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LA VITA ECONOMICA NELL'ALTO MILANESE |
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LA FINANZA PUBBLICA DEI COMUNI
DALL'UNITA' D'ITALIA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE Buscate
(MILANO)
L'IMPOSTA
SUI REDDITI DI RICCHEZZA MOBILE L'imposta sui redditi di ricchezza mobile era
un'imposta diretta a carattere prevalentemente oggettivo. I redditi colpiti
da essa, a differenza di quelli aventi natura immobiliare dei terreni e dei
fabbricati, non trovavano una specifica definizione in dottrina. L'imposta
venne, per questo motivo, definita residuale in quanto colpiva ogni specie
di reddito diverso da quello assoggettato all'imposta sui redditi
immobiliari[1].
Essa venne introdotta nell'ordinamento fiscale italiano dal ministro
Minighetti, insieme alla legge sui dazi di consumo. Fu il risultato di studi
cominciati da Cavour, Bastogi e da altri economisti dell'epoca[2];
presentava degli elementi avanzati, sul modello dell'income tax inglese[3],
con capacità di provvedere alle grandi necessità finanziarie del bilancio
italiano, gravando in modo uniforme su tutte le regioni del paese[4]. La nascita della tassazione dei redditi di
ricchezza mobile avvenne con legge n. 1830 del 14 luglio 1864, la quale
stabiliva l'imposta a partire dal 1° gennaio 1864[5].
Ogni individuo o ente morale, sia italiano che straniero, era tenuto a
pagare la tassa secondo i redditi prodotti nello Stato. In pratica, dovevano
versare l'imposta le provincie, i comuni, le corporazioni, i collegi, le
associazioni, le fondazioni, i consorzi e altri come le società civili e
commerciali. Le esenzioni all'origine della tassa, riguardavano gli agenti
diplomatici, gli agenti consolari e i militari in attività di servizio
nell'armata di terra e di mare inferiori al grado di ufficiale, i figli, le
donne maritate e gli altri componenti della famiglia con un reddito
inferiore a L. 250 e tutti coloro che ad esclusivo giudizio dell'autorità
comunale erano considerati indigenti. L'articolo 6 della legge
citata definiva redditi di
ricchezza mobile: " a)
I redditi iscritti agli Uffizi ipotecari nel Regno o altrimenti risultanti
da atto pubblico nominativo fatto nel Regno.
b) Gli stipendi, pensioni, annualità,
interessi e dividendi pagati in qualunque luogo e da qualunque persona per
conto dello Stato, delle Provincie, dei Comuni, dei pubblici stabilimenti e
delle compagnie commerciali, industriali e di assicurazione che abbiano sede
nel Regno;
c) I redditi di un benefizio
ecclesiastico pagati come sopra da una delle Casse indicate nella lettera
precedente;
d) I redditi procedenti da
industrie, commerci, impieghi e professioni esercitate nel Regno;
e) E in generale ogni specie di
reddito non fondiario che si produca nello Stato, o che sia dovuto da
persone domiciliate o residenti nello Stato". Venivano esclusi da questa
graduatoria i redditi agrari, se erano profitti di soggetti che non erano
proprietari del fondo; quando il padrone del terreno coltivava direttamente
il proprio appezzamento; il reddito proveniente da questa attività non era
soggetto a tassazione. L'imposta sui redditi di ricchezza mobile non
colpiva il reddito totale in modo uniforme, cioè i redditi dell'industria
agricola ed edilizia al pari di quelli professionali, industriali e
capitalistici, come voleva il ministro Scialoja. La nuova imposta si
sostituiva unicamente ai tributi reali e speciali sul prodotto industriale,
capitalistico e professionale, esenti dalle imposte dirette del nuovo regno.
Per cui la base imponibile non era univoca, ma variava in base all'imposta
fondiaria, la quale gravava sul reddito prediale o domenicale. Lo scopo era
quello di completare le sperequazioni derivanti dalla sottrazione di alcune
parti del reddito agricolo all'imposta fondiaria[6]. Una particolarità riguardava il reddito derivante
dai bachi da seta: innanzi tutto esso veniva considerato come reddito
agrario, quando l'allevamento era svolto dal proprietario del fondo e nei
limiti della produzione di foglia di gelso dell'appezzamento che erano
necessari per quell'anno. Quando il proprietario allevava una quantità di
bachi superiore alla capacità di produzione di foglia-gelsi del proprio
podere o quando disgraziatamente la foglia-gelsi veniva colpita da qualche
malattia e non era più sufficiente al mantenimento dei bachi, allora
l'acquisto di foglia doveva considerarsi come prodotto di vera industria,
origine di reddito di ricchezza mobile, per questo deducibile dalla base
imponibile[7]. La dichiarazione doveva
essere fatta da ogni contribuente che riceveva a domicilio una scheda, dalla
quale doveva risultare il suo reddito netto, deduzioni ed esenzioni
comprese. Era ammessa la dichiarazione congiunta per le famiglie e la
dichiarazione cumulativa per le società con più sedi. L'articolo 14
evidenziava la possibilità di verificare redditi incerti e variabili
secondo la media degli ultimi tre anni, ovvero per la durata dell'esercizio
se minore. Ai redditi industriali si deducevano le spese di produzione,
mentre al reddito delle società anonime e in accomandita per azioni si
sommavano indistintamente le somme ripartite fra i soci, quelle portate in
aumento del capitale o del fondo di riserva, anche se ammortizzate o
impiegate in estinzione di debiti. Il concetto di colpire, a qualsiasi
titolo, la produzione di reddito era chiaro, come pure la politica di non
fare sconti per redditi prodotti ed impiegati in altre forme, compresa
quella della riduzione di eventuali debiti pre-esistenti. L'imposta veniva determinata
attraverso una procedura particolare che dipendeva da più personaggi e
organismi locali, come la giunta municipale, che trasmetteva all'agente
finanziario la lista degli individui, enti morali e altri soggetti
all'imposta; l'agente finanziario, in base ad esse, recapitava al
contribuente la scheda, invitandolo a farvi la dichiarazione dei propri
redditi al lordo delle deduzioni ed esenzioni. Il metodo di riscossione era quello per
contingente, cioè lo Stato, a priori, stabiliva un importo da riscuotere,
che veniva ripartito tra le varie zone del paese secondo precisi criteri
come l'ammontare totale dell'imposta fondiaria, la popolazione assoluta, gli
stipendi pagati dallo Stato, eccetera. Per il primo anno esso fu stabilito
nella misura di 30 milioni; il regio decreto n. 1883 del 14 agosto 1864,
contemplava il riparto fra le varie provincie d'Italia: Torino era in testa
con un contingente di L. 1.495.754,16, poi venivano Napoli (L.
1.120.111,21), Milano (L. 903.098,10) e tutte le altre[8]
(Bologna, L. 342.619,86; Firenze, L. 590.920,68; Novara, L. 387.007,2;
Pavia, L. 287.672,9). Per quanto riguarda la
determinazione dell'imposta, l'articolo 28 della legge n.
1830/1864 prescriveva una tassa in misura fissa di L. 2 ogni
individuo, che aveva un reddito di qualsiasi origine inferiore a lire 250
annue; ma questa tassa poteva essere ridotta a L. 1 quando il rapporto,
(totale del contingente dovuto dal comune) - (somma della tassa di L. 2
dovuta dal totale dei contribuenti con reddito inferiore a lire 250) /
totale dei redditi di tutti i contribuenti che eccedono le lire 250,
era inferiore al 4 per cento. L'importo totale di questa
tassazione fissa (anche se era fissato in L. 1) veniva tolto dal contingente
comunale; il residuo era imposto "per quotità" su tutti i redditi
superiori alle lire 250. Tuttavia per i redditi compresi tra lire 250 e lire
500 si sarebbe proceduto in modo da imporre una tassa progressiva, secondo
una scala crescente di lira in lira rispetto al reddito, partendo dalla
tassa fissa (L. 2 o L. 1, imposta sul reddito di lire 250) e arrivando
all'imposta dovuta sul reddito di lire 500. Quest'ultima si calcolava dal
rapporto tra il residuo trovato sopra e il totale dei redditi di tutti i
contribuenti che eccedevano le lire 250; essa aveva come limite massimo il
10 per cento. Applicando la percentuale trovata al reddito di lire 500 si
calcolava il limite massimo dell'importo dell'imposta di questa classe di
reddito e poiché essa partiva dall'imposta minima fissa di L. 2 o L. 1, la
differenza tra questi due importi (500 x aliquota% - 1 oppure 2), rapportata
alla differenza tra limite massimo e limite minimo di reddito, cioè 500
meno 250, forniva il numero della progressione aritmetica che avrebbe
determinato categoria per categoria i redditi tassabili da L. 1, L. 2, L.
3,..., fino ad arrivare alla quota calcolata con la percentuale d'imposta
del reddito di lire 500. La
differenza tra l'imposta, che i redditi imponibili dalle lire 250 alle lire
500 avrebbero pagato e l'imposta rimanente, sarebbe stata distribuita sui
redditi superiori alle lire 500. La percentuale ad essi applicabile veniva
calcolata dividendo la differenza tra il contingente di imposta totale e
quello pagato dai redditi fino a lire 500 e l'importo dei redditi dei
contribuenti aventi reddito superiore a lire 500[9].
In nessun caso l'imposta pagabile da un qualsiasi contribuente poteva essere
superiore al 10 per cento del reddito netto del capitale imponibile. Come venivano calcolati i redditi imponibili? Essi
erano determinati e suddivisi dalle commissioni comunali, citate
nell'articolo 21 della legge n. 1830/1864, le quali consideravano il reddito
netto dichiarato nelle schede, cioè già depurato delle deduzioni e
detrazioni, riducendolo ulteriormente secondo il dettato dell'articolo 24:
"I redditi perpetui e quelli dei capitali dati a mutuo o altrimenti
redimibili vengono valutati e censiti al loro valore integrale. I redditi
temporari misti, nei quali il capitale e l'opera dell'uomo concorrono
(industrie, commerci), vengono valutati e censiti riducendoli ai sei ottavi
dal loro valore integrale. I redditi temporari dipendenti dall'opera
dell'uomo senz'aggiunta di capitale (redditi professionali e stipendi), e
quelli nei quali non concorre nè l'opera dell'uomo, nè il capitale
(vitalizi, pensioni), vengono valutati e censiti riducendoli ai cinque
ottavi[10]". Oltre a tutto quello visto
sopra, la legge andava ad abrogare le tasse dirette esistenti negli stati
pre-unitari, come le tasse personali, mobiliari, sulle vetture pubbliche e
private, sulle patenti, sulla vendita di bevande o derrate non soggette al
diritto di vendita al minuto, la tassa del 10 per cento sugli stipendi,
pensioni e assegnamenti nelle provincie Napoletane e altre (articolo 37). Tuttavia per gli amministratori degli enti locali,
la disposizione più interessante era quella dell'articolo 34, il quale
prevedeva la possibilità per le provincie e i comuni, di stabilire
centesimi addizionali nei limiti e con le regole della legge comunale e
provinciale; le quote fisse d'imposta sui redditi inferiori a lire 250 annue
imponibili sarebbero state esenti dai questi centesimi addizionali. Inoltre,
si stabiliva un aumento, sia della quota di imposta principale sia
addizionale, del 4 per cento per le spese di distribuzione e riscossione. A
questo riguardo narriamo un aneddoto: ai comuni era data la facoltà di
imporre centesimi addizionali per il secondo semestre del 1864, in base alle
imposte sui redditi di ricchezza mobile stabilite diversamente in ogni Stato
pre-unitario; però non tutte le provincie avevano questo tipo di imposta,
tanto che il ministro delle finanze Sella dovette permettere a tutti gli
enti di imporre centesimi addizionali sui ruoli delle tasse locali, anche se
non riguardavano la ricchezza mobile[11]. Abbiamo citato l'esistenza di commissioni senza
specificare la loro funzione e come erano organizzate. Le commissioni
amministrative servivano per dirimere le controversie tra agenzie delle
imposte e contribuenti; la commissione di primo grado era organizzata sul
territorio locale e faceva capo al comune o al mandamento; la commissione di
secondo grado dipendeva dalle istituzioni provinciali, mentre quella di
ultimo grado, la commissione centrale, dipendeva direttamente dallo Stato[12].
Tali spese a carico del governo, passarono di competenza comunale nel 1874. Intanto, la legge comunale e provinciale del 20
marzo 1865 n. 2248, allegato A, sanciva la possibilità di fare sovrimposte
alle contribuzioni dirette per i comuni e per le provincie (articolo 118, n.
5). L'attuazione di questo principio era contenuta negli articoli 104 e 105
del regio decreto n. 2318 (25 maggio 1865)[13], il quale rifletteva le indicazioni degli articoli
79, 80, 81, 82, 83 e 84 dell' 11 maggio 1865[14],
cioè le sovrimposte non andavano a toccare i redditi inferiori a lire 250,
ma si applicavano all'imposta proporzionale dovuta dai soggetti possessori
di redditi superiori a lire 250. La determinazione dell'imposta dipendeva anche dal
prefetto, che doveva far conoscere all'agente delle tasse la quota delle
sovrimposte di ciascun comune, successivamente l'agente doveva trasmettere
le cartelle ai comuni affinché fossero distribuite e al direttore delle
tasse, il quale coordinando la quota di imposta sui terreni e fabbricati,
con l'imposta sui redditi di ricchezza mobile determinava i centesimi
addizionali per ciascun comune. L'articolo 111 del n. 2318/1865 imponeva due
rate per il pagamento delle quote di imposta: 15 dicembre e 15 giugno; nella
prima rata si doveva pagare il doppio di quello che era stato stabilito dai
ruoli per l'imposta spettante nel secondo semestre del 1864, con l'aggiunta
del 10 per cento; nella seconda rata si sarebbe pagato il saldo o ottenuti i
dovuti rimborsi. Venivano ammesse per il pagamento, anche le cedole di
rendita unificata iscritta sul Gran Libro del Debito pubblico. Tutto queste
norme seguirono quelle simili contenute nella legge n. 2276 dell' 11 maggio
1865, che in più aveva aumentato il contingente totale a 66 milioni[15],
abolendo la scala crescente dell'imposta sui redditi compresi tra le lire
250 e le lire 500 e applicando a tutti i redditi non tassati in maniera
fissa l'aliquota proporzionale. L'accertamento mediante
ruoli provocava enormi ritardi perché la mole di lavoro per la loro
redazione era grandissima; così una circolare del 19 giugno 1865 confermava
il principio dell'autotassazione attraverso la dichiarazione dei
contribuenti, rimandando la formazione delle liste al momento
dell'unificazione con l'imposta sui fabbricati. Nel 1866
il ministero delle finanze venne affidato ad Antonio Scialoja, il quale
intendeva riordinare le tre grandi imposte dirette esistenti in Italia:
l'imposta fondiaria, l'imposta sui fabbricati e quella di ricchezza mobile.
L'introduzione nell'ordinamento fiscale di quest'ultima aveva snaturato
l'indole originaria dell'imposta fondiaria, vicina più ad una tassazione
della ricchezza in generale. Intanto il ministro Scialoja, per sistemare le
incongruenze dell'ordinamento prevedeva un conguaglio sui redditi fondiari.
Egli era consapevole che questa situazione avrebbe creato grave
perturbazione tra i contribuenti e come conseguenza, la diminuzione
considerevole dei redditi imponibili per la ricchezza mobile già colpiti
dalla fondiaria. Perciò, se l'obiettivo era quello di reperire risorse
finanziarie per l'erario nazionale, diventava necessario un aumento
dell'aliquota proporzionale, che comunque doveva contenersi entro il 10 per
cento. Ancora, egli anticipava che questa futura imposta doveva essere
completamente sottratta all'azione perturbatrice dei centesimi addizionali a
favore dei comuni e delle provincie. Il ministro mirava all'abolizione di
ogni legame tra la finanza dello Stato e le finanze locali. Il
progetto continuava prevedendo l'introduzione del reddito fondiario,
sistemato dopo il conguaglio nella categoria dei redditi industriali
riducibili ai 6/8; i redditi dei fabbricati dovevano essere contenuti, visto
che l'imposta di natura speciale gravava già pesantemente la proprietà
urbana: essi sarebbero stati ridotti di 5/8 nel calcolo del reddito
imponibile[16].
Ma la commissione finì per approvare una serie di provvedimenti diversi e
non collegati fra di loro, aventi un unico obiettivo: raccogliere dovunque e
comunque quelle maggiori risorse necessarie all'erario. Intanto
si moltiplicavano le esigenze di denaro per le finanze statali, che non
potevano aspettare il risultato delle discussioni del parlamento, così
venne varato il decreto del 28 giugno (n. 3023), il quale imponeva
un'aliquota uniforme dell' 8 per cento sul reddito imponibile di ciascun
contribuente, a partire dal 1° luglio 1866; i redditi inferiori a lire 250
imponibili sarebbero stati esentati dal pagamento dell'imposta, mentre
quelli compresi tra le lire 250 e le lire 350 avrebbero beneficiato di
un'aliquota dimezzata al 4 per cento. Importanti disposizioni dava anche
l'articolo 5, indicando la ritenuta all'atto del pagamento di stipendi,
pensioni o assegni da pagarsi dagli enti erogatori (provincie, comuni ed
enti morali), i quali avrebbero dovuto rivalersi sui soggetti assegnatari
dell'imposta. L'esazione della ritenuta aveva uno scopo molto semplice:
permetteva l'incasso dell'imposta anche sulla rendita pubblica. Certamente
si infliggeva un colpo basso agli enti locali, dato che i redditi tassati
per ritenuta non sarebbero stati ulteriormente colpiti dalle sovrimposte
comunali. Per bilanciare le minori entrate, con l'articolo 14, si tassavano
nuovamente i proprietari terrieri, creando a carico della rendita fondiaria
due imposte dirette di identica natura. Al di là di queste disposizioni di portata
limitata, la norma più importante sembrava proprio quella dell'articolo 15,
con la quale si sarebbe limitata dal 1° luglio 1866 l'imposizione di
centesimi addizionali all'imposta di ricchezza mobile, al 25 per cento per i
comuni e 25 per cento per le provincie, dell'imposta erariale; ma se le
provincie non avessero usata questa facoltà, il limite del comune avrebbe
potuto estendersi per la parte non imposta dalla provincia; però in nessun
caso il complesso della sovrimposta avrebbe potuto essere superiore ai 50
centesimi[17].
I problemi non erano terminati e nel giugno 1866
quello più grave sembrava legato alla formazione dei ruoli e alla
legalizzazione delle sovrimposte, le quali avrebbero dovuto essere abolite
dal progetto di legge per l'imposta unica sull'entrata del ministro Scialoja.
La non approvazione della proposta rese necessario il regio decreto n. 3034
(del 30 giugno 1866), che autorizzava come base per il riparto dei centesimi
addizionali del 1866, l'ammontare dei contingenti comunali stabiliti per il
1865 (R.D. n. 2845/1866). In particolare le sovrimposte stanziate nei
bilanci comunali del 1866 sarebbero state suddivise proporzionalmente tra
l'imposta di ricchezza mobile e quella sui terreni e fabbricati, compresa la
metà del decimo di guerra. Le vicende particolari di questo periodo ci
portano ad osservare che, abbandonato il concetto di consolidamento
dell'imposta fondiaria, si volle mantenere i centesimi addizionali, benché
ridotti e limitati, per permettere alle finanze locali di sostenersi
autonomamente[18]. Queste disposizioni non furono recepite in maniera
immediata dai direttori delle tasse, figuriamoci dagli amministratori di
piccoli comuni rurali, così da costringere il ministero delle finanze ad
emettere una circolare il 25 luglio 1866[19],
nella quale si spiegava esattamente che i comuni potevano scegliere tra:
determinare una somma specifica da imporre ai redditi di ricchezza mobile,
non imporre addizionali alla suddetta imposta oppure determinare una
percentuale unica per tutte le imposte dirette. I direttori delle tasse,
seguendo esattamente le disposizioni delle amministrazioni locali,
ripartirono le sovrimposte su tutte le contribuzioni dirette, riportando
zero se nei ruoli del 1865 non si era proceduto a nessun riparto di
centesimi addizionali. Per quanto riguarda le norme intrinseche
all'imposta sui redditi di ricchezza mobile, la legge del 28 maggio 1867 n.
3719, era la prima che provvedeva alla revisione dei redditi (articolo 8) e
all'esenzione del pagamento delle sovrimposte per gli impiegati provinciali
e comunali (articolo 16), possessori di redditi nelle forme esentate
dall'articolo 15 della legge n. 3023/1866[20].
Infatti non sarebbe stato conforme a giustizia che i redditi, una volta
accertati, fossero rimasti sempre allo stesso livello; si doveva permettere
l'aggiustamento di quelli incerti e variabili, sia in favore della finanza
pubblica (statale o locale) sia dei privati cittadini. Ma le modificazioni
più importanti furono sicuramente quelle degli scaglioni di reddito: esenti
dall'imposta diventavano quelli non superiori alle 400 lire, in più si
aiutavano i redditi compresi tra le lire 400 e le 500, con la riduzione di
lire 100 per il calcolo dell'imponibile; l'aliquota rimaneva in misura unica
all' 8 per cento (articolo 9). Ulteriore semplificazione era l'eliminazione
dell'obbligo della dichiarazione per i contribuenti aventi esclusivamente
redditi inferiori a lire 400 di industrie, commerci, stipendio, pensione,
vitalizi e rendite di terreni e fabbricati[21].
Il problema del riparto delle sovrimposte nel 1867
era sempre presente per i comuni, visti i ritardi nella predisposizione dei
ruoli; le circolari del 22 agosto e 7 settembre 1867 ne sono la conferma[22].
Le liste prese in considerazione per il riparto rimanevano quelle del 1865 e
nel caso in cui la sovrimposta superava i 50 centesimi, doveva essere
ridotta entro tale cifra. L'eccedenza del limite veniva notificata al
prefetto, il quale avrebbe compreso, tra quelle da calcolarsi nei ruoli del
1868, la quota non ripartita. Per gli anni 1869 e 1870 l'aliquota dell'imposta di
ricchezza mobile fu aumentata del 10 per cento, così stabiliva l'articolo 2
della legge n. 4513 del 26 luglio 1868[23].
Tuttavia non mancavano le difficoltà, sia in considerazione dell'aggravio
che raggiungevano le sovrimposte locali, sia perché, volendosi
regolarizzare l'esazione dell'imposta, che era in grave ritardo, si
proponeva di conglobare in due soli ruoli e riscuotere in due anni,
l'imposta dovuta per gli anni 1868, 1869 e 1870. Per queste ragioni il
ministro Cambray-Digny avrebbe voluto l'abolizione completa delle
sovrimposte locali, proponendo di autorizzare i comuni ad imporre tasse
speciali. Ma ancora una volta il parlamento non accettò questa specifica
proposta, accontentandosi di restringere i limiti su tutte le imposte
dirette[24].
Così, sempre per il biennio 1869-1870, la facoltà accordata alle provincie
e ai comuni d'imporre centesimi addizionali si riduceva al 40 per cento in
totale, anche se i municipi potevano eccedere la loro quota del 20 per cento
qualora le provincie avesse imposto una quota inferiore a quella loro
spettante[25].
Si può dire che prevalse ancora l'idea di limitare le entrate locali per
favorire quelle nazionali, senza colpire in maniera eccessiva i
contribuenti, specialmente la proprietà fondiaria. Le gravi sperequazioni tra classi sociali nel
pagamento delle tasse e la continua esigenza dell'erario di rifornire le
proprie casse diedero voce alla legge dell' 11 agosto 1870 n. 5784, allegato
N, la quale elevava l'aliquota al 12 per cento e toglieva completamente, a
partire dal 1871, la facoltà di sovrimporre addizionali alla ricchezza
mobile; non era finita, all'articolo 3, imponeva l'aumento di 1/10
dell'imposta ricalcando il principio del 1868[26].
All'interno di questa legge i più o meno importanti provvedimenti diretti a
migliorare e rinvigorire l'applicazione dell'imposta erano l'estensione di
essa ai redditi dell'industria agraria esercitata dai proprietari della
terra, la ritenuta sui premi dei prestiti e sulle vincite al lotto, la
facoltà dell'amministrazione di riconoscere e colpire come fruttiferi i
mutui dichiarati infruttiferi; si arrivò a tassare anche gli interessi dei
depositi, dei conti correnti passivi delle casse di risparmio e di ogni
altro istituto di credito, migliorando d'altra parte la diversificazione dei
redditi degli impiegati, colla riduzione dell'imponibile dai 5 ai 4 ottavi[27].
Inoltre lo Stato concedeva ai comuni per gli anni 1871, 1872 e 1873, un
compenso pagabile in rate semestrali, uguali al 30 per cento della massima
somma che essi potevano sovrimporre a titolo di centesimi addizionali sulla
tassa di ricchezza mobile in base ai ruoli del 1869 e del 1870[28]. Se la legge amministrativa aveva rigettato il
principio della tassazione dei proventi comunali ricavabili dalle tasse
previste nell'articolo 118, la circolare del 27 ottobre 1871 chiariva le
incertezze dei comuni in relazione al pagamento dell'imposta per i proventi
derivanti dal dazio di consumo. Essa statuiva, in linea con la legge, che
nel caso di riscossione diretta fatta dall'amministrazione governativa o
comunale, anche in abbonamento, nessuna imposta doveva essere versata;
mentre vi erano soggetti i privati appaltatori che approfittavano della
riscossione del dazio[29]. Qualche anno dopo, il ministro delle finanze
Depretis, annunciava in parlamento importanti cambiamenti per l'imposta di
ricchezza mobile, non tanto allo scopo di soccorrere le finanze comunali,
quanto per rendere più produttiva la tassa. Ciò si deduceva dalla
possibilità di accordo data alle amministrazioni locali per la
compartecipazione sui redditi direttamente accertabili dagli enti locali, ma
dall'avere avocato l'entrata comunale sulle riscossioni di 3/4 di centesimo[30].
Infatti, con l'articolo 72 del testo unico, approvato con regio decreto n.
4021 (2.a serie) del 24 agosto 1877, si enunciava il principio che dall'anno
1879 sarebbe stata corrisposta ai comuni una parte di imposta incassata
dallo Stato nell'anno precedente. La quota era fissata nel 10 per cento dei
redditi delle lettere b) e c) della legge n. 1830/1864, detratti i rimborsi
per quote indebite e inesigibili, indicati dall'articolo 54[31].
Il 7 marzo 1879 un decreto ministeriale ne indicava le modalità operative,
inoltre, ai comuni che facevano domanda poteva essere erogato un anticipo
non maggiore di 3/4 del loro credito presuntivo[32].
Come capitò per la sovrimposizione, anche per la
compartecipazione, la macchinosità delle riscossioni gestite dai burocrati
statali rendeva difficoltosa l'attuazione della normativa, costringendo il
ministro a dettare norme minuziose per le procedure da eseguirsi[33]. Però il decreto non
conteneva solo queste modifiche: l'articolo 55 stabiliva come minimo
imponibile il reddito di lire 400; da tale reddito, fino a quello di lire
800, si instaurava un sistema di riduzioni graduate decrescenti (da lire 250
a lire 100), calcolate al crescere della ricchezza; ad esempio, con reddito
da lire 400 a lire 500, la riduzione per calcolare l'imponibile era di lire
250. Tutto questo valeva per i redditi di categoria b) e c), in quanto
quelli di categoria a) erano tassati interamente, mentre quelli di categoria
d) beneficiavano di una riduzione pari a lire 100, solo se erano compresi
tra lire 400 e lire 500. A questo punto si può
affermare che l'imposta risentiva del benefico mutamento operatosi
nell'indirizzo dello Stato; raggiunto il pareggio di bilancio, si pensò di
risollevare le sorti dell'economia nazionale mitigando l'asprezza del
sistema tributario. Una tabella redatta da un esperto in merito all'imposta
di ricchezza mobile indica il guadagno proporzionale di imposta per ciascuna
classe:
Tabella
n. 1: S. Frola, Testo Unico delle leggi d'imposta sui redditi di ricchezza mobile,
Torino, Belgrano,1887, p. 72 L'articolo 15 fissava norme,
oltre che per gli enti locali e morali, anche per le
società in accomandita per azioni e le società anonime;
tali soggetti dovevano dichiarare gli stipendi, pensioni,
assegni erogati agli impiegati e gli interessi pagati sui loro
debiti; in questi casi l'imposta relativa si applicava sui
debitori mediante ritenuta. Un'altra innovazione fu la
classificazione dei contribuenti in industrie e professioni
tramite l'accertamento biennale dei redditi di queste classi. Nel 1894 (22 luglio, legge n. 339) il ministro
Sonnino, per migliorare la situazione difficoltosa delle finanze
statali, fissò un'aliquota uniforme del 20 per cento sui
redditi di ricchezza mobile. Per compensare questo peso i
redditi vennero valutati riducendoli in base ad una scala di
valori, la quale seguiva l'importanza delle categorie A, B, C, D
(stabilite il 3 novembre 1894, n. 493), ferme restando le
esenzioni e le detrazioni dell'articolo 55 del decreto n.
4021/1877. Il passaggio da reddito netto a imponibile avveniva
in questo modo: i redditi di categoria A2 (redditi dei capitali
dati a mutuo) erano ridotti a 30/40, ad eccezione degli
interessi e dei premi sui prestiti delle provincie e dei comuni,
dei titoli al portatore a interesse fisso e di altri come i
premi delle lotterie, che erano valutati al loro valore
integrale e definiti A1; i redditi della categoria B (redditi
temporanei prodotti dall'unione del capitale e del lavoro
dell'uomo) erano ridotti di 20/40, quelli della categoria C
(redditi professionali prodotti dal solo lavoro dell'uomo e
redditi nei quali non concorreva ne capitale, ne lavoro, come
pensioni e vitalizi) di 18/40 e quelli D, riscuotibili tramite
ruoli o ritenute (stipendi pagati dallo Stato e dagli enti
locali) di 15/40. L'articolo 2 imponeva che l'aumento sui
redditi di categoria A sarebbe rimasto a carico del ricevente il
reddito, anche quando il pagante, per il sistema della ritenuta,
avrebbe avuto l'obbligo di regolare l'imposta prima della
pubblicazione della legge[34].
Ma questa disposizione non fu recepita da tutti gli enti o
società, come dimostrato dalle circolari del 18 gennaio e del 2
aprile 1895[35].
La norma più importante era
comunque quella inserita nell'articolo 4, il quale toglieva il
10 per cento di compartecipazione della imposta ai comuni e
ristabiliva le spese per le commissioni di prima istanza a
carico dello Stato. Di valore pure l'articolo 51, della legge n. 493
del 3 novembre 1894. Esso stabiliva che quando il contribuente
non possedeva altri redditi di terreni o fabbricati, oltre ai
redditi di categorie B, C, D, questi erano esenti se inferiori
rispettivamente a lire 533,40, a lire 640,10 e a lire 800,10.
Inoltre, il reddito dei terreni e dei fabbricati doveva essere
considerato per il calcolo del reddito imponibile di ricchezza
mobile[36]. Ulteriori riforme furono proposte dal ministro
Branca nel dicembre 1896 e dai ministri Carcano, Carmine e
Boselli nel 1899, dal ministro Massimini nel 1906, in merito
alle disposizioni riguardanti le riserve matematiche e la
composizione delle commissioni[37]. L'ultimo regolamento per l'imposta di ricchezza
mobile, prima del 1915, fu quello dell' 11 novembre 1907 n. 560,
il quale andava a modificare l'ordinamento delle commissioni. Si determinarono i criteri per la costituzione e il
funzionamento delle commissioni di primo e secondo grado; furono
poste norme per il più regolare funzionamento degli uffici di
segreteria; si davano termini precisi per l'iscrizione al ruolo;
si arrivò all'abolizione delle revisioni biennali dei redditi
con la sostituzione di rettifiche individuali da effettuarsi da
parte dell'agente ogni 4 anni. In sintesi, assicurava una più
spedita ed equa applicazione dell'imposta[38]. Toccarono l'imposta sulla ricchezza mobile anche le
norme del regio decreto n. 1128 del 15 ottobre 1914, che
aumentava dal 2 al 5 per cento l'addizionale a favore dei comuni
danneggiati dal terremoto del 1908, avocandola allo Stato dal
1915; essa esentava le quote di imposta erariale inferiori alle
L. 10 (L. 15 per i fabbricati) nel distretto di agenzia e le
quote di imposta diretta mobiliare sui redditi inferiori alle
lire 1.500 di categoria B, lire 1.667 di categoria C e lire
2.000 di categoria D[39].
Ancora il 16 dicembre 1914, la legge n. 1354,
imponeva l'aumento del 10 per cento dell'imposta sui redditi di
ricchezza mobile (solo per la categoria A2) e della erariale
principale su beni rustici ed urbani. Tutti questi provvedimenti
furono resi necessari e consentiti dalla legge n. 694 del 17
luglio 1914 che autorizzava il governo ad applicare, nell'arco
di tempo di un anno, una serie di aumenti tributari. Il ministro
Giolitti aumentò dapprima il prezzo dei tabacchi e quello degli
spiriti, poi propose, con l'ausilio dei ministri Facta e
Tedesco, ritocchi e nuovi ordinamenti per le tasse già
esistenti, pure su cespiti fino a quel momento rimasti esclusi
da ogni tassazione[40]. Concludendo, le molteplici
riforme lasciarono l'imposta di ricchezza mobile in uno stato di
completa incertezza, aggravata dai notevoli ritardi per la
formazione dei ruoli. Così le finanze locali si trovarono a
dover coprire le spese tramite proventi alternativi a quelli
derivanti dall'imposta di ricchezza mobile. La soluzione fu di
incrementare sempre più le sovrimposte su terreni e fabbricati.
Però in questo modo si imponeva un peso gravoso ai possessori
terrieri, come del resto avvenne, nonostante gli interventi del
legislatore volti a limitare la sovrimposizione sui terreni e
fabbricati. Infatti, questa continuò ad aumentare in maniera
incontrollata perché unica fonte sicura di entrata per le
finanze comunali, provinciali e nazionali.
[1] E. Giannetta, G. Scandale, M. Sessa, Teoria
e tecnica nell'accertamento del reddito mobiliare, Roma,
A.B.E.T.E., 1958, p. 1.
[3] E. Moropurgo, La
finanza. Studio di economia pubblica e di statistica
comparata, Firenze, Le Monnier, 1877, p. 61.
[15] Ibid., "Torino, L. 8.059.403,55; Napoli, L.
6.111.158,94; Milano L. 5.162.289,05; Firenze, L.
3.437.991,20; Bologna, L. 1.840.145,11; Novara, L.
1.593.760,42;Pavia, L. 1.194.067,18", p. 1851.
[30] S. Frola, Testo
Unico delle leggi d'imposta sui redditi di ricchezza mobile,
Torino, Belgrano, 1887, p. 92.
[40]
Ibid., p. 592. |
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