati
Uniti – esistono leggi severe che controllano l’attività dei cittadini
che ricevono finanziamenti da un governo straniero. Negli Usa, tanto per
fare un esempio, ogni individuo o Ente ‘soggetto a controllo estero’
deve essere registrato presso il dipartimento di giustizia e inviare
ogni sei mesi una relazione sulle proprie attività, comprese quelle
finanziarie”. La fondazione o l’associazione privata funziona dunque da
prestanome privato, da canale alternativo a quelli governativi,
formalmente legittimato a far affluire le necessarie risorse
finanziarie. E’ in questo modo - e con tali esorbitanti mezzi - che
viene organizzata la macchina operativa destinata ad influenzare la
società civile, la stampa, le forze politiche, le unioni sindacali del
Paese di turno da “democratizzare”.
Unione Europea in prima fila
Il caso bielorusso costituisce dunque l’ennesima messa in opera del
suddetto copione. Lo conferma un’altra significativa agenzia questa
volta trasmessa da Odalys Buscarion, corrispondente di Prensa Latina,
una settimana prima delle elezioni del 19 marzo: “Il Comitato di
sicurezza ha presentato all’inizio di questo mese la documentazione
relativa a conteggi falsificati dei voti che avrebbero attribuito un
virtuale trionfo all’oppositore filo-occidentale Milinkevich (…).
Intervenendo alla televisione il capo di questo organismo, Stepan
Sujorenko, ha anche affermato che esistono prove su piani di un colpo di
stato, in corrispondenza con le elezioni, finalizzato ad occupare con la
forza il potere. Ha menzionato tra i patrocinatori la Ong Partenariato,
finanziata dall’estero (…) Il finanziamento a questa organizzazione, a
giudicare dalle prove rinvenute, sarebbe da attribuire ad una filale
regionale del cosiddetto National Democratic Institute. E’ di pubblico
dominio che gli Stati Uniti hanno autorizzato uno stanziamento di circa
12 milioni di dollari per appoggiare nel 2006 le ‘attività per il
sostegno alla democrazia’ in Bielorussia. Si sta attuando una colossale
campagna di interferenza nelle elezioni bielorusse da parte di governi
stranieri, ha rilevato il giornalista Jonatan Stil in un commento sul
quotidiano britannico Guardian: Stil ha definito scandaloso
l’atteggiamento di intromissione dell’Occidente nella contesa elettorale
del Paese slavo” (www.prensalatina.com).
Nel quadro dell’azione di ingerenza destabilizzatrice sin qui descritta,
l’Europa figura in prima fila. Spingono in tale direzione i dieci nuovi
entrati nel club dei 25 Paesi Ue, vero e proprio cavallo di Troia
“americano”; e il portavoce del Consiglio d’Europa non ha perso tempo
nel confermare l’appoggio alla scelta di sanzioni immediate nei
confronti della Bierlorussia e del suo presidente. Tuttavia, per i Paesi
del Vecchio Continente c’è qualche apprensione in più. E’ di questi
giorni la notizia di un maxi-accordo tra la Russia e la Cina che impegna
i due colossi energetici nazionali, il Gazprom e il China National
Petroleum (Cnpc), per la realizzazione di due pipeline che serviranno a
rifornire il Paese asiatico di gas naturale russo. Si tratta di
un’opzione strategicamente decisiva, che rafforza una tendenza
ampiamente in atto e che testimonia dell’insistenza con cui Vladimir
Putin guardi ad oriente. Ciò non è senza conseguenze per la politica
energetica europea: come ha osservato Roland Nash, analista di
Renaissance Capital, “le riserve di idrocarburi della Siberia
occidentale (…) potrebbero non bastare per soddisfare la domanda interna
russa, il fabbisogno dei Paesi europei e quello in aumento della Cina”
(Il Sole 24 Ore, 22-3-2006). In altri termini, l’Europa rischia di
restare senza il gas russo: e, d’altra parte, gli esperti del settore
sottolineano che la strategia energetica russa non può trascurare la
conquista di nuovi mercati e quindi la riduzione della dipendenza dal
mercato europeo. Di qui, il preoccupato commento del quotidiano
confindustriale: “A Mosca non hanno certamente dimenticato la posizione
apertamente filo-ucraina dell’Unione Europea durante la recente ‘crisi
del gas’ tra Mosca e Kiev” (Ibid.). Senza alcun dubbio, la posizione
assunta dall’Ue sulla vicenda bielorussa è destinata a complicare
ulteriormente le cose.
25 marzo 2006
Bruno Steri
Dipartimento Esteri PRC, Comitato politico nazionale, area Essere
Comunisti