Quattrocentomila galline

Quando ti fanno entrare in quei capannoni credi di sapere ciò che ti
aspetta. All'improvviso...

01-10-2003 - Fonte: Andrea Boccalini

Quando ti fanno entrare in quei capannoni credi di sapere ciò che ti aspetta.
All'improvviso, ancora accecato dal sole all'esterno, ti ritrovi in un ambiente
buio, assordato dal grido di migliaia di galline. Con gli occhi ancora appannati
dai flash solari, inizi a scorgere uno spettacolo atroce. Pensavi che la gente non
poteva essere tanto criminale. Almeno fino a quel punto. Ti ritrovi di fronte a
corridoi lunghi decine di metri le cui pareti sono, tante, anzi tantissime gabbie
attaccate l'un l'altra, così per diversi piani.

Da quelle gabbie, illuminate da lampade fioche che pendono dall'alto, escono
decine di migliaia di piccole teste perse in un macabro ritmico e folle becchio.
Decine di miglia, addirittura sono centomila. Una cittadina in pratica. Un altro
brivido ti percorre mentre pensi che negli altri tre capannoni ti attende lo stesso
scenario di crudeltà. In tutto le galline sono quattrocentomila! Nella penombra
lo spettacolo appare, se possibile, ancora più agghiacciante, tanto è il disagio di
fronte a questa scena che i freddi numeri non possono rendere l'idea. A meno
che i numeri non siano quelli delle dimensioni delle gabbie, ognuna misura 50
per 70 cm in cui le galline sono costrette a vivere in sei. Numeri molto più
demoniaci del 666.

Le vedi mentre si accalcano una sopra l'altra per raggiungere il mangime,
ipnotizzate dalle luci che le costringono a cercare disperatamente, come se
fosse una droga di cui non possono fare a meno, il becchime nelle mangiatoie di
fronte alle celle. Il fronte della gabbia è troppo stretto perchè c'entrino tutte e
sei. Quindi si ammassano l'una sull'altra, istericamente, producendo quel
terribile concerto di grida e battiti d'ali che ti dà l'idea della loro disperazione.
Del loro dolore. Puoi toccarla la loro sofferenza.

Le vedi costrette contro natura a combattere tra loro per raggiungere un
premio impostogli dai loro aguzzini. Una manciata di granaglie. Allora ti vengono
in mente strani pensieri e dubbi. Inizi a chiederti cosa pensano quei poveri
animali, centomila! Costrette sin dalla nascita a quella vita; chissà se si rendono
conto che l'esistenza disegnata per loro dalla natura non era quella di soffrire
imprigionate in sei dentro una gabbia di 50 per 70 cm fino alla morte. Magari
anche odiandola per il destino che gli ha serbato. Oppure si rendono conto che
la natura aveva altri progetti per loro e che è il suo figlio prediletto, l'uomo, ad
averle condannate ad una morte lenta quanto atroce.

Ti domandi poi cosa provano veramente a passare tutta la loro vita immobili
oppure a scontrarsi l'un l'altra perchè nella gabbia non c'è spazio per tutte.
Tutta la vita costrette a mangiare perchè ipnotizzate da una luce e il resto del
tempo immerse nel buio ammassate l'una sopra l'altra. Le zampe martoriate dal
continuo contatto con le lamiere della gabbia, il collo martoriato dalle beccate
delle altre compagne di cella. Sempre nell'attesa che le luci si riaccendano per
ricominciare a mangiare. Fare l'uovo. Poi di nuovo buio, sempre immobili.

Questa la vita delle galline ovaiole per un anno e qualche mese. Dopo la loro
produttività cala e quindi vengono avviate verso il macello. Tutte e
quattrocentomila. Allora i capannoni tornano silenziosi. Ma ancora, tra quelle
gabbie adesso vuote, rimbomba l'eco delle urla e dello scalpitio di ali che le
aveva riempite di dolore fino a poco tempo prima. Sono morte tutte e
quattrocentomila, liberate dal supplizio della prigionia cui erano state
condannate. Ma nemmeno dopo un mese quei corridoi sinistri torneranno a
vivere della morte che aspetta altre quattrocentomila galline. Come le altre
condannate a passare la propria esistenza cadaverica per soddisfare il nostro
palato sempre più ingordo. Adesso probabilmente sono già in viaggio, bruciate
dal sole o frustate dal freddo ammassate nei rimorchi dei camion.

Verso l'atroce destino che vivono in ogni momento della loro vita. La loro colpa
è di partorire un uovo per essere madri.

Testo di Andrea Boccalini

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