Che cosa è questo Parlar Cantando, questa Seconda
Pratica di cui parla il Divino Claudio?
Rileviamo innanzitutto (Lettera di Monteverdi del 22 Ottobre
1633 scritta verosimilmente a G.B. Doni) la differenza che Monteverdi stabilisce
tra l'armonia fondata sulle ragioni della prima pratica e l'armonia
fondata sulla concezione melodica che egli chiama di seconda pratica. È
in effetti su questa profonda differenza che nasce l'aspra polemica tra
Monteverdi e l’Artusi ed il Cremonese spiega molto bene ciò che egli intende per
seconda pratica che non è altro che la realizzazione della Melodia
platonica: "Melodia, overo seconda pratica musicale. Seconda (intendendo io)
considerata in ordine alla moderna, prima in ordine all'antica...". La
seconda pratica è dunque, essenzialmente, il ritorno alla concezione antica
della musica che è la realizzazione del suono della dizione emotiva della
espressione poetica che deve essere, secondo Platone, scelta per il suo valore
di particolare comunicazione spirituale. È il contrario di ciò che avviene nella
prima pratica dove su una certa costruzione sonora si esprime una
espressione letteraria. Di conseguenza l'orazione padrona del ritmo e
dell'armonia (seconda pratica) si contrappone alla prima pratica in cui
l'armonia è padrona del ritmo e dell'orazione. È la differenza che
Monteverdi ha già rilevato nella sua lettera allo Striggio del 9 dicembre 1616
tra il parlar cantando (seconda pratica) ed il cantar parlando (prima
pratica). Spiegando la sua concezione della seconda pratica (Melodia
platonica) egli dice chiaramente: "L'Arianna mi porta ad un giusto lamento et
l’Orfeo ad una giusta preghiera". È questa parola GIUSTO che ci
conduce alla concezione del Canto in quanto comunicazione modulata del pensiero
che, secondo Platone, deve nascere dalla ricreazione di una reale situazione e
che è, allora, la verità ritrovata, argomento del X Libro della "Repubblica",
602 e segg. dove Platone indica la via che conduce alla mimèsis.
Monteverdi non manca di indicarci questo "lume rinchiuso"
(sempre nella sua lettera del 22 ottobre 1633) che egli appena intravede:
"quando fui per scrivere il pianto del Arianna, non trovando libro che mi
aprisse la via naturale alla imitatione ne meno che mi illuminasse che dovessi
essere imitatore, altri che Platone per via di un suo lume rinchiuso così che
appena potevo di lontano con la mia debil vista quel poco che mi mostrasse; ho
provato dicco la gran fatica che sia bisogno fare in far quel poco ch'io feci d'immitatione...";
si tratta della via che conduce alla giusta mimèsis della natura.
Per Monteverdi la Seconda Pratica è dunque il ritorno
alla concezione della musica come realizzazione della poesia nei suoi tre
elementi unitari che sono il significato, il ritmo ed il suono, elementi che
l'Artista plasma sotto l'impulso dell'emozione, ciò che è la "rappresentazione degli affetti", cioè delle passioni. La Seconda Pratica
non deve essere considerata come uno stile di scrittura musicale, ma invece come
l'espressione poetica totale delle passioni umane, passioni che si manifestano
nella PAROLA che vive infatti di significato, ritmo e suono.
Credo sia utile a questo punto fare alcune precisazioni circa
lo stile monteverdiano. Molti si intestardiscono oggi nel considerare Monteverdi
"manierista" e musicista "barocco"! È semplicemente ridicolo ed è facile capire
allora perché tanti dei suoi... interpreti riescano così bene a mettere la sua
musica alla berlina! Il termine "maniera" indicava nel Rinascimento il modo
particolare di essere o di fare una cosa ed ogni artista aveva la sua
maniera, cioè il suo stile. In seguito il significato del termine si
è deteriorato finendo per indicare, come maniera, la ricerca o
l'alterazione di elementi di uno stile affettato. È facile immaginare a quale
dubbia interpretazione può portare un inquadramento dell'arte monteverdiana in
una simile prospettiva.
Quanto al termine "barocco", ci troviamo di fronte a qualche
cosa che, propriamente parlando non significa niente ed al quale una cattiva
abitudine ha finito per dare una importanza immeritata e ben equivoca.
Non è il caso qui di dilungarmi in un saggio musicologico; mi
limiterò a riprodurre il passo della lettera che Monteverdi ha scritto
verosimilmente a G.B. Doni in data 2 febbraio 1634. È un poco il "credo"
filosofico ed estetico e da esso rileviamo queste affermazioni illuminanti:
"... rivoltai gli miei studi per altra via appogandoli sopra a fondamenti de
migliori filosofi scrutatori de la natura, et perché secondo ch'io leggo, veggo
che s'incontrano gli affetti con le dette ragioni et con la sodisfatione de la
natura (...) et provo realmente che non ha che fare queste presenti regole, con
le dette sodisfationi, per tal fondamento ho posto quel nome di seconda pratica,
(...) perché la mia intentione è di mostrare con il mezzo della nostra pratica
quanto ho potuto trarre da la mente de' quei filosofi a servitio de la bona
arte, et non a principii de la prima pratica, armonica solamente... ";
né dimentichiamo mai ciò che Monteverdi, come abbiamo visto, ha scritto
nella sua lettera del 22 ottobre 1633 sempre a proposito della seconda
pratica.
Ci vuole veramente l'immaginazione di Gustav René Hocke per
citare Monteverdi "il più grande genio manierista dell'Italia insieme a
Tintoretto..." e tutta la fantasia di Manfred Bukofzer ("Music in the
Baroque Era") per dissertare su un barocco che secondo Claude Palisca ha
finito per includere "i madrigali di Gesualdo, le prime pastorali di Peri e
Monteverdi, le tragicommedie di Scarlatti, le tragedie liriche di Rameau... e
Corelli, Vivaldi, Schütz, e le cantate di Bach... (Baroque Music, 1968).
"
L'interpretazione e l'esecuzione di un'opera di Seconda
Pratica può esistere soltanto quando si riescono a riprodurre, per mezzo di
una tecnica particolarmente raffinata, le situazioni emotive che hanno
determinato la poiesis dell'Artista il quale, ciò è importante da considerare,
ha notizzato i suoni ed i ritmi delle parole dette in quella particolare
situazione emotiva che egli esprime nella mimesis dell'atto di vita.
Conviene qui indicare quindi le caratteristiche estetiche e
tecniche dell'antica scuola italiana di canto.
I grandi teorici e pratici dell'epoca, i Maffei, Caccini,
Rognoni, Brunelli, fino a Tosi e Mancini (XVIII secolo) sono unanimi nel
pretendere che il canto vive di messa di voce, di esclamazioni, di
crescere e scemare della voce, di ornamenti (gruppi e trilli), di
passaggi in note spiccate, di un puro legame del soffio in una
emissione perfetta che consente sempre di articolare tutte le note in
modo da lasciare un "vacuo" in mezzo a ciascuna di esse; il tutto arricchito da
una preziosa "sprezzatura" che è la quintessenza del "rubato".
Ciò che emerge da questi avvertimenti di alta scuola è la
conditio sine qua non del canto a voce piena e naturale cioè del canto che i
falsettisti non potevano e non possono realizzare, questa voce piena e naturale
che, nell'unione dei due registri (petto e testa) va naturalmente dal pianissimo
al fortissimo, senza perdersi nella mezza voce che non è che un
effetto, questa voce piena naturale senza la quale il canto non può mai
essere espressivo. Caccini è molto preciso a questo proposito: "... dalle
voci finte (falsetto) non può nascere nobiltà di buon canto; che nascerà
da una voce naturale comoda per tutte le corde, la quale altrui potrà maneggiare
a suo talento, senza valersi della respirazione per altro, che per mostrarsi
padrone di tutti gli affetti migliori, che occorrono usarsi in sì fatta
nobilissima maniera di cantare". È chiaro, partendo da questa concezione
dell'arte del canto, che ogni esecuzione di questa musica da parte dei
falsettisti è una mistificazione che una analisi seriamente condotta non
può in alcun caso accettare; la Storia ha i suoi diritti e bisogna
naturalmente rispettarli.
Stimo perciò utile fornire alcune precisazioni sul clima
particolarmente interessante che caratterizza la vocalità nel XVI-XVII e XVIII
secolo, dell'epoca cioè in cui le voci a ottava femminile primeggiano nel
teatro e nelle chiese sostituendo definitivamente i "falsettisti" anche nel
repertorio polifonico, sia per ragioni tecniche (possibilità della virtuosità
espressiva) che per ragioni estetiche (capacità naturale di rappresentare gli
"affetti"). In effetti per fare ciò la voce deve fondere i due registri naturali
(petto e testa, che gli italiani chiamavano anche falsetto). Questa fusione non
può essere realizzata dai "falsettisti" perché essi usano una sola parte delle
corde vocali.
È a questo proposito che nasce un'altra grande
mistificazione: la pretesa da parte di pseudocontrotenori (alias falsettisti)
di eseguire i brani scritti per le voci a ottava femminile (castrati).
L'esatta comprensione del fenomeno "castrato" è possibile
solo se si considera il problema dal punto di vista assolutamente tecnico. Una
letteratura molto vasta, spesso frutto di una curiosità quasi morbosa al
riguardo, ha contribuito a confondere le idee. Le ultime ricerche in campo
medico ci precisano: "presso i castrati la laringe ha la grandezza di quella
della donna (a causa della mancanza della secrezione del testosterone) mentre la
castrazione non ha alcuna influenza sulla produzione del soffio toracico e sulle
cavità di risonanza che sono identiche a quelle del cantante che non ha subito
la castrazione"(tesi per il Dottorato di Stato - Facoltà di Medicina -
Università di Limoges - anno 1983 - Dr. Philippe Defaye, cfr. VIII Convegno
Internazionale di Musicologia - Centro Studi Rinascimento Musicale, Artimino
1983).
La voce del castrato è caratterizzata dunque dall'ottava
acuta tipica della voce di donna con i suoi due registri (petto e testa); la
grande tecnica deve portare alla omogeneità (fusione in un unico registro) nel
grave, nella parte centrale e nella parte acuta.
La voce del castrato è dunque una voce "piena e naturale" in
grado di realizzare tutte le prodezze espressive (giochi sul fiato)
descritte da Caccini e di cui parla Pietro Della Valle a proposito della nuova
arte che Caccini chiama stile rappresentativo, rappresentativo degli affetti
(passioni umane). Possiamo dire anche che questa epoca vede il trionfo delle
voci naturali a ottava femminile, sia nei teatri che nelle chiese dove cantano
le donne (le monache) ed i sopranisti (castrati) oltre naturalmente alle voci
maschili; è dunque la categoria delle voci in falsetto ("falsettisti") che
scompare ed è assolutamente assurdo pensare di far cantare ai "falsettisti"
delle musiche pensate e scritte per le voci di soprano e contralto "piene e
naturali" (donne o castrati). L'amore per la virtuosità e per il canto
espressivo favorisce in Italia, durante i secoli passati, l'idolatria per le
voci acute (soprani) ad ottava femminile naturale, idolatria che continuerà fino
ai nostri giorni rendendo aleatorio ogni tentativo di un ritorno innaturale, e
più o meno camuffato, alla pratica del canto dei falsettisti che furono chiamati
a sostituire le voci femminili (siamo al XV ed alla prima metà del XVI secolo)
nelle chiese.
Questa ricerca della virtuosità e del canto espressivo spiega
bene la presenza delle voci di donna e dei castrati in ruoli intercambiabili.
Haendel, ad esempio, affida lo stesso ruolo nel Rinaldo, in prima
esecuzione, al castrato Nicolini; in seguito, in altre riprese, si servirà della
Barbier, di Diana Vico ed ancora di un altro castrato famoso, il Bernacchi.
L'interpretazione offerta da Nella ANFUSO ci conduce ai fasti
della alta scuola italiana di Canto, questo canto che fu di Vittoria Archilei,
alla Corte del Medici in Toscana, di Virginia Ramponi, attrice della Compagnia
dei Fedeli, prima interprete di Arianna, di Leonora Baroni figlia di Adriana
Basile così ammirata da Monteverdi alla Corte di Mantova... di Francesca Caccini
e di Margherita, figlia di Francesca "così lucida e splendente in questa
professione del canto, che ciascuno ammirando la sua voce suavissima, quasi in
canna d'argento risuonante, colma di trilli e gruppi spiccanti accompagnati con
mirabili et affettuosi accenti, faceva a gara per andare a udirla..."; un
vero inno alla bellezza vocale!
Caccini e Monteverdi danno delle preziose indicazioni che ben
pochi cantanti sono oggi in grado di seguire e che andrebbero invece a loro
vantaggio e, come scrive Monteverdi, "a servitio de la bona arte"
(Venezia 1634). Infatti, una perfetta emissione della voce, cioè l'uso totale ed
esclusivo della risonanza superiore appoggiata su quella di petto (nessuna forza
dunque e nessun appoggio sulla laringe) permette di non dovere mai spingere
i suoni; è soltanto così che si può realmente rispettare e seguire i tempi
naturali di pronuncia delle sillabe che è il primo elemento ritmico del
parlar cantando che si basa esclusivamente sul ritmo stesso della
respirazione naturale e di conseguenza "si canta senza battuta" (Monteverdi).
Da ciò nasce la possibilità di avere una voce che porta e che riesce a modulare
i suoni e che di conseguenza è atta ad esprimere i più sottili effetti vocali (portamenti
etc.) e realizzare la virtuosità più straordinaria. Nella dizione è essenziale,
seguendo la poesia, di non dimenticare che nel parlare modulato, che è il
"cantus" poetico, abbiamo una successione di suoni ritenuti e quasi sospesi che
si alternano a dei suoni continui propri al "parlare usuale" (si veda a questo
proposito la "Prefazione" di Jacopo Peri alla sua Euridice, Firenze
1600). Nel parlar cantando (il parlar modulato = parlare modulando
le sillabe) devono essere conservate inalterate le caratteristiche degli accenti
tonici che, in italiano soprattutto, hanno una immensa importanza perché
condizionano il tono e l'intensità dei suoni che non sono tonici (cioè che non
sono accentati). Ad esempio la parola AMORE ha una sillaba d'attacco A e la
sillaba tonica MO che fa scivolare la sillaba RE. La dizione è particolarmente
complessa e non può essere esemplificata in alcun modo. Soprattutto non bisogna
pronunciare con la stessa intensità le tre sillabe e meno ancora raddoppiare
(come viene fatto troppo spesso dai cantanti stranieri che credono di farsi
meglio comprendere) le consonanti M e R (nel caso di "amore"). Bisogna
pronunciare esattamente seguendo l'accento tonico e secondo le caratteristiche
sonore delle vocali e delle sillabe. La comprensione del testo nasce
automaticamente dall'impressione psicologica che crea la dizione nella sintesi
di significato, ritmo e suono. Questa sintesi è la caratteristica primaria dello
"stile rappresentativo", cioè, la "rappresentazione degli affetti",
l'espressione rappresentativa delle passioni umane.
Desidero concludere con una citazione particolarmente
importante perché ci dà la esatta misura di ciò che Monteverdi desiderava
vocalmente. È un passaggio della lettera indirizzata da Venezia ad Alessandro
Striggio in data 24 luglio 1627:
"... è ben vero che canta sicuro, ma canta però alquanto
melancolico e la gorgia, non la spicca così bene, perché manca nel agiungere la
più parte de le volte la vocale del petto e quella della gozza, perché se manca
quella de la gozza a quella del petto la gorgia divien cruda et dura et
offensiva, se manca quella del petto a quella de la gola, la gorgia divien come
onta et quasi continua nella vocale, ma quando ambidui operano, si fa la gorgia
et soave et spiccata, et è la più naturale;...".
Ogni altra concezione dell'esecuzione vocale non è naturale,
ma forzata e non permette in alcun modo, ed a ragion veduta, di eseguire
correttamente né le arie, né i madrigali (sia monodici che polifonici) e ancora
meno il "genere rappresentativo". Dunque: o si ritorna, se si vuole
essere virtuosi ed interpreti, alla alta scuola italiana di canto, oppure si
abbandona per sempre un repertorio che, come diceva Caccini, "non patisce la
mediocrità".
Edizioni
II Centro Studi Rinascimento Musicale ha pubblicato tre studi
(1969-1973-1975) sul Lamento d'Arianna, sulle Due Lettere Amorose
e sulle Tre Arianne. Pubblicando gli studi sul Lamento e sulle
Lettere abbiamo voluto realizzare la notazione segnata nelle edizioni
originali (Gardano - Venezia 1623 per il Lamento d'Arianna - Unicum di Gent).
Musicologicamente l'edizione veneziana del 1623 dell’Arianna ci fornisce
elementi semeiografici di grandissima importanza in quanto ci dà l'autentica
notazione monteverdiana di cui le revisioni non hanno tenuto conto, forse nel
tentativo di rendere più "cantabile" ciò che, per diretta volontà dell'autore,
doveva essere naturalmente "parlar cantando"; questo tentativo ha finito con il
travisare la verità espressiva della Seconda Pratica monteverdiana che il
Cremonese pur indica in maniera inequivocabile nel suo epistolario.
È particolarmente interessante rilevare la presenza di
cromatismi e dissonanze che, sparite nelle revisioni moderne, sono invece
profondamente legittimate dal concetto espresso dallo stesso Monteverdi nella
sua lettera dell'ottobre 1633 in cui chiaramente l'autore, menzionando Platone,
indica di aver voluto, nel fare imitazione, ricreare l'autentico lamento della
protagonista vissuto in prima persona: "quando fui per scrivere il pianto del
Arianna, non trovando libro che mi aprisse la via naturale alla imitatione ne
meno che mi illuminasse che dovessi essere imitatore, altri che Platone per via
di un suo lume rinchiuso così che appena potevo di lontano con la mia debil
vista quel poco che mi mostrasse; ho provato dicco la gran fatica che sia
bisogno fare in far quel poco ch'io feci d'immitatione". Dopo aver
approfondito la conoscenza dei vari testi pervenutici, abbiamo optato
giustamente per l'unicum conservato a Gent (unica edizione a stampa del Gardano,
Venezia 1623).
Siamo stati confortati in tale scelta dallo studio critico di
Giovan Battista Doni (1594-1647) che in uno scritto conservato manoscritto
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze e pubblicato un secolo dopo sempre
a Firenze nel 1763, ci offre la opinione di un contemporaneo di grande dottrina
circa il carattere modale della composizione monteverdiana. Scrive infatti il
Doni: "E da commendare il giudizio del Monteverde, il quale lasciando da banda
queste superstiziose regole, seppe molto bene variare con la diversità di
cadenze il principio della sua Arianna, facendo restare il primo verso
lasciatemi morire in E, la, mi, e l' istesso replicato in D, la,
sol, re cadenza sua propria. Dopo questo E chi volete voi, che mi con
forte in G, sol, re, ut. In così dura sorte in A, la, mi, re, In
così gran martire in bq mi. E Lasciatemi morire di nuovo
ridetto, resta in F, fa, ut, e l' istesso ancora replicato in D, la,
sol, re, con cadenza finale; onde in questi pochi versi ricerca si può dire,
tutti i Modi che veramente non sono più di quattro, quanto sono le specie della
Diapente, che facciano qualche diversità poiché quella che nasce dalla diversa
specie di Diapason, malamente si può conoscere, se non disponendo i modi alla
guisa antica..."
È da notare l'aderenza dello studio del Doni all'edizione
veneziana in esame circa il "resta in F fa ut" (penultimo Lasciatemi
morire), F fa ut che non si riscontra nei vari manoscritti non autografi
dell'epoca né nelle revisioni moderne.
I tre ultimi versetti "Nacqui Regina...", "Vivo, moro...", "
Io son contenta..." si trovano esclusivamente nei Mss. Magliabechiano di Firenze
e del British Museum di Londra. In riferimento al testo della tragedia di
Rinuccini va rilevato che solo i manoscritti di Firenze e di Londra contengono
l'intera scena drammatica di cui sia pervenuta la musica per il personaggio di
Arianna, essendo andato perduto tutto il rimanente della composizione
monteverdiana.
Onde ripristinare il valore prettamente drammatico e
rappresentativo del "Lamento" che poté far scrivere a Monteverdi,
rivolgendosi allo Striggio nel dicembre del 1616, "Arianna mi porta ad un
giusto lamento" ed eliminare esteticamente ed interpretativamente una
tendenza ormai falsamente acquisita a considerare questa stupenda scena quasi un
canto riferito a pagina cameristica e non uno stupendo esempio di parlar
cantando monteverdiano, abbiamo incluso gli interventi del Nunzio, del Coro
e di Dorilla (di cui non ci è pervenuta la musica), al proprio posto fra i
versetti espressi da Arianna, in forma di testo recitato; ciò allo scopo
conoscitivo della scena stessa ed al fine di creare l'atmosfera nella quale
Arianna modula il proprio pathos. Questa ricostruzione ci è parsa
particolarmente utile a dimostrazione anche della struttura classica della
tragedia del Rinuccini; difatti questa scena di Arianna ricorda strutturalmente
il Kommòs cioè il momento in cui il protagonista lamenta la propria sorte
mentre il coro partecipa e commenta l'evento (si veda ad esempio l’Antigone
sofoclea).
La presente esecuzione del Lamento di Penelope da
"Il Ritorno di Ulisse in Patria" costituisce una novità assoluta. Per la
prima volta viene presentato il Lamento secondo il testo scritto dal Badoaro.
È ormai noto l'uso, che caratterizza fin dall'inizio le
rappresentazioni veneziane, di rimaneggiare i vari testi con musiche anche
diverse. Infatti l'apertura del teatro di S. Cassiano al pubblico pagante è un
fatto prettamente impresariale per cui il fine ultimo è il successo commerciale;
le rappresentazioni musicali sono rivolte ad un pubblico più vasto, ma anche
meno preparato culturalmente. Possiamo ricordare a questo proposito l'episodio
del fiorentino Filippo Vitali che lasciò Roma fortemente irritato per il
rimaneggiamento del suo "Narciso" da parte del Marazzoli in vista di una
rappresentazione romana.
Il nome glorioso di Monteverdi era un richiamo per gli
impresari Ferrari e Mannelli, ma alla fine l'aspetto commerciale doveva
prevalere anche sul rispetto dovuto al Cremonese. A ciò è da aggiungere il fatto
che le nuove rappresentazioni venivano rimaneggiate anche dai Cantanti che, non
dimentichiamo, all'epoca erano fior di musicisti, poiché, ripetiamo, l'ottica
era il successo dello spettacolo con la conseguente grossa affluenza di pubblico
pagante. È il caso dell'arietta "Torna il tranquillo al mare" all'interno del
Lamento di Penelope, arietta da noi espunta.
Il manoscritto viennese del "Ritorno di Ulisse in Patria"
presenta molti aspetti oscuri circa la provenienza, le rappresentazioni e gli
adattamenti subìti. Rimane il fatto che anche il Lamento di Penelope è stato
tagliato e stravolto rispetto all'ordine drammatico voluto dal Badoaro. Tutto
ciò non può essere stata opera del Monteverdi che appartiene a quella
generazione artistica che aveva alta considerazione del poema e del
poeta, si chiamasse questi Badoaro o Rinuccini. I versi di Penelope, che nel
testo del Badoaro sono 125, sono stati ridotti nel manoscritto a 76. Ciò
che risalterà maggiormente all'ascolto sarà l'assenza dell'arietta "Torna il
tranquillo al mare" posticipata dall'ignoto manipolatore al fine di adescare
l'interesse del pubblico. Niente è meno monteverdiano di tale arietta sia dal
punto di vista musicale che della situazione drammatica. È stata quindi
ricostituita la logica conseguenzialità drammatica originale del Lamento che
ritrova così il suo carattere unitario dal punto di vista psicologico anche
se non è stato possibile riproporre nella sua interezza la grande scena di
Penelope, data la situazione mutila del manoscritto viennese. Le pagine dei
personaggi femminili (Messaggera, Ninfa, Speranza e Proserpina) dell’
Orfeo sono realizzate sulla scorta delle edizioni veneziane del 1609 e 1615
(quest'ultima, proveniente dalla Biblioteca polacca di Wroclaw, contiene delle
indicazioni manoscritte) e tengono conto delle differenze riguardanti "note" ed
"alterazioni" delle medesime.
La realizzazione musicale del "Genere rappresentativo" è
stata affidata in genere all'Insieme di Organo di Legno e Chitarrone
(ma i medesimi strumenti sono stati utilizzati anche in versione solistica)
seguendo le indicazioni dello stesso Monteverdi che, ad esempio, nella scena
della Messaggera indica l'insieme di tali strumenti per la realizzazione del
Basso Continuo.
Et vivete felici