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I MOTI POPOLARI

 

Le dimissioni di tutti gli organi amministrativi della città, il paventato, ed a torto, pericolo che tale forma di protesta stesse lì lì per estendersi ai paesi del circondario, la minaccia della non ripresentazione delle liste, se non valgono a restituire il Distretto, raggiungono, però, senz'altro l'obiettivo di impensierire, e non poco, le autorità ed in special modo il Prefetto. Una città come Sulmona, senza governo amministrativo e in uno stato di tensione latente rappresenta come minimo una spina nel fianco, che diverrebbe ancora più dolorosa nel caso che i paesi del circondario volessero andare oltre le espressioni di solidarietà e gli ordini del giorno.

Nelle primissime ore della mattinata del 2 febbraio, perciò, il Prefetto di L'Aquila, il dottor Ugo Morosi, telefona al Sindaco Mazara e gli annuncia una sua visita, giustificandola quale normale visita quindicinale compiuta nei comuni della provincia e tesa a mantenere buoni rapporti tra gli uffici della prefettura e gli enti locali. E’ inutile dire come il Sindaco abbia tentato in tutti i modi di dissuadere il Prefetto dal compiere 'la normale visita quindicinale'. Questa, comunque, tanto 'normale' non doveva essere se il Prefetto subito dopo aver telefonato al Sindaco, chiama il commissario di Pubblica Sicurezza, il dottor Pietropaolo Dattilo, chiedendogli di predisporre un adeguato servizio di ordine pubblico. Anche il Commissario cerca in tutte le maniere di convincere il Prefetto a rinunciare ai suoi propositi, ma senza ottenere alcun risultato: il dottor Ugo Morosi parte con il suo autista alla volta di Sulmona.

Il Commissario Dattilo gioca la sua ultima carta: sale su un auto e corre incontro al Prefetto per scongiurarlo di non entrare a Sulmona. A metà strada, sulle svolte di Popoli, incontra l'auto prefettizia; di nuovo le preghiere tese a far recedere il funzionario dalla sua volontà, ma non c'è nulla da fare. Il Commissario Dattilo riesce solo ad ottenere che il Prefetto, prima di entrare al Comune, si fermi al Vescovado per rendere omaggio al Vescovo Luciano Marcante, l'amato patriarca locale.

E’ chiaro che il Prefetto vuole imporre con la forza un ritorno all'ordine costituito, scegliendo a questo fine la strada peggiore. Il funzionario non si rende conto, tra l'altro, che le prerogative connesse alla sua carica, delle quali si fa forte nei confronti del Sindaco e del Commissario di Pubblica Sicurezza, lo rendono, agli occhi della popolazione, responsabile insieme al governo dell'accaduto; con l'aggravante, che non è di brevissimo momento in quel periodo, di provenire da un uf1ficio aquilano, da una città, cioè, che forte dei suoi patroni, succhia dalla provincia tutte le risorse disponibili. A tutto questo deve aggiungersi un'altra considerazione: i giorni successivi al 30 gennaio la calma, è vero, è scesa a Sulmona; ma è una calma piena di rabbia repressa a stento.

La notizia dell'imminente arrivo si è comunque diffusa a Sulmona. E’ dubbio quale sia stata la fonte dalla quale essa si sia propagata. Non è stato certo il Commissario Dattilo, né uno dei suoi uomini a diffonderla. Né si può giurare che sia stato il Sindaco ad avvertire il Comitato di Difesa Cittadina. Il liberale Marchese Mazara è culturalmente e politicamente avverso a qualsiasi forma di protesta politica che non rientri in canali strettamente legali; il massimo che ha potuto fare in questo senso è tutto racchiuso nelle sue dimissioni e nella deposizione della corona d'alloro al Monumento ai Caduti. Certo è che la città prepara al Prefetto un'accoglienza memorabile.

Non viene previsto niente di violento; si vuol solo dimostrare che Sulmona è fredda nei confronti delle Autorità. Il Comitato di Difesa Cittadina in un batter d'occhio diffonde la nuova parola d'ordine tra la cittadinanza: al suo arrivo il Prefetto, S.E. il dottor Morosi, deve trovare una città deserta, le strade vuote, le saracinesche dei negozi abbassate, i muri tappezzati di striscioni con slogan di protesta, mentre le campane dell'Annunziata e delle altre chiese di Sulmona devono rintoccare nel classico scampanio 'a morto'.

Questi sono i limiti che il Comitato di Difesa Cittadina impone alla popolazione: protesta al limite della disobbedienza civile, ma non al di là di stretti ambiti legali. Se tutto fosse rimasto in questi limiti, sarebbe stato giusto qualificare l'azione di protesta "rivolta borghese", come successivamente fece la stampa nazionale, sia milanese che romana. Ma proprio in questa frazione di tempo, quello che il Prefetto impiega per giungere da L'Aquila a Sulmona, può essere preso quale esatto momento di passaggio dal carattere 'borghese' della rivolta a quello "popolare".

Finora la rivolta è stata 'borghese' perché motivata da uno scontro politico non tra partiti diversi ideologicamente, ma tra gruppi appartenenti alla stessa classe dominante; gruppi alla disperata ricerca di un potere o del consolidamento dello stesso. E mentre da una parte quello prevalente usava per il raggiungimento dei suoi fini lo Stato in tutte le sue articolazioni, da quelle centrali a quelle periferiche, dal Ministro al Prefetto, quello destinato a perdere aveva usato l'unica arma a propria disposizione: il blocco delle istituzioni sostenuto dal clamore, clamore e non rivolta, popolare. La partita, all'interno di questa logica, era stata giocata e conclusa con la deposizione della corona d'alloro al Monumento ai Caduti di ,Sulmona. Nonostante la gravità degli avvenimenti tutto si era svolto secondo la logica di un sistema e secondo regole, tutto sommato, con esso compatibili. È il colpo di coda che innesta un processo incontrollabile. Il testardo atteggiamento del Prefetto che a tutti i costi scende a Sulmona per riaffermare l'autorità dello Stato, sia che dipenda da un motu proprio del funzionario, sia che invece discenda da ordini superiori, frusta non tanto l'orgoglio quanto invece la miseria della gente di Sulmona. Ciò che non ottengono le sinistre di Sulmona con la loro azione politica, e cioè penetrare nelle pieghe di quanto sta accadendo per impedire lo svolgersi di un'azione interamente guidata dal partito di maggioranza relativa ed usarne le contraddizioni interne per sconfiggerlo, lo ottiene il Prefetto con la testardaggine propria o impostagli.

Sta di fatto che in men che non si dica la città di Sulmona viene interamente invasa da manifestanti che gridano "Vattene via", "Non ti vogliamo". E, seguendo il prudente consiglio del Commissario Dattilo, il Prefetto non si reca immediatamente alla casa municipale, ma sale le scale del Palazzo Vescovile per 'rendere omaggio' a Monsignore. La popolazione, però, non rispettando il dettato del Comitato di Difesa Cittadina, non rimane chiusa in casa, sciama per le strade e si raccoglie dinanzi al portone del Vescovado. Testimoni oculari raccontano che, impressionato dalla folla che andava crescendo su se stessa, l'autista del Prefetto, rimasto in auto fuori del Palazzo Vescovile, abbia ad un certo punto inveito contro i cittadini più vicini dicendo loro: "Ma che vogliono 'sti pezzenti? non pagano manco le tasse e fanno tutto sto casino!, ha fatto male il Prefetto a dà al Comune le 400 mila lire" - (era di qualche giorno prima l'attribuzione una tantum della somma indicata dall'autista al Comune di Sulmona quale sussidio da erogare ai disoccupati che avrebbero spalato la neve dalle strade di Sulmona, n.d.r.). Se non si può giurare sull'autenticità dell'episodio è comunque certo che, provocati o meno, i sulmonesi presenti iniziano a bersagliare con palle di neve l'autista ed il veicolo del Prefetto.

A questo punto la situazione precipita. Al grido 'vattene, torna a L'Aquila' la folla circonda l'auto e fa per ribaltarla. L'autista si rifugia all'interno del Palazzo Vescovile ed il Prefetto, con una sua prima alzata d'ingegno (altre ne seguiranno), invece di chiamare le forze dell'ordine, chiede l'intervento di un reparto dell'esercito. Succede però un fatto strano, al limite della farsa. Quando il plotone di soldatini giunge a Piazzale Carlo Tresca, davanti al Palazzo del Vescovado, viene accolto festosamente dai dimostranti; anzi l'ufficiale che li guida viene issato sulle spalle e portato in trionfo da alcuni di essi. Si grida 'Viva l'esercito! noi non ce l'abbiamo con voi perché dovete rimanere qua'.

Di fronte alla situazione imprevista, il Prefetto sembra cedere alle ragionevoli richieste avanzate sia dal Commissario che dal Vescovo circa un suo immediato ritorno al capoluogo di provincia. Sale sulla macchina e si avvia su viale Roosevelt, mostrando l'intenzione di tornare sui suoi passi. Ma giunto fuori dalla vista della folla, compie una rapida inversione e, per vie traverse, entra in Palazzo San Francesco. La manovra, se sfugge ai dimostranti, non passa però inosservata. Con una rapida corsa la folla tumultuante da Piazzale Carlo Tresca giunge al portone del Palazzo Comunale, in via Mazara, leggermente in ritardo rispetto al funzionario. Una trentina di dimostranti riesce ad incunearsi all'interno del ,Palazzo, un attimo prima che i vigili urbani chiudano il portone. Chiuso il portone è facile per i Vigili urbani ridurre alla ragione quella trentina di cittadini inferociti, intenzionati a linciare il Prefetto.

Intanto Palazzo San Francesco viene preso d'assedio. Secondo le risultanze agli atti del processo per i fatti di "Jamm' mò" si contano ormai tremila persone. E le campane delle città suonano tutte a distesa e non a 'morto', come aveva ordinato il Comitato di Difesa Cittadina. Frastornato dalle grida della folla, il Prefetto riceve nell'ufficio del Sindaco lo stato maggiore che ha ideato e messo in atto la strategia dei tre tempi in difesa del Distretto, dal Sindaco Mazara al colonnello Sardi De Letto. Questi signori, tutti costernati, porgono le loro scuse al funzionario governativo per la piega presa dall'andamento dei fatti. Il Prefetto rifiuta le scuse e, per far sentire tutto il peso della sua indignazione, rifiuta anche di stringere la mano ai membri del Comitato di Difesa Cittadina presenti, responsabili 'morali', a suo dire, di quanto sta avvenendo.

Intanto in via Mazara la folla preme e sta per abbattere il portone di Palazzo San Francesco. Il Prefetto sente stringersi intorno il cerchio e, non fidandosi delle forze dell'ordine locali, dirette tra l'altro dal Commissario Dattilo, sospettato di essere in combutta con il Comitato di Difesa Cittadina per lo zelo mostrato nel tentativo di dissuadere il Prefetto stesso dall'entrare in Sulmona, commette il secondo errore della giornata. Telefona ai Commissariati di P.S. e alle Caserme dei Carabinieri più vicine, cioè a L'Aquila, Chieti, ,Pescara ed Avezzano, per chiederne l'aiuto, buttando immediatamente nella mischia altri reparti dell'esercito delle caserme sulmonesi in attesa che giungano gli aiuti richiesti. Il secondo intervento, dei soldati non si risolve come il primo. Questa volta i militari, senza usare la forza, ma con una certa decisione si pongono di presidio al Palazzo Comunale e tengono la posizione fino all'arrivo delle forze di polizia mobilitate dal Prefetto; dopodiché si ritirano in buon ordine.

Si arriva così alle 13,30, ora della prima carica della polizia sulla folla che per un attimo si disperde. Ciò consente alla polizia ed ai carabinieri di attestarsi al Quadrivio, l'incrocio tra Corso Ovidio, Via Mazara e Via Roma. Palazzo San Francesco ed i suoi attuali e preoccupati inquilini tirano un respiro di sollievo, ma è per poco. Infatti le forze dell'ordine, guidate da ufficiali e funzionari che non conoscono le strade del centro di Sulmona, ritengono di aver bloccato ogni accesso al Palazzo municipale, non sapendo che in Via Mazara si può arrivare da Piazza XX Settembre, passando per Via Carrese. Appunto da questa strada i dimostranti tornano innanzi al 'Comune infilandosi nel Palazzo prospiciente, palazzo Mazara, sede all'epoca dell'Istituto Tecnico per Geometri. All'interno della scuola i dimostranti raggiungono i balconi che guardano verso l'ala di palazzo San Francesco nella quale si trovano il Prefetto, il Sindaco e gli altri protagonisti ufficiali della vicenda. Sfasciate le suppellettili scolastiche, se ne ottengono oggetti da lancio con i quali vengono bersagliate tutte le persone visibili all'interno degli uffici comunali. Il Prefetto ed i suoi compagni di sventura sono perciò costretti a rifugiarsi nelle stanze più interne del Comune e precisamente in quelle terranee, negli uffici dei vigili urbani. L'azione aggirante dei dimostranti, nel frattempo, ha scompaginato le difese apprestate dalle forze dell'ordine. Costretta a seguire i sulmonesi all'interno dell'Istituto Tecnico, la polizia lascia sguarnito il Quadrivio e la folla torna padrona della piazza. Si scatenano le prime sassaiole ed echeggia per la prima volta il grido di guerra che darà il nome alla rivolta: JAMM' MO. Questa espressione dialettale solo letteralmente è traducibile in lingua nel senso di 'andiamo adesso', andiamo in questo momento (l'immancabile umanista di provincia in quei giorni ricordava l'etimo latino "eamus mox"), in realtà nel linguaggio comune, ancora oggi conserva una serie di significati e sfumature variabili in accordo alle azioni della vita quotidiana durante le quali viene usata, ma di questo si dirà successivamente.

Dunque, JAMM' MO, e si innalzano le prime barricate. Tra le 15 e le 16 del 2 febbraio del 1957, la popolazione di Sulmona in rivolta erige due barricate nel tratto di Corso Ovidio compreso tra il Quadrivio e la quattrocentesca fontana del Vecchio, a ridosso dell'acquedotto medievale. Gli agenti di Pubblica Sicurezza ed i Carabinieri non riescono a tenere la piazza, ma di lì a qualche momento ricevono rinforzi da Pescara. Con la Mobile pescarese la forza pubblica riguadagna il terreno perduto; le due barricate vengono in parte abbattute ed in alcuni punti della città vengono formati dei posti di blocco. Diminuisce l'intensità della rivolta, ma non a danno della qualità. Il Centro Storico è per il momento interdetto ai civili; tutta la zona adiacente a Palazzo San Francesco è pattugliata dalla polizia, ma nelle case che si affacciano sulle strade del Centro storico c'è fermento: una pattuglia di giovani comunisti, coadiuvata da altri giovani che con la politica non avevano mai avuto che vedere, sta organizzando un attacco particolare alle forze dell'ordine. Madri, sorelle e conoscenti di questi giovani hanno messo sul fuoco grossi caldai d'acqua a bollire; l'uso che se ne vuol fare è evidente: si intende raffreddare la animosità della polizia con scrosci d'acqua bollente. Fortuna vuole che il leader di questi giovani si rechi da un ex capo partigiano, ufficiale dell'Esercito Italiano nella campagna di Grecia e di Albania, rimasto in quella zona dopo 1'8 settembre nei ranghi partigiani, Claudio Di Girolamo, capogruppo comunista al Comune. Di Girolamo si rende conto che l'uso di una tale arma potrebbe scatenare una reazione molto pericolosa da parte delle forze dell'ordine ed affannosamente si reca in tutte le case dove si sta preparando il piano bellicoso ed impedisce che si prosegua in tal senso.

Intanto il Prefetto pone in atto il primo tentativo di sfuggire alla trappola: il Marchese Mazara, dalle scale del portale meraviglioso di San Francesco della Scarpa, che dà su, Corso Ovidio, cerca di arringare i rivoltosi e di ridurli alla calma. L'azione costituisce in pratica un diversivo per consentire al Prefetto di uscire dal portone di via Mazara. La paura però gioca un brutto scherzo al funzionario: temendo l'accorrere improvviso dei sulmonesi in rivolta, il dottor Morosi esita troppo sull'uscio del portone di Via Mazara tanto che qualcuno si rende conto della manovra e sottrae la folla al comizio improvvisato dal Sindaco. Di nuovo il Prefetto deve rintanarsi all'interno del Comune. Visto che non riesce a trarsi d'impaccio con la forza disponibile sulla piazza, il dottor Morosi ricorre di nuovo al telefono e questa volta chiede aiuto alla Celere di Roma e di Senigallia.

Nonostante queste brevi scaramucce, però, la situazione rimane per alcune ore sostanzialmente ferma: le forze dell'ordine attestate nei punti strategici all'interno del centro storico ed i rivoltosi padroni del campo periferico dal quale di tanto in tanto e da diverse direzioni lanciano attacchi fulminei ai posti di blocco della polizia.

Con il passar del tempo, il Prefetto si spazientisce. Non intende assolutamente attendere l'arrivo previsto in nottata della Celere per andar via e di nuovo richiede l'intervento dell'esercito. Finalmente su un provvidenziale autoblindo il dottor Morosi riesce ad uscire da Sulmona, non senza costringere il pesante mezzo cingolato dell'esercito a scendere ,le scale che dal Largo Mazara portano verso la circonvallazione occidentale e, di lì, fuori Sulmona. Sono le 19,45 circa.

Vistisi sfuggire la preda, i rivoltosi si scagliano contro le forze dell'ordine rimaste. Riconquistano piazza XX Settembre ed il Quadrivio e vi ricostruiscono le barricate. Di nuovo la polizia carica e sgombra il Centro. Alla fine della giornata la forza dell'ordine è padrona del campo, ma intorno alle 22 in città si sparge la voce che sulla statale 17 sta per giungere la Celere di Senigallia i dimostranti abbandonano il Centro storico e corrono verso il Ponte di San Panfilo, attraverso il quale la Statale 17 confluisce nella città, con la ferma intenzione di bloccare l'autocolonna della Celere. Sul posto, in quel momento, è in transito un contadino con un carro carico di tronchi d'albero. Il legname viene immediatamente requisito per farne una barricata. Sul posto inoltre vengono rinvenuti alcuni fusti di catrame utilizzato per riparazioni al manto stradale. I dimostranti si impossessano anche del catrame e, dopo averne cosparso la barricata, danno fuoco al tutto. Per il momento la Celere non può passare.

L'autocolonna che giunge di lì a poco, infatti, rimane bloccata immediatamente prima del Ponte di San Panfilo. Insieme ad essa, però, provenienti da Roma, rimangono bloccati i primi inviati speciali dei giornali. Si tratta di firme illustri, ad evidenziare l'importanza che i fatti di Sulmona vanno assumendo per la cronaca nazionale: sono presenti nella notte tra sabato e domenica, alla periferia di Sulmona, Villy De Luca per "il Giorno", Igor Man e Alberto Consiglio per "Il Tempo", Giancarlo Del Re per "Il Messaggero", Lillo Sabatini per "Paese Sera" e Giovanni Lalli per "L'Unità". Anche i giornalisti, come l'autocolonna della Celere, rimangono bloccati dalla barriera di fiamme. Ma, informato della presenza della stampa, un gruppetto di dimostranti, attraverso viottoli di campagna, aggira la barricata in fiamme e si mette in contatto con i giornalisti riuscendo a farli entrare in Sulmona percorrendo a ritroso i viottoli di campagna: l'opinione pubblica deve conoscere i motivi della rivolta sulmonese. L'intervento dei giornalisti servirà, tra l'altro, a far guadagnare qualche extra ai fotografi locali, sia professionisti che improvvisati: le foto vengono pagate molto bene; viene però richiesto di rendere anonimi i volti dei sulmonesi che in esse compariranno.

In aiuto all'autocolonna della Celere di Senigallia interviene, mentre i gionalisti penetrano in città, la polizia che occupa il centro storico. Vengono chiamati i pompieri che spengono la barricata in fiamme e l'asfalto sul quale è stato versato altro catrame per un lungo tratto. II transito per l'autocolonna, sebbene con qualche difficoltà, è libero. Si tratta di superare il tratto di strada reso viscoso dal bitume bollente che si attacca alle ruote degli automezzi. Un ufficiale della Celere, in una intervista rilasciata a Giancarlo Del Re, dirà: 'Non è stato uno scherzo, dopo i tronchi incendiati, abbiamo trovato la pece. La strada ne era ricoperta. Pece fusa, bollente, molle come fango ed appiccicosa come lo zucchero filato. Se non avessimo potuto indurirla con l'idrante, i nostri mezzi non avrebbero raggiunto l'abitato di Sulmona. Era un 'lavoro perfetto'. Quasi all'alba, perciò, la forza dell'ordine penetra a Sulmona, mettendola interamente a presidio. Sono presenti a questo punto 600 tra poliziotti e carabinieri. I dimostranti ritengono più opportuno sgombrare il campo ed andare a dormire.

Nella mattinata di domenica 3 febbraio, Sulmona si sveglia 'occupata'. Ieri il Prefetto ed oggi la Polizia. È un altro affronto. "Ma che vogliono, chi li ha mandati?" sono questi i primi commenti della popolazione impressionata dallo schieramento considerevole di forze. Il ricordo dell'occupazione tedesca, non ancora spento nella coscienza cittadina, viene richiamato spesso in quella giornata. Ed insieme a quel ricordo la presenza massiccia della polizia ne provoca un altro, più vicino nel tempo: quello dell'Ungheria. Le scaramucce del giorno antecedente richiamano inoltre il ricordo della rivolta dei contadini sulmonesi contro la milizia fascista e le guardie del dazio del '29, in pieno regime. A furor di popolo in quell'occasione vennero bruciate le garitte daziarie che imponevano gabelle vessatorie ai contadini sulmonesi che, dalle campagne 'fuori porta' (al di là delle mura cittadine) riportavano in città prodotti agricoli. la rivolta allora fu scatenata come risposta, si racconta, all'eccessivo zelo di una guardia daziaria che, affascinata dalle grazie di un'avvenente campagnola, aveva cercato di condurre a fondo una perquisizione non certo diretta a scovare merce da contrabbandare.

La fastidiosa presenza della polizia non impedisce, comunque, il tradizionale rito della passeggiata domenicale del dopomessa. Questa infatti procede sotto gli occhi inquisitori degli uomini del 7° reparto Celere di Senigallia, del l° reparto mobile della Celere di Roma, delle sezioni di Pubblica Sicurezza e Polstrada di Chieti, Teramo, Pescara e l'Aquila, del reparto Mobile dei Carabinieri di Chieti. Ma, nonostante ciò, sembra quasi tornata la calma. Senonché le forze dell'ordine hanno ricevuto istruzioni nel senso di impedire qualsiasi assembramento, e per assembramento era da intendersi anche il conversare di tre persone. Quindi, al minimo accenno del soffermarsi a chiacchierare con due o tre amici, poliziotti e carabinieri intervengono con il loro poco complimentoso 'circolare, circolare!'.

La reazione della cittadinanza a questo atteggiamento è tra il sarcastico e l'ironico: "la senti l'aria?" si dicono l'un l'altro i sulmonesi che, fermatisi a commentare tra loro 'l'occupazione', i fatti del giorno precedente, vedono appressarsi con cipiglio da duro il celerino che invita "a circolare". "La senti l'aria?" è un ostentato quanto implicito "sfottò" all'uomo della polizia, una strizzata d'occhio, un avvertimento all'amico, tra l'infastidito e il furbesco: "occhio allo sbirro". Ma la tensione non lascia spazio all'ironia. Riferendo dello stato d'animo determinato in quella situazione, l'inviato de "il Messaggero", Giancarlo Del Re scrive: "la esasperazione popolare va lievitando con una velocità vertiginosa. Operai, professionisti, ragazzi, gente di tutte le condizioni sociali, senza distinzioni di partito politico, tutti si trovano d'accordo nel dichiarare che l'azione della polizia è un affronto bello e buono": "Non siamo né ladri, né assassini e non vogliamo essere considerati come tali. Se abbiamo dimostrato contro il Prefetto Morosi è perché abbiamo subito una ingiustizia. Andato via il Prefetto, non abbiamo più nulla da dire. Perché farci trovare la polizia in casa?".

Questo clima di tensione cresce su se stesso durante tutta la mattinata ed è evidente che lo stretto contatto tra la popolazione e la forza pubblica è destinato a degenerare alla prima occasione; e questa si presenta nel pomeriggio a piazza XX Settembre. Qui la polizia occupa tutta la parte più interna della piazza ed è disposta sulle scale del Liceo Ginnasio Ovidio. Un gruppo di giovani si ferma sul lato opposto, dalla parte di Corso Ovidio, a fronteggiarla con strafottenza ed ostentando un deciso rifiuto di ottemperare al divieto di riunirsi in gruppo. Tra essi si aggirano con notevole apprensione il Marchese Mazara e l'avvocato Autiero che si offrono di pagare il biglietto del cinema a chi abbandonerà la piazza. "Non andiamo da nessuna parte - rispondono loro con decisione - sono loro, i celerini, che debbon andar via da Sulmona, ed anche subito".

In questa situazione, a qualcuno viene in mente di giocare una beffa alla Celere. Ad un segnale convenuto tutti i giovani raccolti in piazza XX Settembre, sul lato di Corso Ovidio, cominciano a guardare con insistenza e ad indicare un punto sul tetto del Liceo Ginnasio Ovidio, l'edificio immediatamente alle spalle dello schieramento delle forze dell'ordine. Una volta richiamata l'attenzione della Celere, i giovani cominciano a lanciare, sempre gesticolando, un segnale di diverso significato: butta giù, che tanto non ti vedono!, rivolto ad un interlocutore che i Celerini non possono vedere per la loro posizione troppo a ridosso dell'edificio. Per individuare il fantomatico destinatario dei messaggi, la polizia dovrebbe spostarsi in avanti nella piazza e quindi venire a contatto con i giovani sbeffeggiatori. D'altra parte, rimanere al di sotto del tetto dal quale da un momento all'altro possono piovere tegole non è, senz'altro, una situazione tranquillizzante. E questo gioco dura fino a quando un poliziotto non reggendo alla tensione spara verso i giovani un candelotto lacrimogeno.

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È il segnale della riapertura delle ostilità. Al grido di "Jamm' mò" sui reparti della celere piove una sassaiola così fitta che debbono disperdersi. Nell'occasione ci scappa il primo ferito grave; un celerino perde un occhio in seguito ad una sassata. Mentre la Celere cerca di riorganizzarsi avviando un carosello con gipponi, sulla statua di Ovidio, che domina piazza XX Settembre, il solito ignoto pone un cartello recante la scritta "Fuori la polizia da Sulmona. Siamo un paese democratico, tornatevene a casa vostra". Gli scontri sono più duri della giornata precedente. Sebbene dispongano di 600 uomini sulla piazza, gli ufficiali ed i funzionari che dirigono le operazioni non fronteggiano la situazione. Si trovano di fronte un'intera popolazione inferocita che mostra una spiccata e spontanea attitudine alla guerriglia urbana e che adotta tattiche inconsuete alle quali la Celere di Roma e Senigallia, aperta dominatrice delle manifestazioni di piazza in aree metropolitane, non è abituata.

Giocano a favore dei sulmonesi in rivolta la ristrettezza degli spazi nei quali i "caroselli" dei gipponi non possono produrre g1i effetti intimidatori loro propri, la non conoscenza, da parte di polizia e Carabinieri, del luogo dell'azione, l'adesione incondizionata di tutta la popolazione alla rivolta: persino il parroco di Santa Chiara avrà occasione di malmenare due celerini che stavano inseguendo verso la chiesa due chierichetti; per non parlare delle donne che, con le borse della spesa, raccolgono pietre per rifornire gli uomini dimostratisi espertissimi frombolieri. A questo proposito bisogna annotare, nello svilupparsi del dramma, una nota farsesca. Di tanto in tanto, durante la mischia, la Polizia sente echeggiare, accanto al grido Jamm' mò, un altro grido: "Alla carica"; e, mentre si prepara a sostenere un attacco più duro annunciato dal classico grido di incitamento, vede dileguare dinanzi a sé gli attaccanti. In realtà quel grido è il segnale dei rivoltosi che invita a rifornirsi di muni2Jioni, a "caricarsi" di pietre per poter sostenere lo scontro con la polizia.

La rivolta tocca il suo acme parossistico al calar del sole; ed il momento è veramente drammatico perché segna lo sbando più completo delle forze dell'ordine. Accade che, accanto al rumore che normalmente accompagna una rivolta, se ne registra un altro, cupo, assordante, catastrofico e, quello che è peggio, di natura inspiegabile. A questo rumore si accompagna il suono di campane impazzite a distesa e il tutto coincide con l'assalto più duro dei frombolieri e dei rivoltosi che infrangono i parabrezza di numerosi camion; che sfondano a colpi di piccone i pneumatici di alcune jeep; che scoperchiano i tombini di ghisa della fogne e li spezzano per fame oggetti da lancio per impedire agli automezzi della polizia di circolare liberamente; che riescono a rovesciarne alcuni e a disarmarne gli occupanti. Il terribile rumore, si scopre immediatamente, è causato dal rotolamento di una cisterna metallica destinata a contenere la nafta da riscaldamento. E’ un cilindro di lamiera lungo cinque o sei metri e del diametro di un metro e mezzo o due, usato come barricata semovente dietro la quale si riparano numerosi dimostranti che, ininterrottamente, lanciano pietre (nel frattempo erano stati disselciati "i Cordoni", vale a dire i gradoni della scalinata dell'acquedotto medievale tra Piazza Gariba1di e Corso Ovidio). E’ il classico attacco combinato dei mezzi blindati e della fanteria; una tattica di guerra, non c'era proprio nulla da dire.

L'effetto psicologico complessivo derivante dalla somma delle singole azioni dei rivoltosi deve essere stato disastroso sulle forze dell'ordine impegnate a sedare la rivolta: è il momento di maggior trionfo di Jamm' mò, ma segna anche l'inizio della sconfitta dei sulmonesi in rivolta.

Lo scontro avrebbe potuto essere più cruento. Nelle mani di molti dimostranti erano cadute le armi sottratte agli uomini della forza pubblica. Non solo. Un gruppo di militanti comunisti, incrementato da altri giovani di diversa estrazione politica e comunque non politicamente impegnati (quegli stessi che avevano fatto preparare caldai di acqua bollente da riversare sulla polizia durante gli scontri del giorno precedente), dalla specialità, acquisita durante gli scontri in atto, di rispedire al mittente i candelotti lacrimogeni, trae l'idea di usare delle bottiglie "molotov" e ne confeziona una notevole quantità utilizzando, tra l'altro, la benzina di automobili parcheggiate o di passaggio. Predisposte queste tremende munizioni il gruppo, per fortuna, va a prendere ordini dal suo supposto capo naturale, Claudio Di Girolamo, come aveva fatto nell'occasione precedente. Anche questa volta il leader comunista tronca sul nascere questa azione di guerriglia urbana che potrebbe portare la rivolta a piani di scontro superiori anche alle stesse volontà dei rivoltosi, e dal momento che ci si accerta che alcuni poliziotti sono stati disarmati, ad arte viene diffusa una provvidenziale bugia secondo la quale le leggi considerano "legittimo", durante le rivolte di qualsivoglia natura, l'uso di armi quali pietre e bastoni, essendo invece assolutamente proibito e punito nelle forme più dure l'uso di armi da fuoco e delle bottiglie molotov.

Questo provvidenziale raggiro, raccolto e diffuso tra i rivoltosi dai cittadini più responsabili, impedisce l'uso delle molotov e delle armi sottratte alla forza pubblica. Nella sentenza pronunciata il 6 aprile del '66 dalla terza sezione penale del Tribunale di Roma, si fa cenno di colpi di pistola sparati dai dimostranti nel pomeriggio del 3 febbraio. A questo proposito è necessario dire che questa eventualità non può essere certo esclusa, ma nello stesso tempo bisogna aggiungere che tutti i sulmonesi che parteciparono alla rivolta hanno sempre fatto un punto d'onore nell'affermare che da parte loro non si sparò nemmeno un colpo di arma da fuoco, né si dette luogo ad episodi di saccheggio; solo due esercizi commerciali ebbero le vetrine infrante, ed i loro proprietari, molto noti in città, hanno sempre affermato, in più di un'occasione, che l'unico danno subito in quelle giornate non risultò essere altro che la rottura delle vetrine.

Tornando alla dinamica della rivolta, c'è da registrare che, nel momento in cui i funzionari e gli ufficiali che dirigono le operazioni si rendono conto che i dimostranti stanno per avere il sopravvento, ordinano di passare ad un'azione repressiva più pericolosa: si comincia a sparare ad altezza d'uomo. I rivoltosi percepiscono il salto di qualità nell'azione di polizia e non accettano i nuovi livelli di scontro. Si invertono i ruoli: le forze dell'ordine, dapprima sbeffeggiate e braccate, si trasformano in cacciatrici. I rivoltosi vengono inseguiti e manganellati dappertutto. Il colpo di grazia alla rivolta viene, però, inferto quando, alle 19,30, Michele Accursio, un'apprendista falegname, si accascia a terra ferito da un colpo di moschetto. Siamo a Piazza del Carmine. Il giovane ventenne presenta due ferite, all'avambraccio sinistro ed al fianco sinistro, procurategli dallo stesso proiettile esploso da un moschetto in dotazione alle forze di polizia. In seguito a questo episodio, in meno di mezz'ora la forza pubblica diviene padrona del campo. Vengono immediatamente istituiti posti di blocco. I poliziotti da braccati si trasformano in bracconieri ed inseguono, come abbiamo già detto, i rivoltosi dappertutto. I più fortunati riescono a guadagnare le proprie case, e di lì, da dietro le persiane accostate, dando indicazioni a quelli rimasti in strada, indicano i portoni nei quali nascondersi, avvertono i fuggiaschi del sopraggiungere della polizia, ospitano gli amici. Ma una grossa parte dei partecipanti a:11a rivolta cade nelle maglie della polizia: i pochi bar del centro rimasti aperti, il cinema Pacifico, l'ospedale dell'Annunziata sembrano provvidenziali rifugi, ma non è così; si trasformano in vere e proprie trappole e chi vi si rifugia viene stanato a colpi di lacrimogeni. Questo accade al Cinema Pacifico, al Bar Tre Rose e perfino all'ospedale, allora ubicato nel magnifico Palazzo dell'Annunziata. Se dai locali pubblici sciama una folle boccheggiante, con gli occhi ed i polmoni irritati dai gas, quanto accade all'ospedale assume tinte drammatiche: il fumo dei lacrimogeni raggiunge le corsie provocando vere e proprie scene di panico tra i ricoverati. I medici scendono nell'androne d'ingresso e si trovano in presenza di un parapiglia immane; è in atto un corpo a corpo tra la polizia ed alcuni rivoltosi che resistono all'arresto. L'intervento dei medici consente ad alcuni di sfuggire all'arresto, mentre i poliziotti vengono ricacciati fuori infuriati.

Ormai la caccia all'uomo comincia a dare i suoi risultati: fino a tarda sera verranno "messi dentro" 44 cittadini ,di Sulmona; bisogna dire che, però, non tutti avevano partecipato alla rivolta. In pratica gli arresti cominciano quando ormai la rivolta sta percorrendo il tratto decrescente della sua parabola ed è estremamente difficile cogliere dei rivoltosi in flagrante delitto. Così molti cittadini vengono arrestati solo perché hanno le mani sporche; prova "irrefutabile", questa, secondo la polizia, 'dell'aver lanciato sassi. Ma anche chi ha le mani pulite viene arrestato: i tutori dell'ordine stabiliscono che ha avuto tutto il tempo di lavarsele per sfuggire così alla giusta punizione: l'arresto. Tutti verranno incriminati per i reati di resistenza, oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa, violenza e danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato. Con queste imputazioni vengono arrestate anche persone, semplici passanti, che rientravano a Sulmona dopo essere stati a pranzi nuziali o ad assistere alla partita in trasferta della squadra del cuore. Tra gli arrestati la maggioranza è costituita da uomini del Partito Comunista e da cittadini tra i meno abbienti; tra essi è compreso Alfieri Di Girolamo, fratello del leader comunista, "stretto" in prigione solo perché scambiato per il proprio familiare. ,Mentre si disperdono gli ultimi gruppi di cittadini la polizia ode grida minacciose ripetute più volte: "A Sulmona ci sono 800 doppiette!". La minaccia è chiara e le forze dell'ordine ne terranno conto, vedremo in seguito come.

Il primo bilancio della rivolta, che rimarrà poi come ufficiale, è quello che si compie in nottata: su 580 uomini della forza pubblica presente si registrano 36 feriti, di cui 3 ufficiali, e 151 contusi. In totale la rivolta ha fatto sentire il suo sapore amaro ad un rappresentante delle forze dell'ordine su 3. I sulmonesi feriti risultano essere 22. Sono, però, senz'altro di più perché sono molti coloro che non ricorrono al pronto soccorso per non correre il rischio di essere denunciati.

Nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio a Sulmona si registrano parecchi movimenti. I 44 fermati sono stati portati presso il Carcere Giudiziario di San Pasquale. Dapprima gli Agenti di Custodia ed i loro dirigenti, poi le stesse forze dell'ordine convengono che è estremamente pericoloso tenere incarcerati a Sulmona gli arrestati durante la rivolta. Quello che si teme maggiormente è un assalto al carcere e la soluzione più ovvia è quella di cercare un'altra sede per gli arrestati. Nella notte, infatti, una autocolonna parte alla volta di Chieti, trasferendovi i presunti rivoltosi. È la prima decisione sensata adottata da chi detiene la responsabilità dell'ordine pubblico a Sulmona in questi giorni. Infatti all'alba del giorno successivo una folla muta, composta completamente da donne, quelle degli arrestati, si radunerà spontanea davanti al cancello del carcere e vi rimarrà per molte ore anche quando avrà saputo del trasferimento dei loro congiunti nel Carcere di Chieti, avvenuto nella notte. Molti corrispondenti, evidentemente epigoni del realismo letterario verghiano, si lasceranno andare ad amene, a dir poco, descrizioni di questa folla.

Ma quella notte accade qualcos'altro: la rivolta, sebbene sconfitta sul campo, non è stata domata. Sempre quel gruppo di giovani rivoltosi che nei giorni precedenti aveva preparato e fatto preparare caldai d'acqua bollente e bottiglie molotov, va a bussare di nuovo alla porta di Claudio Di Girolamo. L'assonnato capogruppo comunista si vede proporre un piano di vero e proprio sabotaggio. In una intervista rilasciata sull'argomento, il professor Di Girolamo ha dichiarato: "Nella notte tra domenica 3 e lunedì 4 febbraio, venni svegliato verso le due o le tre da un gruppo di giovani i quali, quasi fuori di sé, mi dissero che si erano procurati delle polveri nere, della dinamite e volevano il mio consenso per minare un ponte della ferrovia sulla tratta Sulmona-L'Aquila e precisamente tra Sulmona e Pratola Superiore; anche allora dovetti costringere alla ragione questo gruppo di giovani che prendeva le più svariate iniziative in questa lotta rivoltosa". L'episodio è stato confermato dal professor Carlo Autiero, che prenderà il posto di capogruppo consiliare comunista quando Di Girolamo uscirà dal PCI in disaccordo con gli esponenti locali e provinciali di questo partito. Il professor Autiero, allora appena iscritto al PCI, ha ricordato come quel gruppo di giovani si procurò la dinamite sottraendola al deposito di una cava di sabbia da costruzione, poco distante da Sulmona.

Sempre nella notte tra il 3 ed il 4 i responsabili dell'ordine pubblico a Sulmona prendono un'altra decisione che si rivelerà molto saggia e sdrammatizzante. La polizia ed i carabinieri inviati a Sulmona vengono concentrati tutti nella caserma "Cesare Battisti". L'acquartieramento della forza pubblica nella caserma militare viene deciso perché ci si era reso conto che la presenza della polizia era vista in quei giorni come una provocazione. Un ruolo particolare deve aver giocato, inoltre, il minaccioso grido risuonato nelle strade di Sulmona sul finire della rivolta: "a Sulmona ci sono 800 doppiette", esplicita minaccia di scontri, questa volta a fuoco. Sta di fatto che nella mattinata del 4 febbraio, in giro per Sulmona si vedono solo le divise amiche dei vigili urbani. Anche ciò contribuirà a calmare le passioni.

Ma il fatto che spegnerà completamente il fuoco della rivolta è la liberazione in giornata degli arrestati. Molto presto, nella mattinata, il sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Sulmona, il dottor Salvatore Sambenedetto, molto più lucido e freddo del Prefetto Morosi, non perde tempo e si reca a Chieti per interrogare gli arrestati della rivolta. Nonostante siano 44, il giudice riesce ad interrogarli tutti e giunge a liberarli in serata. È una mossa ispirata. Non sempre lo Stato, nelle sue multiformi espressioni istituzionali, si dimostra arrogante. E ciò viene apprezzato dalla popolazione, che si libera delle passioni rivoltose.

La rivolta, però, è stata un fatto grave che colpisce l'opinione pubblica nazionale. La stampa nazionale, quotidiana e non, vi si butta a corpo morto ed i fatti di "Jamm' mò", tengono banco insieme allo scandalo Montesi-Piccioni.

L'effetto politico più immediato dei fatti di "Jamm 'mò" {altri ce ne saranno nel senso voluto da chi fin dal '54 innescò la "querelle" del Distretto, ma di questo parleremo in appresso), è quello di far intervenire il Parlamento sull'intera vicenda. Il 26, 27 e 28 marzo dello stesso anno, la Camera discute diverse mozioni presentate da diversi partiti politici.

Questa scadenza trova Sulmona vigile. Fin dalle prime ore del 28 in città si registra un insolito movimento; non è per prepararsi alla consueta giornata lavorativa, ma per partire alla volta di Roma. Su due pullman e circa settanta automobili, 500 cittadini partono per andare ad assistere alla seduta parlamentare in cui si svolgerà un dibattito sulle due giornate della rivolta e sulla situazione economica e sociale del comprensorio sulmonese. In città la popolazione, come è ormai divenuta consuetudine, pone in atto uno sciopero generale composto e compatto. Alle 7 in punto l'autocolonna parte. Le parole del dottor De Monte, a proposito della "marcia su Roma", pronunciate nel comizio tenuto al Teatro Comunale dopo il notturno trafugamento del Distretto, si sono inopinatamente realizzate. Dice il colonnello Sardi Del Letto a Lillo Spadini di "Paese Sera" che lo intervista: "Andiamo a Roma educatamente, riceveremo, grati, i biglietti di ingresso per la tribuna della Camera ed assisteremo alla seduta in contegnoso silenzio. Due sono le mozioni che concernono i problemi di Sulmona: una presentata dalla Democrazia Cristiana e la seconda da tutti gli altri settori. Ci attendiamo che le fondino [sic] insieme per risolvere più efficacemente e con spirito unitario la angosciosa situazione della nostra città e delle zone circostanti". Assieme al colonnello Sardi De Letto, guida l'autocolonna l'avvocato Giovanni Autiero. Quest'ultimo, abbandonata la Democrazia Cristiana in seguito alle vicende del '54 e schieratosi con il partito liberale, ha preso accordi con il capogruppo comunista Di Girolamo che avrebbe dovuto attendere l'autocolonna sul piazzale di Montecitorio con i permessi d'entrata alle tribune del pubblico in aula.

Lungo la strada l'autocolonna è fatta segno di particolari attenzioni da parte di numerose pattuglie della Polizia stradale. Le soste non vengono consentite; col pretesto di imporre il rispetto degli spazi regolamentari di marcia tra una vettura e l'altra, solerti agenti tentano di spezzare l'autocolonna. Infine, a 7 chilometri da Roma, l'ultimo intoppo: reparti del primo battaglione della Celere romana, guidati dal Questore Marchetti, hanno formato un posto di blocco per la sola autocalonna sulmonese. Questa non può andare avanti ed entrare nella città, perché, comunica ufficialmente il Questore, intralcerebbe il traffico. I 500, è mezzogiorno, avrebbero dovuto già trovarsi a Montecitario, dove li aspetta impaziente Claudio Di Girolamo che, insieme al deputato comunista Giulio Spallone, ha raccolto presso i parlamentari d'i tutti i partiti circa 400 permessi per l'ingresso alle tribune dell'aula parlamentare. Ma l'autocolonna rimane bloccata per alcune ore al 7° Km della Salaria, nei pressi dello stabilimento della Squibb. Così il professor Di Girolamo, in una intervista, ricostruisce quei momenti: "Non vedendo giungere i miei concittadini all'ora fissata, pensai ad un semplice ritardo; ma i minuti e le ore passavano e cominciai a preoccuparmi, per cui mi affrettai ad andare loro incontro. Quando li raggiunsi trovai una situazione di scontro imminente tra loro e la polizia. Il Questore assolutamente non voleva far entrare in Roma questa autocolonna e, come mi si disse successivamente, un gruppo di nostri concittadini era andato a chiedere man forte agli operai del vicino stabilimento della Squibb nel caso di scontri con la polizia. Gli operai assicurarono il loro intervento "nel caso che dovesse succedere qualcosa". Quindi anche qui le cose si stavano mettendo male. Perché questo? sempre come mi riferirono successivamente, alcuni poliziotti della celere romana, lì presenti, erano stati a Sulmona nelle giornate dei moti ed avevano ricevuto, diciamo così, un "sacco di mazzate"; erano stati, cioè, abbondantemente malmenati. Qualcuno di questi, perciò, avrebbe detto: 'Adesso ve la facciamo pagare; qui siamo in ambiente aperto, non potete scappare nei vicoli e nei portoni come avete fatto a Sulmona'. La situazione stava per precipitare; l'onorevole Spallone chiamò da un telefono vicino al posto di blocco, più volte, il ministro degli Interni che però si faceva negare. Ad un tratto sentii dire dal Questore che avrebbe consentito il transito solo ai possessori di un permesso di entrata a Montecitorio; ed io, arrivato come la manna dal cielo, dissi: "Signori miei, se la situazione è questa, io ho 400 permessi per entrare alla Camera". 'Montai, quindi, sul cofano di una macchina e, facendo l'appello, distribuii i 400 permessi. Allora la polizia si sentì disarmata moralmente e materialmente perché di fronte ai permessi non poté fare altro che concedere il passi".

L'autocolonna giunge solo alle 15,30 sul piazzale di Montecitorio. Ma anche qui trova ostacoli. Il regolamento della Camera consente l'ingresso alle tribune riservate al pubblico solo ai cittadini decorosamente vestiti e ciò significava, nella prassi, indossare giacca e cravatta. In questa condizione si trovano solo alcuni sulmonesi; la maggior parte di essi veste decorosamente, ma senza cravatta. Nemmeno di fronte a questo ostacolo imprevisto ci si perde d'animo; da qualcuno parte un astuto suggerimento: bisogna sciogliersi un laccio da una scarpa ed indossarlo sul colletto della camicia a mo' di cravatta facendone un fiocco. Infiocchettati di stringhe e messa su, per l'occasione, anche una notevole faccia di bronzo, una buona parte dei componenti dell'autocolonna si presenta ai commessi della Camera, i quali, pur potendo contestare quell'atteggiamento provocatorio, chiudono un occhio e lasciano passare. Nonostante l'ennesima trovata, però, dei 500 solo 200 riescono ad accedere alle tribune di Montecitorio, gli altri rimangono sul piazzale. Sulle tribune i commessi della Camera si affannano a spiegare che il regolamento non consente al pubblico né di assentire né di dissentire, in nessun modo, con gli interventi del dibattito parlamentare.

Queste istruzioni vengono rispettate durante tutta la discussione, tranne che in due occasioni: alla fine del discorso del comunista Corbi, che viene applaudito, e quando il democristiano Spataro accenna alle "buone intenzioni del Governo" nei confronti di Sulmona. Spataro testualmente afferma, rivolgendosi alle tribune: "Quando si è trattato di appoggiare le vostre iniziative, il Governo è sempre stato in prima fila. Lo dimostra il fatto che i ministri avevano aderito con entusiasmo alle celebrazioni del bimillenario della nascita di Ovidio; l'adesione è stata ritirata quando i sulmonesi hanno fatto la rivoluzione per il Distretto Militare". Queste parole vengono sottolineate, sulle tribune, da un mormorio ironico sfociato poi in una aperta risata, arginata a fatica da11'intervento deciso dei commessi che si affannano a riportare l'ordine tra le incomposte fila dei sulmonesi.

Alla fine del dibattito la Camera approva una unica mozione che verrà detta Corbi-Spataro, dai nomi dei primi firmatari. La sottoscrizione unitaria da parte di comunisti e di democristiani, oltre che di esponenti delle altre formazioni politiche, trova la sua motivazione non tanto nell'identica intenzione o in un identico modo di vedere dei due gruppi, quanto invece nel fatto che di fronte alla estrema miseria e al sottosviluppo del comprensorio sulmonese e di fronte alla compattezza della protesta, sarebbe stato controproducente far trasparire anche in quell'occasione le ragioni della guerra fredda. D'altra parte gli estensori materiali della bozza della mozione sono stati i sulmonesi stessi e cioè il colonnello Sardi De Letto, liberale, l'avvocato Giovanni Autiero, liberale, ed il professor Di Girolamo, comunista. Nella stesura approvata dalla Camera la mozione recita testualmente: "La Camera, considerate le condizioni particolarmente depresse dell'Abruzzo e del Molise, per la mancanza per molti decenni delle necessarie provvidenze statali e per le immani distruzioni della guerra, pur riconoscendo quanto è stato fatto fino ad oggi con la parziale riparazione dei danni bellici e con le nuove opere realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno, e con benefici delle altre provvidenze legislative, richiama l'attenzione del Governo sull'iniziativa assunta dalle Amministrazioni Provinciali delle città Capoluogo e dagli Enti Provinciali per il Turismo dell'Abruzzo e Molise, per l'elaborazione dei piani di sviluppo e di potenziamento dell'economia regionale, perché adotti ulteriori provvedimenti necessari al progresso dell'Abruzzo e Molise, in analogia a quanto fatto per altre regioni meridionali; FA VOTI AL GOVERNO: 1) perché, in esecuzione della nuova legge per la Cassa per il Mezzogiorno, faccia predisporre il piano di integrazione, e, ove è necessario, di ampliamento delle iniziative in corso per i vari settori, in modo speciale in quelli dell'agricoltura e dell'industria; 2) perché preveda particolari iniziative a favore della regione Abruzzo nel piano quadriennale IRI-ENI; 3) perché curi la sollecita applicazione della legge sui sovraccarichi elettrici ed aiuti i consorzi dei bacini imbriferi a promuovere iniziative di carattere industriale; 4) perché, attraverso il Ministero delle Partecipazioni Statali, venga riattivato lo stabilimento di Pratola Peligna, tenendo conto della disponibilità delle fonti di energia e della presenza in loco di minerali, come la bauxite, di particolare importanza; 5) perché finanzi i lavori di bonifica del comprensorio della Vallata di Sulmona, appena adempiute le formalità amministrative e presentati dagli enti interessati i progetti relativi, ed esamini la possibilità di dare sollecito inizio a tutti quei lavori che risultassero immediatamente eseguibili; ed INVITA la commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni dei lavoratori a svolgere una particolare indagine nella città e nella zona di Sulmona.

Ma anche in questo momento lo Stato, in una delle sue massime articolazioni, la Camera dei Deputati, non seppe dare altro ai sulmonesi, che avevano cercato di resistere nella forma che abbiamo visto alle deficienze e alle rapine di una politica clientelare di sottogoverno, che parole. Ed anche in quella occasione i Sulmonesi avrebbero potuto rendersi conto di quanto andava accadendo, solo che avessero prestato maggiore attenzione a quanto si diceva nell'aula di Montecitorio da parte di Giuseppe Di Vittorio. Ecco quanto disse nella dichiarazione di voto del gruppo parlamentare comunista, il grande sindacalista: "Signor Presidente, onorevoli colleghi, dichiaro di votare a favore della mozione. Ho desiderato fare questa dichiarazione per esprimere la piena, fraterna e calorosa solidarietà della Confederazione Generale Italiana del Lavoro con i lavoratori di Sulmona e con il popolo d'Abruzzo, regione che è fra le più povere del Mezzogiorno d'Italia".

"Desidero esprimere il plauso di tutti i lavoratori italiani ai loro fratelli di Sulmona per avere essi raggiunto un pieno accordo, una piena unità e solidarietà nella lotta tesa a far sentire la loro protesta contro una misura che poteva e doveva essere ritirata, e per esigere provvedimenti efficaci, atti ad alleviare la miseria endemica di cui soffre la popolazione. Questa unità raggiunta dai lavoratori, tra le masse popolari di Sulmona, ha avuto il suo riflesso in questa Camera. È stato infatti concordato fra i vari gruppi un testo di mozione che raccoglie sostanzialmente le rivendicazioni del popolo di Sulmona e del popolo abruzzese, e contiene impegni precisi di misure più o meno adeguate ai bisogni più immediati di elevazione della grave situazione economica di Sulmona e in parte dell'Abruzzo".

"Ci auguriamo che questa unità, manifestatasi pure nell'accordo sul testo della mozione, si manifesti e si sviluppi ancor più nelle masse popolari, nell'Abruzzo, in tutto il Mezzogiorno e nel nostro paese. Soprattutto desidero, nel concludere, richiamare l'attenzione dei lavoratori e delle masse popolari dell'Abruzzo, sulla necessità di essere vigilanti affinché gli impegni che sono stati assunti nella mozione siano realizzati. Soltanto se le masse popolari unite vigileranno, potranno ottenerne l'integrale applicazione. Purtroppo abbiamo in proposito una lunga esperienza negativa, dalla quale risulta che molti impegni, molte mozioni, molti ordini del giorno approvati in Parlamento, non hanno avuto nessuna pratica realizzazione nei fatti, nessuna attuazione nel paese. Perciò, auspico che le masse lavoratrici e popolari d'Abruzzo svilupperanno la loro unità in una azione concorde e vigorosa, che riesca ad esigere l'applicazione integrale degli impegni che sono contenuti nella mozione che la Camera si accinge a votare. È in questo spirito che noi voteremo a favore della mozione".

Non sono le parole di un profeta, ma quelle di un uomo di lunga e profonda esperienza che conosce la sostanza della politica del partito di maggioranza relativa. I sulmonesi, invece, forse per la crudezza della lotta sostenuta e nonostante le numerose esperienze negative registrate, si accontentano di questa mozione che testimonia solo la cattiva coscienza dello Stato nei confronti delle popolazioni meridionali completamente abbandonate a se stesse, quando non usate per confermare ed estendere il potere e la base clientelare della Democrazia Cristiana.

Dal 28 marzo del 1957, data della votazione della mozione, dovranno poi passare circa 10 anni prima che l'intera vicenda di "Jamm' mò" e dei fatti ad essa connessi possano considerarsi definitivamente chiusi. Solo nel '66, infatti, si celebra l'appello nei confronti dei 70 imputati per la rivolta popolare.

"Le provvidenze legislative" della mozione Corbi-Spataro vennero puntualmente disattese; ma la giustizia seguì il suo corso (nemmeno tutto per la verità, perché ancora oggi un imputato di quel processo attende di essere giudicato).

 

CAPITOLO 4

JAMM' MÒ

CAPITOLO 6