Libero

 

LA VITA ECONOMICA

NELL'ALTO MILANESE

LA FINANZA PUBBLICA DEI COMUNI DALL'UNITA' D'ITALIA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Buscate (MILANO)  

 

LE SOVRIMPOSTE E LE IMPOSTE SUI TERRENI E

FABBRICATI

 

L'imposta sui terreni e sui fabbricati prima del 26 gennaio 1865 era denominata imposta fondiaria e colpiva il reddito dei beni urbani e rurali. Dopo l'istituzione di un'imposta sui fabbricati indipendente, il nome fondiaria rimase per identificare la parte di tassa sui terreni. Nel 1865 l'imposta sui fabbricati, completamente autonoma, diede luogo ad un sistema catastale proprio, distinto da quello dei terreni, attuato solo nel 1886. L'imposta fondiaria era una imposta diretta, perché colpiva il reddito reale di un cespite preciso appartenente al patrimonio di un soggetto determinato. Essa era un'imposta importante perché gravava su due beni eccellenti come la terra e i fabbricati[1].

Tra gli importanti provvedimenti finanziari presi dal Minighetti il 14 luglio 1864, era compresa anche la legge n. 1831. Essa prevedeva un contingente di 110 milioni, diviso tra le rendite delle proprietà rustiche, urbane ed altre già soggette all'imposta prediale (vecchia imposta fondiaria) di nove compartimenti: Piemonte, Lombardia, Parma e Piacenza, Ex-ducato di Modena, Toscana, Ex-Pontificio, provincie Napolitane, Isole di Sicilia e Sardegna. Per la Lombardia, il quadro A della legge indicava le rendite dal 1864 al 1866 e separatamente quelle del 1867.

 

RENDITE

1864-1866

1867

Fabbricati di vecchio censo

L. 2.396.788

L. 2.396.788

Terreni di vecchio censo

L. 11.567.915

L. 10.603.902

Terreni e fabbricati di nuovo censo

L. 5.145.592

L. 4.716.788

Tabella n. 2: Celerifera 1864, legge n. 1831 del 14 luglio 1864, p. 1553.

L'aliquota applicata sui cespiti di vecchio censo, lombardi e piemontesi, era stabilita nella misura del 12,5 per cento. Inoltre, rimaneva in vigore la legge del 5 dicembre 1861 n. 362, sul decimo di guerra, che contribuiva ad aumentare ulteriormente l'aliquota. I tributi fondiari vigenti nei diversi compartimenti italiani venivano a cessare (per la Lombardia, la contribuzione prediale e addizionale e l'imposta sulla rendita dei fabbricati di vecchio censo).  Nell'articolo 4 si stabiliva che il contingente del comune o consorzio sarebbe stato ripartito in ragione della rendita netta dei terreni, valutata secondo la media dell'ultimo triennio o dell'ultima rotazione, se questa eccedeva il triennio. La  rendita netta era determinata con norme specifiche imposte nel regolamento, unite ad alcuni articoli della legge sulla ricchezza mobile, in particolare per quanto riguardava le commissioni e la procedura di accertamento. Le quote non esatte sarebbero state portate in aumento dei contingenti nell'anno successivo; tali nuove imposizioni non potevano eccedere il 3 per cento dell'imposta principale (articolo 13).

L'oggetto della tassa comprendeva anche gli immobili fino a quel momento esenti, per i quali si sarebbero pagati solo i 2/3 dell'imposta per il triennio 1864-1866. Essi erano i fabbricati esercizio di culti, i cimiteri e loro dipendenze, l'alveo dei fiumi, la superficie dei laghi, le strade e le piazze nazionali, provinciali e comunali. Questa legge sarebbe rimasta in vigore fino al 1867, data per la quale il governo si impegnava a presentare un nuovo progetto di perequazione del tributo fondiario[2].

Intanto le esigenze del bilancio statale erano forti, circa 315 milioni di lire, e il Sella intendeva reperire questa somma, oltre che attraverso la vendita dei beni demaniali e delle ferrovie, con l'esazione anticipata dell'imposta fondiaria per il 1865, stimata in circa lire 124 milioni[3]. L' 8 novembre 1864, si diedero le istruzioni ai prefetti per esigere anticipatamente l'imposta fondiaria: pubblicare in tutti i comuni gli avvisi di notificazione della legge, spiegare chiaramente la deduzione delle sovrimposte di qualsiasi tipo e ricordare le facilitazioni, ossia lo sconto del 6% che si sarebbe accordato[4]. La legge (n. 2006) relativa all'anticipazione venne emanata il 24 novembre; l'articolo 7 confermava il contingente stabilito il 14 luglio, i ruoli non ancora ultimati sarebbero stati sostituiti da quelli dell'anno precedente, il tutto non oltre il 15 dicembre 1864. Nondimeno si accettavano in pagamento i titoli del Debito pubblico. Lo sconto era calcolato sulla somma pagata entro il 15 dicembre, se però i cittadini non avessero pagato entro tale data, avrebbero visto le quote lievitare della stessa percentuale. Facoltà interessante veniva accordata ai comuni e alle provincie, i quali potevano anticipare entro il 17 dicembre, le somme non soddisfatte dai contribuenti diminuite del 6%, rivalendosi poi sui debitori[5]. Grave era il provvedimento di imporre alla proprietà fondiaria, già profondamente turbata dal conguaglio provvisorio, l'anticipo della somma che avrebbe dovuto versare all'erario l'anno successivo.

 

Imposta sui terreni. Non possiamo esimerci, parlando di imposta sui terreni, di accennare al sistema dei catasti. Una prima indagine fu disposta immediatamente dopo la proclamazione del Regno d'Italia al fine di cercare i criteri per la perequazione dell'imposta fondiaria. Gli atti della commissione permisero di porre in essere il conguaglio provvisorio e di evidenziare una sostanziale differenza tra i catasti esistenti nelle varie regioni d'Italia[6]. Esistevano due tipi di catasti: quello geometrico-particellare e quello descrittivo. Il primo consisteva in una misurazione di tutti gli appezzamenti fatta da periti, che dava luogo alla compilazione di mappe dettagliate ed era accompagnata da una valutazione della redditività dei vari terreni con riferimento ai prezzi di un intervallo di tempo prefissato. Il catasto descrittivo era basato sulle denunzie dei singoli possessori, a volte verificate da commissioni in base a criteri generali, e poteva essere più o meno accurato, ma mai oggettivo; esso dava luogo a imprecisioni e contestazioni semplicemente perché non era accompagnato da mappe. Il nuovo catasto dei terreni fu varato solo nel 1886 sul modello geometrico particellare, non senza opposizione proveniente soprattutto dai proprietari meridionali. Dopo un inizio un po' lento, i lavori presero lena; al 1914, 16,3 milioni di ettari erano stati misurati, 14,5 stimati, 9,2 pubblicati, 5,6 attivati[7]; nel 1911 erano, però, solo 16 le provincie che lo avevano attivato[8].

Il ritardo dei catasti non era l'unico a tenere banco, infatti l'introduzione delle imposte sul reddito di ricchezza mobile e sul reddito dei fabbricati, da stralciarsi da quello dei terreni, creavano difficoltà nella formazione dei ruoli. Il regio decreto del 25 maggio 1865 (n. 2320), approvava il regolamento per l'esecuzione dell'articolo 4 della legge n. 1831/1864 sul conguaglio dell'imposta fondiaria; l'articolo 8 elencava i beni che dovevano essere dichiarati: terreni colti ed incolti, produttivi di rendita in derrate o denaro, sorgenti, serbatoi, corsi d'acqua che producevano al possessore una rendita separata da quella dei suoi terreni, saline, cave, torbiere e miniere, laghi e stagni da pesca. La dichiarazione doveva contenere anche i fondi che non erano censiti prima del 14 luglio 1864. Obbligati alla dichiarazione erano i proprietari di beni stabili non urbani (sia direttamente che per mezzo di legali), gli "utilisti o livellari", gli usufruttuari, il comproprietario incaricato dell'amministrazione dei beni, il marito per i beni dotali, il padre, i tutori, i curatori, i beneficiati (per i beni degli enti e corpi morali religiosi), gli amministratori e i rappresentanti legali delle società, corporazioni ed enti morali. Essi dovevano fare separata dichiarazione in ciascun comune in cui possedevano i beni  oggetto della dichiarazione.

Le quote da pagarsi erano individuate dagli agenti delle tasse, i quali dividevano il contingente provinciale di ciascun comune o consorzio per l'ammontare delle rendite dei beni dello stesso, già soggetti all'imposta prima del 1864. L'aliquota calcolata in questo modo serviva per determinare la quota dell'imposta erariale principale dovuta da ciascun contribuente. I comuni e le provincie potevano aggiungere a questo importo i centesimi addizionali di loro competenza, ai sensi dell'allegato A, della legge n. 2248/1865. Ma per riscuotere queste quote dovevano, tramite il sindaco, inviare le schede per la dichiarazione di rendita ai soggetti obbligati prima del 31 luglio 1865, successivamente dovevano essere spedite all'agente delle tasse, il quale stabiliva l'aliquota da portare a conoscenza del direttore. Intanto i prefetti, entro il 31 dicembre 1865, comunicavano allo stesso direttore l'ammontare delle sovrimposte comunali e provinciali, affinché egli potesse distribuire tale ammontare sulle quote delle contribuzioni dirette. Entro il 15 marzo 1866, l'agente riceveva dal direttore i calcoli sopra accennati che nel frattempo diventavano esecutivi[9].

La complessità di quelle norme determinò ritardi notevoli, infatti il 4 marzo 1866 si evidenziava l'impossibilità di procedere alla formazione dei ruoli per l'imposta sui terreni, perché non erano ancora concluse le operazioni di stralcio dell'estimo dei fabbricati da quello dei terreni. I ruoli dell'imposta sui fabbricati per il 1866 non sarebbero stati completati prima del mese di maggio e posti in riscossione non prima di giugno[10]. Perciò il governo decretava che per il compartimento di Lombardia e altri, l'imposta fondiaria sui terreni e fabbricati del 1866 sarebbe stata provvisoriamente esatta in base ai ruoli del 1865 (per le provincie di Piemonte e Liguria dovevano essere utilizzati, raddoppiandoli, i ruoli dei terreni del secondo semestre 1864 e per i fabbricati quelli del 1865). Il ministro Scialoja cercò di studiare un sistema alternativo di esazione dell'imposta fondiaria, proponendo una forte riduzione per alleviare il carico sui proprietari fondiari, gravati anche dalle sovrimposte; ma le sue idee non furono approvate, anzi, altri economisti pensavano che l'imposta doveva rimanere consolidata, immutata e perfino riscattabile con speciali facilitazioni[11].

Le vicende finanziarie del 1866 provocarono il mantenimento della tassa con il carattere di imposta sui redditi, analoga e parallela a quella di ricchezza mobile, creando così a carico della proprietà immobiliare due imposte dirette di identica natura[12]. Il decreto n. 3023/1866 indicava per l'imposta sui terreni la riscossione (fatta deduzione da ciascun contingente compartimentale dell'imposta sui fabbricati che vi era unita e che fu stralciata per effetto della legge n. 2136/1865) in base alla n. 1831/1864. Non sarebbe stato applicato il decimo di guerra, ma una tassa straordinaria calcolata secondo la dichiarazione dei proprietari di beni rustici ed urbani; tale dichiarazione si sarebbe dovuta compilare nel luogo in cui erano situati gli immobili e accertata coi metodi stabiliti per i redditi di ricchezza mobile. Il proprietario di tali cespiti avrebbe pagato il 4 per cento sulla rendita netta, tenuto conto di eventuali deduzioni stabilite dall'articolo 14.

A rafforzare il contenuto della legge veniva emanata la circolare del 25 luglio 1866, la quale diceva: " La prima disposizione del decreto 30 giugno (n. 3034) è questa, che il decimo di guerra sull'imposta dei terreni e dei fabbricati non debba essere nel 1866 applicato che per metà. Ciò avviene, perché [...] deve andare in vigore dal 1° luglio corrente una tassa straordinaria sulla entrata fondiaria; ed all'incontro dello stesso giorno debbe cessare il decimo di guerra sulle ordinarie imposte fondiarie[13]". In realtà le cose non andarono così, come abbiamo visto pure nel paragrafo dedicato all'imposta sui redditi di ricchezza mobile; la tassa generale sull'entrata non fu mai approvata e le sovrimposte diventarono sempre più importanti per le finanze locali.

 La relazione ministeriale del 30 giugno affermava che i ruoli del 1866 non erano ancora definitivamente conclusi per la necessità di ben appurare lo stralcio dei fabbricati e per le dilazioni accordate alle commissioni. Essa continuava affermando l'impossibilità di calcolare la previsione d'entrata in modo certo, visto che non esisteva più il contingente, ma rassicurava le amministrazioni locali per l'applicazione delle sovrimposte[14]. Nuove regole avrebbero riguardato l'accertamento nel 1867, infatti, in base al regio decreto del 3 febbraio 1867, i redditi fondiari posseduti in più comuni si sarebbero dichiarati nel comune di residenza[15].

Le condizioni dell'erario furono intanto rimesse al ministro Ferrara, che il 28 maggio 1867 cercò di riordinare le imposte fondiarie con la legge n. 3719. All'articolo 1 essa diceva che l'imposta prediale dei fondi rustici veniva riscossa sulla base del contingente del 14 luglio 1864: in pratica venivano confermate le rendite dell'anno 1866, tranne per la Lombardia, Parma e Piacenza, le Provincie Pontificie e Napoletane, per le quali valevano le rendite appositamente stabilite per il 1867. Invece della tassa straordinaria del 4 per cento, che veniva abolita, si imponeva un aumento di due decimi all'imposta sui beni rustici e urbani (articoli 1 e 2); tale aumento doveva essere esente dalle sovrimposte comunali e provinciali. L'anno dopo veniva imposto un terzo decimo per gli anni 1869 e 1870, però con legge approvata dal ministro Cambray Digny il 26 luglio 1868 (n. 4513)[16].

Nonostante le deroghe alle operazioni di formazione dei ruoli, la situazione non era giunta a completa normalità nel 1868; si stabiliva con la circolare del 7 novembre, che qualora i ruoli del 1868 non fossero stati ancora ultimati e se non si avesse potuto desumere il preciso ammontare dei tributi, si sarebbe dovuto prendere come base di riparto per le sovrimposte, le somme risultanti dai ruoli dell'ultimo anno[17]. La circolare del 15 settembre 1869 giustificava la mancata formazione dei ruoli degli anni precedenti con il ritardo della votazione dei bilanci comunali. Per evitare questi ritardi e queste difficoltà nella riscossione dei tributi, si dava facoltà ai municipi di compilare dei ruoli speciali, però con l'obbligo di deliberare in prima tornata di consiglio comunale (mesi di ottobre e novembre) la discussione del bilancio attivo e passivo. Se non fossero riusciti a fare ciò, gli amministratori avrebbero avuto la possibilità di utilizzare, per il 1870, i ruoli del 1869[18].

I provvedimenti finanziari del 1870 vennero emanati con l'obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio. All'articolo 7 della legge n. 5784 si diceva che per la determinazione del reddito minimo dell'imposta di ricchezza mobile sarebbe stato considerato pure il reddito fondiario posseduto dal contribuente; la valutazione in termini di tassa avveniva moltiplicando per il numero 8 la quota di imposta fondiaria.

La questione del riordino dell'imposta fondiaria continuò ad essere viva nel nostro paese nel decennio successivo al 1870, trascinata dagli insistenti reclami e sollecitazioni di chi affermava di essere eccessivamente ed ingiustamente gravato da tale tributo; perequazione e catasto erano i concetti dominanti ai quali si ispirarono, senza esito, tutte le proposte in materia. Nel marzo del 1885, nell'ambito della discussione sulla crisi agraria, il ministro Magliani aveva negata la possibilità e l'opportunità di una qualsiasi soppressione dei tre decimi, ritenendo che con essa si sarebbe accordata solo una scarsa riduzione al contribuente. Tuttavia, pochi mesi dopo, nella relazione della legge di perequazione scriveva che l'abolizione dei decimi era a favore di tutti i possessori, ai meno gravati e ai più colpiti[19]. Finalmente venne emanata la legge tanto attesa il 1° marzo 1886 (n. 3682, 3.a serie); il riordino della fondiaria aveva lo scopo di accertare le proprietà immobiliari, tenendo conto delle mutazioni da loro subite e perequando l'imposta attraverso la formazione del catasto geometrico particellare. Si fissava l'aliquota del 7 per cento sul reddito imponibile, nei comuni dove l'imposta riordinata superava la vecchia imposta erariale; tali aumenti dovevano essere distribuiti nell'arco di 10 anni (articolo 46). Soprattutto si abolivano i tre decimi, fonte di discussione negli anni precedenti, l'articolo 49 recitava: "Il primo decimo di guerra aggiunto al principale della imposta fondiaria è abolito a cominciare dal 1° gennaio 1886 (legge n. 3497, 3.a serie, del 29 novembre 1885[20]). Il secondo cesserà col 1° luglio 1887. Il terzo cesserà col 1°  luglio 1888". Importanti furono anche gli articoli 50 e 52 in materia di sovrimposte[21].

Sulla questione dell'abolizione dei decimi ci fu un gran discutere in parlamento; abbiamo già visto come il ministro di allora non aveva idee chiare e precise, o meglio, se le aveva dovette poi rielaborarle di fronte agli interessi del partito degli agrari, il quale chiedeva un aumento del dazio doganale sui cereali. Fatto è che il Magliani presentò un disegno di legge verso la fine del febbraio 1888 per la convalidazione del decretato aumento del dazio sui cereali, proponendo però il ristabilimento dei due decimi sull'imposta fondiaria. Ma le decisioni della commissione a cui spettava decidere su questo progetto, pesantemente condizionata dagli agrari, non erano uguali alle intenzioni del ministero. Così, sebbene il Magliani avesse dichiarato che il provvedimento sui decimi era inscindibilmente legato all'aumento del dazio, dovette abbandonare la sua proposta di ripristino dei due decimi sull'imposta fondiaria.

La normativa delle commissioni censuarie comunali fu riordinata dal regio decreto n. 4871 del 2 febbraio 1887. Con la legge n. 23 del 21 gennaio 1897 (regolamento n. 178 del 20 gennaio 1898) si cercò di sopperire ai bisogni economici dello Stato e l'aliquota fu aumentata all' 8 per cento più un decimo; con questa legge le provincie potevano chiedere di accelerare le operazioni catastali[22]. Altra legge speciale per l'accertamento nel compartimento Ligure-Piemontese fu quella del 23 dicembre 1900, n. 448. Seguirono poi leggi speciali per le regioni meridionali. A coordinare tutte le norme venne approvato il regolamento generale con il decreto reale n. 65 del 26 gennaio 1905. Il regio decreto del 17 novembre 1909 n. 723, dettò norme relative all'esonero dall'imposta sui terreni e fabbricati dei contribuenti con reddito imponibile non superiore a cinquemila lire[23].

 

Imposta sui fabbricati. Essa ebbe origine con l'emanazione della legge n. 2136 del 26 gennaio 1865. Per comprendere la sua vera natura dobbiamo ritornare al periodo del conguaglio provvisorio. Il governo si era impegnato a  presentare, prima del 1867, una nuova legge sull'imposta fondiaria; quando si pensò seriamente all'impegno assunto si finì con il riconoscere l'opportunità di separare la proprietà fondiaria urbana dalla rustica, per assoggettare la prima ad una speciale imposta sulla base delle dichiarazioni dei contribuenti, lasciando la seconda invariata[24]. Con il disposto dell'articolo 1 della n. 2136, si colpirono con aliquota uniforme proporzionale i fabbricati e ogni altra costruzione, nonché i mulini, i bagni natanti, i ponti volanti, le chiatte, eccetera. Venivano esentati i fabbricati destinati al culto, i cimiteri e le loro dipendenze, i beni demaniali dello Stato e le costruzioni rurali destinate esclusivamente all'abitazione dei coltivatori, al ricovero del bestiame o alla conservazione e prima manipolazione dei prodotti agrari, purché appartenenti ai proprietari dei terreni a cui servivano. Il reddito netto dei fabbricati soggetti all'imposta si otteneva deducendo dalla rendita lorda (ridotta a un terzo per gli opifici e di un quarto per ogni altro fabbricato) le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, mentre nessuna detrazione si accordava per decime, canoni, livelli e fitti d'acqua.

Il sistema di riscossione e accertamento indicato dalla legge n. 2136/1865, prevedeva una denuncia in carta semplice al sindaco del comune in cui erano situati gli edifici, compresi quelli esenti dall'imposta. Quando essi erano dati in locazione si doveva indicare anche la scrittura di locazione firmata dal conduttore e dal locatore. In seguito a queste dichiarazioni, il sindaco avrebbe formato uno stato generale delle denunce, separando i fabbricati esenti da quelli soggetti all'imposta, dividendoli in opifici e ordinari. Una commissione nominata dal consiglio comunale avrebbe esaminato questo elenco e apportato allo stesso eventuali modificazioni. Entro 60 giorni tutte queste operazioni dovevano essere concluse e l'elenco completo inviato all'agente delle finanze, che poteva fare ulteriori rettificazioni visitando questi edifici; dopo altri 50 giorni (30 giorni per l'esposizione nella cancelleria municipale) questo elenco doveva essere definitivo per essere notificato al prefetto. Il sistema delle dichiarazioni dei contribuenti, sindacate da commissioni liberamente elette dai consigli comunali valeva pure per il 1865, dopo essere stato utilizzato nell'esazione dell'imposta sui redditi di ricchezza mobile e sui fabbricati (calcolata nel 1866 sul risultato delle operazioni eseguite nel 1865)[25]. Le nuove modalità di accertamento, completamente rivoluzionarie in Italia, furono ritenute responsabili delle lentezze e ritardi di cui abbiamo narrato[26].

 Sempre la legge n. 2136/1865 (articolo 17) imponeva la soppressione di ogni altra imposta fondiaria governativa sui fabbricati, comprese quelle sull'area di pertinenza e sulle dipendenze degli edifici. Si prevedeva una revisione generale dei redditi dopo cinque anni e con l'articolo 23 si concedevano riduzioni parziali del reddito solo per cause straordinarie nei primi tre anni di vita della legge, per una variazione di almeno un quarto, in più o in meno, del valore del fabbricato[27].

La sfiducia nel sistema catastale e la paura del sistema della rendita facevano nascere una tassa priva di un carattere deciso e determinato[28]. Non dimentichiamo che il reddito agrario era normalmente stabile, le sue variazioni dipendevano solo dalle condizioni generali del mercato; invece, il reddito edilizio era instabile e variabile da luogo a luogo per effetto dell'accentramento nelle zone urbanizzate[29]. In più la tendenza della popolazione ad aumentare più rapidamente dei fabbricati, unita alle attese della civiltà di avere sempre più comode abitazioni, facilitavano l'operazione dei proprietari, che traslavano l'imposta sui prezzi delle abitazioni o sui canoni d'affitto[30].

Fu la legge n. 2276 dell' 11 maggio 1865, già conosciuta per i provvedimenti in materia di ricchezza mobile, a stabilire l'aliquota uniforme del 12,5 per cento sulla rendita dei fabbricati[31]. Ma il regolamento approvato il 25 maggio (n. 2319) specificava che si trattava di un'aliquota superiore e precisamente del 13,75 per cento, visto che comprendeva anche il decimo di guerra. Con tale provvedimento venivano ribadite le esenzioni e le riduzioni applicate nel conguaglio provvisorio (legge n. 1831/1864), oltre che la definizione di rurale anche per le altre costruzioni destinate al ricovero del bestiame o alla conservazione dei prodotti come stalle, scuderie, rimesse, fienili, cantine, granai e simili. Questo regolamento prevedeva che, entro il 28 febbraio 1866, il prefetto avrebbe dovuto far conoscere al direttore delle tasse l'ammontare delle sovrimposte comunali e provinciali, affinché quest'ultimo avesse potuto calcolare le aliquote da applicare sull'ammontare della principale[32]. Le norme prevedevano le spese di riscossione inserite nel ruolo e le fissava nella misura del 3 per cento sulla rendita dei fabbricati, in base alla legge n. 1831/1864. Erano esclusi da questa spesa i comuni lombardi, in quanto il sistema di riscossione delle imposte dirette tramite agenti propri non retribuiti dal governo era già in vigore prima dell'unificazione amministrativa. Ciò si evinceva dalla circolare del 20 aprile 1866, la quale forniva un esempio numerico per la formazione dei ruoli dell'imposta sui fabbricati del 1866[33].

 Con il decreto luogotenenziale n. 3023/1866 venne approvata l'aliquota straordinaria sui fabbricati del 4 per cento, come per i terreni. Il decimo di guerra si abolì, in relazione al regio decreto n. 3034 del 30 giugno 1866. Un anno dopo, come già visto per i terreni il 28 maggio 1867, venne abolita l'imposta straordinaria e imposti due decimi nuovi che diventavano tre con la legge 26 luglio 1869 n. 4513. Così, l'aliquota reale dell'imposta sui fabbricati si fissava nella misura del 16,25 per cento.

Il decreto regio del 30 ottobre 1869 n. 5312, indicava norme per l'applicazione dell'imposta sui redditi di ricchezza mobile, fabbricati e vetture e domestici. Con esso si imponeva la formazione per ciascun comune del registro dei redditi della ricchezza mobile tassabili mediante ruolo, di quello dei redditi dei fabbricati e delle vetture e dei domestici[34]. Tale disposizione rese definitiva la procedura di accertamento dei redditi dei fabbricati collegata a quella per la ricchezza mobile.

Nella legge per i provvedimenti finanziari del 1870 (n. 5784, dell' 11 agosto), l'allegato F era interamente dedicato ai fabbricati. Esso elencava le norme relative alle dichiarazioni, le esenzioni possibili, le multe e (articolo 1) prevedeva quella revisione generale dei redditi dei fabbricati ordinata dall'articolo 20 della legge n. 2136/1865, la quale, però, ebbe luogo per la prima volta solo nel 1877.

Le vicende sulla perequazione dell'imposta sui terreni non toccarono l'imposta sui fabbricati, che fu discussa sul finire del 1887, periodo nel quale il parlamento bocciò la revisione dei redditi proposta dal ministro Magliani. La riproponeva qualche tempo dopo il Seismit-Doda, dichiarandolo un provvedimento di giustizia distributiva, perché intendeva alleviare chi pagava per imposta, più di quanto doveva. Non era però esclusa la speranza di trarre qualche maggior provento per l'erario, visto che dall'ultima revisione del giugno 1877 erano ormai trascorsi undici anni. Le disposizioni di revisione non mutavano sostanzialmente l'ordinamento dell'imposta e nulla detraevano a quel carattere incerto, tra il reale ed il personale, tipico delle imposte dirette dell'Ottocento. Le regole più importanti consistevano in una più chiara definizione degli opifici e determinazione dei criteri da seguire per l'applicazione dell'imposta; l'intento era di semplificare le questioni che confondevano i contribuenti e l'amministrazione. Si concesse l'esenzione dall'imposta per un triennio a favore dei nuovi opifici e lo sgravio totale sia per i fabbricati destinati all'affitto, rimasti chiusi e non affittati per lo spazio non interrotto di un anno, sia per gli opifici rimasti inoperosi durante lo stesso periodo di tempo[35] ( legge n. 6214, del 11 luglio 1889[36]).

Le norme più importanti che resero definitiva l'imposta sui fabbricati in materia di oggetto da tassare, accertamenti, sgravi, sopratasse e multe furono quelle dell' 11 agosto 1883 n. 1489, 15 gennaio 1885 n. 2892, 15 aprile 1886 n. 3793, 29 dicembre 1888 n. 6569, 11 aprile 1889 n. 6020, 15 agosto 1897 n. 382, 26 gennaio 1902 n. 245, 31 maggio 1903 n. 254[37].

 

Sistema di riscossione delle imposte dirette. Una breve parentesi per accennare al sistema di riscossione delle imposte dirette. La legge più importante che regolò questa attività fu quella del 20 aprile 1871 n. 192 (2.a serie). Prima di questa, il servizio degli esattori era regolato in maniera diversa tra gli stati pre-unitari. Nell'antico Regno di Sardegna, ad esempio, gli esattori si dividevano per mandamento ed erano veri e propri impiegati dello Stato, retribuiti con uno stipendio fisso, salvo un aggio per le riscossioni delle rendite comunali; invece, nel Lombardo-Veneto vi erano esattori comunali e provinciali, nominati con asta pubblica per 6 anni e retribuiti anch'essi ad aggio.

L'importanza dell'esattore per l'amministrazione comunale veniva evidenziata proprio nella legge comunale e provinciale n. 2248/1865, allegato A, la quale all'articolo 120 dava compito allo stesso di introitare le rendite e pagare le spese, ove mancasse il tesoriere; qui diciamo subito che non tutti i comuni si avvalevano dell'opera del tesoriere, anzi in molti casi un esattore faceva anche da tesoriere a più comuni, specialmente nei piccoli comuni dove vi era ben poco da amministrare.

L'esattore riscuoteva le entrate comunali secondo i ruoli ed estingueva i mandati di pagamento fino all'esaurimento del fondo stanziato a bilancio; rendeva ogni anno il conto delle entrate e delle spese, che riveduti dal consiglio comunale dovevano essere approvati dal consiglio di prefettura.

Veniamo alla già citata legge n. 192/1871 (2.a serie), la quale specificava i concetti della legge comunale e unificava le norme per tutto il regno. Innanzitutto permetteva ai comuni di riunirsi in consorzio, in modo da ridurre le spese di riscossione, che altrimenti sarebbero state gravi per i piccoli comuni economicamente deboli; l'esattore incaricato doveva tenere una contabilità separata per ogni municipio, veniva retribuito ad aggio, che era variabile a seconda del totale delle somme da riscuotere; tuttavia la percentuale rimaneva fissa per tutta la durata del contratto, fissato di norma in 5 anni. In questo arco di tempo riscuoteva tutte le imposte dirette erariali, le sovrimposte e le tasse comunali, ordinarie e straordinarie, in conformità ai ruoli resi esecutivi dal prefetto. La consegna dei ruoli all'esattore lo rendeva debitore per l'ammontare delle somme che in essi risultavano; ciò lo obbligava a versare, con prefissate scadenze, l'intero ammontare delle rate scadute, anche quando egli non le avesse riscosse dai contribuenti.

 

Sovrimposte alle contribuzioni dirette. Si può benissimo affermare, senza esagerare, che esse sono state l'entrata più importante per i bilanci di tutti i comuni di medie o piccole dimensioni. La possibilità fornita alle amministrazioni di sovrimporre alle imposte dirette veniva indicata nell'articolo 118 della legge comunale e provinciale n. 2248/1865, allegato A; l'articolo successivo attribuiva un carattere di sussidiarietà alle sovrimposte, le quali dovevano servire per far fronte alle finanze nei casi in cui i comuni non adottavano o non ritraevano fonti sufficienti da imposte e tasse speciali; mentre l'articolo 230 indicava nella proporzionalità il criterio del sistema della sovrimposizione[38]. In sostanza le amministrazioni municipali potevano tassare i beni colpiti dallo Stato con centesimi cosiddetti addizionali, che venivano inscritti e calcolati nei ruoli. Si trattava di un provento comodo per gli amministratori locali, in quanto veniva confuso con quello di competenza statale, poiché incassato con gli stessi criteri e per di più dallo stesso esattore.

Le vicende delle sovrimposte sui terreni e fabbricati furono diverse da quelle mobiliari; infatti, queste ultime vennero ridotte e successivamente abolite, mentre i centesimi addizionali su terreni e fabbricati non furono mai aboliti, ma subirono importanti limitazioni verso la metà del 1870, alle quali il governo derogava, nei casi in cui esse fossero state indispensabili, concedendo speciali autorizzazioni. La loro storia si può definire parallela a quella delle imposte speciali, in quanto ad ogni limitazione il governo imponeva delle tasse comunali, da applicare per usufruire della possibilità di eccedere il limite ai centesimi aggiuntivi; ma neppure la combinazione di diverse materie tassabili, unita alle addizionali al dazio di consumo, riuscirono a sostituire l'importanza delle sovrimposte comunali. In realtà la loro attivazione lasciò molto a desiderare nei primi anni, inoltre le difficoltà per l'applicazione delle imposte dirette non permettevano la conoscenza esatta dei redditi, quindi la misura equa della pressione fiscale; questa imposizione distorta continuò negli anni successivi al 1865, perché si doveva far fronte all'esigenza di salvare i conti delle amministrazioni comunali[39].

Il decreto del 4 marzo 1866 (n. 2845) conteneva l'obbligo di formare i ruoli dell'imposta fondiaria, esso era dettato soprattutto dalle necessità dell'erario nazionale; come osservato diventava impossibile avere a disposizione i ruoli di quell'anno, per cui le imposte sui terreni e fabbricati da introitare dovevano essere calcolate in base ai ruoli del 1865; le sovrimposte venivano ripartite in base alle somme stanziate nei bilanci del 1866, indicate nei ruoli relativi a terreni e fabbricati. Nello stesso anno, il 30 giugno, si verificò un problema tecnico: la legge che doveva approvare il bilancio nazionale del 1866 non fu emanata per cui ne risentì anche l'esazione delle imposte. Poiché si prevedeva l'introduzione di una nuova tassa sull'entrata con la quale si aboliva il sistema delle addizionali (che avrebbe completato quella di ricchezza mobile, lasciando decadere il sistema per contingenti e consolidando l'entrata sulle rendite fondiarie), la non approvazione creò incertezza negli ambienti finanziari e fu possibile solo in parte applicare le sovrimposte comunali, riferendosi alle somme indicate nei bilanci degli anni precedenti. A conferma di questo stato di cose c'era l'articolo 3 della n. 2845/1866, il quale confermava il riparto sulla sola imposta fondiaria senza prevedere una proporzionalità specifica tra le imposte dirette.

Eppure il caos finanziario e le incertezze amministrative legate alla guerra e al consolidamento dell'imposta fondiaria permisero l'approvazione del decreto n. 3023/1866 (il quale non escludeva l'imposta sui redditi di ricchezza mobile dalla sovrimposizione, ma limitava ad una percentuale la quota di centesimi addizionali alle imposte dirette); intanto le norme del n. 3034/1866 servivano per legalizzare la ripartizione delle sovrimposte sulla ricchezza mobile, in base agli articoli del decreto n. 3023/1866 e alle quote indicate nei ruoli già compilati, dando la possibilità ai comuni di ripartire la parte eccedente il 50 per cento delle sovrimposte sui redditi di ricchezza mobile, su quelle dei terreni e fabbricati, fatta salva la "capienza" delle stesse in rapporto alla principale. Le modifiche del 1866 non furono solo queste, infatti l'articolo 20 del decreto n. 3023 restringeva ulteriormente l'utilizzo delle sovrimposte: i comuni che avessero aggiunto centesimi addizionali fino a raggiungere complessivamente l'imposta principale, non avrebbero potuto aumentare i centesimi sulla fondiaria, se non ottenendo speciale permesso dalla deputazione provinciale, dopo aver indicato in bilancio l'imposta sul valore locativo (introdotta con lo stesso decreto agli articoli dal 16 al 19). Infine gli stipendi e pensioni a carico dello Stato, la cui imposta veniva pagata con ritenuta erano esenti dalle sovrimposte[40].

A conferma di come il governo tentasse di trovare nuove forme di entrata era il regio decreto n. 3022, anch'esso del 28 giugno 1866, con il quale si cercò di fornire un palliativo alle finanze comunali, dando loro la possibilità di sovrimporre alla tassa sulle vetture pubbliche e private; il limite rimaneva quello del 50 per cento della principale, la quale aveva tariffe differenziate a seconda della popolosità del comune[41].

La circolare del 25 luglio evidenziava il problema degli agenti delle tasse di suddividere le sovrimposte indicate nei bilanci 1866 nei ruoli per il 1867. Prima di tutto il calcolo sarebbe avvenuto, ancora una volta, sui ruoli del 1865; in secondo luogo dovevano scrupolosamente attenersi alle indicazioni delle amministrazioni locali le quali, per la maggior parte, votarono il riparto proporzionale sulle imposte dirette già esistenti, cioè sui terreni e fabbricati[42].

La circolare del 7 settembre 1867 conteneva il modo di ripartire le sovrimposte provinciali e comunali sui ruoli delle imposte dirette del 1867: essa citava il decreto del 22 maggio 1867 (n. 3874), che sarebbe diventato legge l' 8 dicembre 1867 (n. 4097). I ruoli, tanto per cambiare, non erano ancora stati compilati per cui le amministrazioni potevano eseguire il riparto sulle liste completate, ma con limite l'imposta erariale dell'anno precedente, mentre per i redditi di ricchezza mobile (si prevedeva in novembre il termine della compilazione) si mantenevano i ruoli del 1865. Le sovrimposte che non venivano ripartite, perché superavano il limite legale, sarebbero state aggiunte ai bilanci dell'anno successivo con autorizzazione della deputazione provinciale[43].

La facoltà di superare il limite delle sovrimposte sui redditi di ricchezza mobile poteva essere accordato senza autorizzazioni, quando la sovrimposta provinciale non raggiungeva la quota del 25 per cento, ma solo per la parte che non eccedeva questa percentuale; se questa era superata, si poteva sempre chiedere alla deputazione provinciale di aggiungerla sulle imposte dei terreni e fabbricati, fino al limite del pari importo dell'imposta erariale. In pratica le sovrimposte sui terreni e fabbricati potevano essere (con la quota eccedente il 50 per cento della ricchezza mobile) il 100 per cento dell'imposta statale. Da sottolineare ancora una volta, che il superamento di tale limite era esclusivamente subordinato all'attivazione dell'imposta sul valore locativo e all'autorizzazione della deputazione provinciale. Al pari degli stipendi e pensioni statali, quelli comunali e provinciali che pagavano l'imposta mobiliare tramite ritenuta non erano soggetti ai centesimi addizionali.

Nell'anno 1868 nuove disposizioni legislative apportarono modificazioni ai tributi comunali; la riscossione mediante ritenuta dell'imposta di ricchezza mobile, sperimentata sugli stipendi, si estendeva ai titoli del Debito pubblico (n. 4490/1868), si imponeva la riduzione al 40 per cento del limite alla imposta mobiliare (n. 4513/1868) e la limitazione per le sovrimposte sui redditi di fabbricati e terreni; le deputazioni provinciali non dovevano approvare l'eccedenza al limite legale se prima i comuni non avessero esperimentato la tassa sul valore locativo, oppure una delle due tasse indicate nell'articolo 8 della legge n. 4513/1868, cioè la tassa di famiglia o focatico e la tassa sul bestiame[44]; in questo modo venivano favorite le tasse speciali da attivarsi da parte delle amministrazioni locali.

Nel 1870 con la legge n. 5784, si formava un sistema per il quale l'eccedenza del limite legale delle sovrimposte veniva legalizzato solo dopo l'approvazione in bilancio di tasse speciali, da scegliersi prima dei centesimi addizionali, i quali però non venivano del tutto aboliti; infatti, un comune per poter essere autorizzato dalla deputazione provinciale ad eccedere il limite legale delle sovrimposte fondiarie doveva aver applicato tutte le tasse concesse ai comuni dall'allegato O (tassa di esercizio e rivendita, tassa sulle vetture pubbliche e private e sui domestici) e una almeno delle altre tre stabilite dalle leggi precedenti (tassa sul valore locativo, tassa di famiglia o focatico, tassa sul bestiame), più la sopratassa sui generi colpiti da dazio di consumo governativo, la quale veniva portata al 50 per cento[45]. Si cercava in questo modo di impedire ai comuni di gravare pesantemente sulla proprietà fondiaria e di tassare due volte i beni già colpiti dallo Stato.

Probabilmente le condizioni della finanza locale erano veramente disastrose, quando il ministro Lanza dovette richiamare i consigli comunali, con la circolare del 21 agosto 1872, in merito alle troppe sovrimposizioni che venivano fatte in quei periodi[46].

Modificazioni importanti ancora nel 1874 (legge del 14 giugno n. 1961); per eccedere il limite legale, ferme restando le disposizioni già emanate, le sovrimposte dovevano essere destinate a spese obbligatorie o a spese facoltative di carattere continuativo, derivanti da impegni precedenti la pubblicazione di questa legge. Fu concessa ai comuni anche una tassa sulle fotografie e sulle insegne. Questa legge non vietò ancora una volta di eccedere il limite legale delle  sovrimposte, ma ebbe l'effetto di ritardarne l'aumento sempre più consistente in questi anni.

Nel 1883 venne emanata una circolare con la quale si chiedeva maggior attenzione al fine di ben applicare la legge n. 4613 del 30 agosto 1868, che prevedeva un fondo speciale da costituirsi col 5 per cento delle sovrimposte incassate per la costruzione e la sistemazione di strade comunali obbligatorie. Essa affermava che tale denaro era utilizzato anche per altri scopi, con danno alle finanze e alla società civile, dato che non veniva impiegato per opere pubbliche stradali[47]. Tale richiamo dimostrava l'abitudine degli amministratori locali, pressati da numerose esigenze, ad eccedere i limiti delle sovrimposte per usi non conformi alla legge.

A parte questo, si andava creando per tutto il regno una situazione confusa, con bilanci in sospeso per via dell'autorizzazione al superamento delle soglie consentite; intanto si aggravavano i ritardi nella formazione dei ruoli, anche suppletivi e l'applicazione delle sovrimposte veniva, in alcune provincie, attuata riprendendo gli importi dell'anno precedente; in altre i ruoli suppletivi non venivano presi in considerazione dai bilanci, formando un'entrata non contabilizzata[48]. In questo arco di tempo venne emanata una statistica sui singoli bilanci comunali dalla quale si poteva notare la distribuzione di centesimi addizionali di tutti i comuni del regno. Nel mandamento di Cuggiono, Buscate era sul livello di circa 65 centesimi (alla pari con Castano Primo e Cuggiono), contro i 101 di Busto Garolfo, 108 di Arconate e 82 di Robecchetto[49].

Finalmente venne emanata la legge del 1° marzo 1886 (n. 3682, 3.a serie) sulla perequazione della fondiaria e sull'attivazione del nuovo catasto; con essa furono messi nuovi limiti per impedire la crescita, smisurata in alcuni comuni, dei centesimi addizionali sui terreni e fabbricati. Si limitavano le sovrimposte ad una quota pari a quella erariale, stabilendola entro il valore ottenuto dalla media degli importi stanziati nei bilanci del triennio 1884-1886. Se questo limite era superiore a 100 centesimi per ogni lira di imposta principale erariale sarebbe stata necessaria una legge speciale dello Stato, restando ferme le leggi del 1870 e del 1874. In tutto questo non si includevano le somme inserite nei bilanci provinciali allo scopo di accelerare i lavori occorrenti per il nuovo catasto (articoli 50 e 52)[50].

Il pareggio di bilancio si ottenne, ma le vicende del decennio successivo portarono ulteriori problemi finanziari. Nei discorsi di assestamento del bilancio dello Stato della sessione 1887-1888, il Branca, profondo conoscitore degli interessi agrari, proponeva chiaramente e senza esitazioni un dazio doganale sui cereali di lire 5; si pensava che un maggior dazio era questione di giustizia per l'industria agraria, bisognosa di protezione al pari di altre industrie. Tutto questo favoriva la proposta del ristabilimento dei decimi sull'imposta fondiaria, precedentemente aboliti; ma l'opposizione del partito degli agrari fu forte, tanto da permettere l'aumento del dazio senza i decimi dell'imposta fondiaria, facendo cambiare più volte idea al ministro delle finanze Magliani. Insieme a quel provvedimento vennero ritoccate le tasse sugli affari (bollo sulle cambiali, bollo per le negoziazioni dei titoli di credito e altri, successioni ) e la tassa sulla vendita dell'alcool, che svolgeva anche un ruolo morale per la tutela della salute pubblica[51].

Con la legge n. 5308 (3.a serie) del 25 marzo 1888 si stabiliva, che per essere posto in essere il provvedimento speciale dello Stato, vi dovesse essere eccedenza, tanto nel numero dei centesimi addizionali, quanto nelle cifre assolute di sovrimposte, cioè doveva verificarsi il caso di aumento della imposta erariale per effetto delle revisioni dell'estimo dei terreni (o dell'accertamento dei fabbricati)[52].

La nuova legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889 (n. 5921, 3.a serie), recepiva i cambiamenti della finanza locale all'articolo 147, che prevedeva il limite alle imposte dirette sui terreni e fabbricati. L'articolo 262 imponeva, per far fronte alle deficienze dei bilanci, una sopratassa di uguale proporzione su tutte le contribuzioni dirette[53].

Intanto le critiche si muovevano in direzione delle spese facoltative inserite nei bilanci comunali (spese per sussidi scolastici, bande musicali, teatri, feste, ecc.) e alla irregolare gestione delle stesse. Così il ministero dell'interno richiamava, con la circolare del 26 giugno 1891, i prefetti a: 1) applicare tutte le tasse stabilite dalla legge, avuto riguardo della ricchezza locale e del numero degli abitanti; 2) eliminare le previsioni di entrata figurative, inesistenti o illusorie, sussidi o contributi fallaci; 3) accertare le contabilità del penultimo esercizio con riporto illustrato delle risultanze del bilancio in formazione; 4) ridurre le spese obbligatorie al necessario; 5) eliminare le spese voluttuarie e facoltative; 6) verificare la redazione dei ruoli e vigilare affinché le spese previste non superassero le previsioni di bilancio[54].

Facilmente si può desumere che la situazione degli enti locali non migliorò nel breve periodo, viste anche le condizioni del bilancio nazionale, anzi le difficoltà in cui si trovava la finanza statale portarono ad approvare quella serie di provvedimenti finanziari di cui abbiamo già narrato e che qui consideriamo nell'ottica della sovrimposizione. La legge n. 340 del 22 luglio 1894 restringeva per comune e provincia (pari importo del comune) l'importo delle sovrimposte ai tributi diretti sui terreni e fabbricati. Il limite si fissava in centesimi 50 per ogni lira (50 per cento dell'imposta erariale principale), inoltre le giunte provinciali amministrative (per la legge n. 5865, del 30 dicembre 1888) potevano autorizzare i comuni ad aumentare questo limite, se l'eccedenza fosse dipesa unicamente da spese strettamente obbligatorie per disposizioni di legge o per contratti autorizzati prima della promulgazione della stessa. Ogni contribuente che riteneva ingiusto l'aumento deliberato dal consiglio comunale aveva facoltà di far ricorso alle autorità competenti[55]. Venivano abrogati gli articoli 50 e 52 della legge n. 3682/1886 con la motivazione seguente: non portarono effetti benefici, ritardando l'approvazione dei bilanci e quindi bloccando i servizi più importanti per i cittadini, addirittura costringendo i contribuenti a pagare in una o due rate le sovrimposte che avrebbero dovuto pagare in sei bimestri. In più la media triennale favoriva i comuni, che prima del 1886 avevano alte addizionali e sfavoriva quelli più prudenti, costringendoli a richiedere, per ogni piccolo aumento, l'autorizzazione parlamentare[56].

L'attività parlamentare diventava sempre più contraddittoria. Mentre si cercava di risanare la finanza locale, frenando gli amministratori e la loro smania a sovrimporre sui terreni e fabbricati, si incitavano le spese in ferrovie, scuole, tiri a segno. Comunque, verso la fine degli anni Novanta, la consapevolezza sembrava aver pervaso gli animi dei politici, così pare almeno per le disposizioni in merito alle spese facoltative emanate proprio in quel periodo[57]. Il 4 maggio 1898, la legge n. 164 condizionò strettamente (articolo 284) la facoltà di superare il limite del 50 per cento alla necessità esclusiva di spese obbligatorie, alla preventiva applicazione del dazio di consumo, tassa di esercizio e rivendita, vetture e domestici e a una almeno tra quella sul valore locativo, famiglia e bestiame[58].

Il continuo crescere delle sovrimposte, anche dopo tali freni, portò alla certezza che tale fonte aveva perduto il carattere accessorio, diventando un cespite assolutamente indispensabile per i bilanci degli enti locali, come dimostrato dai seguenti dati: nel 1871 le sovrimposte ammontavano a circa il 72 per cento delle imposte, nel primo decennio del 1900 erano salite al 163 per cento circa; nel 1899, su 8.262 comuni, 111 erano senza sovrimposta, 2.516 le imponevano nel limite del 50 per cento, 5.635 le superavano[59].

Arriviamo all'anno 1908, la legge n. 135 del 5 aprile, teneva in considerazione gli effetti del nuovo catasto per i redditi sui terreni e fabbricati. Quando questa nuova imposta superava la vecchia, il riparto dei centesimi addizionali avveniva sulla vecchia. In realtà il catasto produsse, nella maggior parte dei casi, una riduzione dell'imposta erariale sui terreni, sbilanciando il carico fiscale verso i fabbricati. Infatti, la legge n. 140 del 31 marzo 1904, prevedeva un maggior carico fiscale sugli immobili, permettendo l'aggiornamento dei ruoli alle maggiori cifre imponibili, secondo gli aumenti di reddito attribuiti alla crescente domanda di mercato[60].

Qualche anno dopo, le istruzioni generali per la ripartizione delle sovrimposte, nell'anno 1911 dicevano (per l'articolo 2 della legge 23 dicembre 1900, n. 449) che le provincie, nelle quali l'imposta principale sui terreni fosse stata inferiore alla vecchia imposta, il limite legale si sarebbe calcolato in misura pari alla metà di quest'ultima risultante dagli ultimi ruoli compilati in base al vecchio catasto; l'imposta sui terreni veniva calcolata in base alla nuova aliquota dell' 8 per cento. Per quanto riguardava i fabbricati, la sovrimposta sarebbe stata applicata semplicemente sulla metà dell'imposta risultante dai ruoli dell'anno medesimo; nulla era innovato nel caso in cui la nuova imposta superava la vecchia. Queste istruzioni prevedevano anche un limite "normale" delle sovrimposte, il quale risultava dal bilancio del 1894 (50 cent./lit. per la provincia e 50 cent./lit. per i comuni). Oltre a ciò venivano confermate le norme dell'articolo 303 della legge comunale e provinciale del 1908 (R.D. n. 269, del 21 maggio), cioè la possibilità di sovrimporre 10 centesimi in più rispetto al limite legale, avendo apposita autorizzazione dalla giunta provinciale. Infine altre regole specifiche per l'agricoltura meridionale venivano poste in essere unitamente ai limiti dei centesimi addizionali imponibili in queste regioni[61].

L'ultima disposizione prima della grande guerra fu la legge del 6 luglio 1912 n. 767, con la quale si abolivano tutti i limiti precedenti, lasciando solo quello legale a 60 centesimi per ogni lira; esso fu aumentato per favorire i comuni nell'esplicamento dei servizi ormai consolidati[62]. Non si verificarono altre modificazioni dal 1912 al 1915.

In conclusione, se le imposte speciali dovevano tassare in qualche modo i cespiti locali e le attività economiche del comune, risultando di immediata attribuzione alle scelte delle persone che amministravano il paese, ciò non avveniva per le sovrimposte. Infatti le addizionali, di più antica origine, venivano favorite per la loro attribuzione alle finanze statali, quindi diventavano di più semplice gestione per gli amministratori locali. Esse coprivano quasi tutti i servizi comunali più importanti gravando direttamente sui proprietari fondiari, ma indirettamente su coloni e mezzadri.



 [1] I. Ferretti , Terreni e Fabbricati (Imposta sui), in Digesto, XXIII (parte 2), 1914-1917, p. 834.

 

[2] Celerifera 1864, p. 1549.

 

[3] A. Plebano, Storia della finanza italiana, I (1861-1876) cit., p. 156.

 

[4] Celerifera 1864, p. 2494.

 

[5] Ibid., pp. 2466-2467 e pp. 2474-2478.

 

[6] Relazione presentata al Ministro delle Finanze per la perequazione dell'imposta fondiaria, Torino, Dalmazzo, 1863, p.15.

 

[7] V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia, 1861-1990, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 74-75.

 

[8] L. Nina, Tributi locali, in Digesto, XXIII (parte 1) cit., p. 690.

 

[9] Celerifera 1865, p. 1044.

 

[10] Celerifera 1866, pp. 528-529.

 

[11] I. Ferretti, Terreni e Fabbricati (Imposta sui), in Digesto, XXIII (parte 2) cit., p. 835.

 

[12] A. Plebano, Storia della finanza italiana, I (1861-1876) cit., p. 193.

 

[13] Celerifera 1866, p. 1368.

 

[14] Ibid., pp. 1202-1205.

 

[15] Celerifera 1867, circolare del 4 febbraio 1867, p. 1261.

 

[16] Ibid., p. 1129 e Celerifera 1868, p. 1108.

 

[17] Celerifera 1868, pp. 1656-1657.

 

[18] Celerifera 1869, p. 1857.

 

[19] A. Plebano, Storia della finanza italiana dalla ricostruzione del nuovo Regno alla fine del secolo XIX, II (1876-1887/1888), Torino, Roux e Viarengo, 1900, pp. 410-417

 

[20] Celerifera 1885, p. 1494.

 

[21] Celerifera 1886, p. 205.

 

[22] Celerifera 1897, p. 136.

 

[23] I. Ferretti,  Terreni e Fabbricati (Imposta sui), in Digesto, XXIII (parte 2) cit., p. 835.

 

[24] A. Plebano, Storia della finanza italiana, I (1861-1876) cit., p. 152.

 

[25] Celerifera 1865, p. 1300.

 

[26] Ibid., pp. 1300-1301.

 

[27] Ibid., pp. 258-261.

 

[28] A. Plebano, Storia della finanza italiana, I (1861-1876) cit., p. 153.

 

[29] I. Ferretti, Terreni e Fabbricati (Imposta sui) in Digesto, XXIII (parte 2) cit., p. 834.

 

[30] A. Plebano, Storia della finanza italiana, I (1861-1876) cit., pp. 184-185.

 

[31] Celerifera 1865, p. 827.

 

[32] Ibid., pp. 1030-1032-1040.

 

[33] Celerifera 1866, p. 700 e p. 703:

 

IMP. ERARIALE

SOV. PROVINC.

SOV. COMUN..

Imposta erariale in principale e relativo decimo di guerra alla ragione del 13,75%

 

 

 

L.  34.557,91

 

 

 

L. 34.557,91

Sovrimp. provin.

L.   3.644,15

L. 3.644,15

Sovrimp. comun.

L. 15.220,00

L. 15.220,00

TOTALE A

L. 53.422,06

Ammontare del 3% per spese di riscossione

 

L. 1.602,66

 

L. 1.602,66

Reimposizione: L. 180.20

Fondo comune pel 1865, oppure rimborso di spese arretrate del dominio:  L. 604.00

 

 

 

 

L. 784,20

 

 

 

 

L. 784,20

TOTALE B

L.  55.808,92

L. 36.944,77

L. 3.644,15

L. 15.220,00

Ammende e multe

L. 75,00

L. 75,00

TOTALE

L. 55.883,92

L. 37.019,77

Rendita netta imponibile dei fabbricati già soggetti ad imposta non censiti (1° categ.),  L. 250.160,30

Rendita netta impon. (2/3) dei fabbricati che non erano soggetti ad imposta,

                                                                                perchè esenti (2° categ.)                                          L.     1.170,20

                                                                                                                TOTALE                   L.  251.330,50

 Aliquote per ogni lira di rendita:

                dell'imposta erariale                                             Centesimi  14.699,678 (14,69%)

                della sovrimposta provinciale                                    "        1.449,943 (1,44%)

                della sovrimposta comunale                                       "        6.005,774 (6,00%)

 

[34] Celerifera 1869, p. 1707.

 

[35] A. Plebano, Storia della finanza italiana, III (1888/1889-1900/1901) cit., pp. 84-85.

 

[36] Celerifera 1889, p. 901.

 

[37] E. Podda, Le imposte dirette, cit., p. 72.

 

[38] Supplemento alla Gazzetta Ufficiale n. 110, dell' 8 maggio 1865.

 

[39] E. Moropurgo, La finanza. Studio di economia pubblica e statistica comparata, cit., pp. 52 e 58.

 

[40] Celerifera 1866, p. 1202-1206.

 

[41] Ibid., p. 1201.

 

[42] Ibid., p. 1368.

 

[43] Celerifera 1867, p. 2157 e Celerifera 1868 pp. 179-181.

 

[44] Celerifera 1868, pp. 1108-1109 e p.1072.

 

[45] Celerifera 1872, p. 733.

 

[46] Ibid., pp. 977-978.

 

[47] Celerifera 1883, p.1112.

 

[48] M. Martinelli, Sovrimposte comunali e provinciali, in Giornale degli economisti, anno II, II, 1891, pp. 146-147.

 

[49] MAIC (Direzione Generale della Statistica), Bilanci comunali, cit., pp.480-481.

 

[50] Celerifera 1886, p. 205 e p.1167.

 

[51] A. Plebano, Storia della finanza italiana, II (1876-1887/1888) cit., p. 503.

 

[52] Celerifera 1888, p. 369.

 

[53] Celerifera 1889, pp. 109 e 138.

 

[54] Celerifera 1891, pp. 701-703.

 

[55] Celerifera 1894, pp.1082-1083.

 

[56] G. Saredo, Modificazioni alla legge comunale e provinciale, Torino, UTET, 1894, pp.82-83.

 

[57] Ibid., pp. 290-298.

 

[58] I. Ferretti, Tributi locali, in Digesto, XXIII (parte 2) cit., p. 691.

 

[59] Ibid., p. 692.

 

[60] Celerifera 1908, p. 238-239.

 

[61] Celerifera 1911, pp. 1382-1391.

 

[62] Celerifera 1912, pp. 546-550.