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augusto  sciacca

La mia Messina che chiede verità

 

Non è un ritorno, il mio, mentre ripercorro le strade a me ben note di Giampilieri, Scaletta, Guidomandri, Itala, Molino e Altolìa, ma un continuo viaggio nella memoria. Qui sono nato, qui ho fatto i miei primi passi, ho visto il mare; qui, nelle scuole elementari, ho imparato Fratelli d’Italia e l’aneddotica unitaristica non priva della retorica di allora. Poi, alle medie, ho imparato il coro Va’ pensiero a cui il professor Albano, un entusiasta napoletano, teneva molto, tanto che, una volta che l’avevamo appreso bene, socchiudeva la porta dell’aula per far espandere il nostro canto nei corridoi della scuola: la sua fatica e la piccola e genuina vanità così si appagava. Più tardi venne il Nord e anch’io ho dovuto nel profondo ammettere con Quasimodo che «Il mio cuore è ormai su queste praterie / in queste acque annuvolate dalle nebbie», anche se non ho voluto «dimenticare il mare»-«per le terre e i fiumi della Lombardia»; ma ho accettato che «Più nessuno mi porterà nel Sud».

Ora le grida di questa nefasta sciagura (37 il tributo di vite umane), mi riportano a ripercorrere passo dopo passo i miei luoghi offesi e stravolti. Le strade sono in gran parte già liberate dalle masse di fango e detriti, si scava ancora in qualche casa cercando gli ultimi dispersi. Vigili del fuoco, agenti, guardie forestali, soldati, operai lavorano per sgombrare le case gonfie di fango. In questa operosità colpisce il silenzio, l’atmosfera sospesa, sembra che anche le ruspe non facciano rumore.

Lo stesso irreale silenzio gravava sulla folla di oltre diecimila persone che gremiva la piazza e il Duomo di Messina il giorno dei funerali delle vittime; e sulla città intera, con le saracinesche abbassate.

Impossibile frenare lo zampillo dei ricordi, ma la nostalgia per ciò che è stato perduto è frammista alla rabbia, antica e odierna. Da qui, su questo litorale, con l’acqua del mare in perenne dialogo con la costa calabra di fronte, su questo “Bosforo di Sicilia” da sempre son passate e si sono incontrate culture e arti di popoli diversi. Qui la storia si è fatta mito, da Colapesce, il fanciullo che regge la città di Messina, a Ulisse, da Cariddi alle incantevoli fate morgane dello Stretto. Queste vie hanno percorso i personaggi del Grand Tour. Anche questa è “la terra dei limoni” di Goethe, di Quasimodo, di Consolo e di Migneco, qui è possibile riconoscere i cristallini paesaggi di sfondo delle crocifissioni di Antonello, su questa costa si è nutrita la grande ispirazione di Stefano D’Arrigo. I volti di questa gente si possono ravvisare nei grandi teleri “Adorazione dei pastori” e “Resurrezione di Lazzaro”, conservati nel Museo regionale di Messina, che Caravaggio realizzò in questa città dal 1608 al 1609.

Quanti contadini da qui sono partiti e sono diventati operai nel Nord, quanti professionisti, impiegati, insegnanti hanno lasciato questa terra in cerca di un’opportunità, mentre commercianti, artigiani e addetti all’agricoltura (un tempo florida) venivano lasciati indifesi e queste colline all’abbandono.

Non è bastata la tenacia degli anziani rimasti e dei volonterosi, ormai più per ragioni affettive che di vantaggio economico, a custodire i terrazzamenti di vigne, olivi e limoni, con gesti di attenzione e dedizione quotidiana, strappando erbacce, riparando i muri a secco, ripiantando alberi, d’estate provvedendo a irrigare con turni per l’accesso all’acqua anche di notte, per evitare che tutto si seccasse.

Si insinuava intanto l’insipienza, il culto dell’utile immediato e senza regole, fino a non distinguere il lecito dall’illecito, a non comprendere dove sia l’errore e quale faccia abbia l’illegale. Commistioni di vario ordine spesso sono diventate prassi quotidiana. Incuria, mancanza di piani di tutela ambientale e idrogeologica, speculazione hanno fatto il resto: bruciando “per autocombustione” le colline, costruendo parcheggi sopra gli alvei dei torrenti, incanalando corsi d’acqua costringendoli fino a un imbuto. Non veri, rigorosi piani regolatori, ma piani di fabbricazione, che hanno reso legale costruire dove non era opportuno, senza precise analisi tecnico-scientifiche.

Mi chiedo, osservando le macerie di queste case: perché, mentre esportiamo democrazia in terre lontane, non riusciamo a far valere le leggi dello Stato in tutto il territorio nazionale?

Denunce avanzate da più parti sono rimaste inascoltate, viste come elementi di disturbo. Inascoltato anche l’annuncio delle frane del 2007: sono state messe solo alcune leggere reti di contenimento in qualche costone. Qualcuno tragicamente ironizza: “Buone per prendere i conigli!”. E come conigli mansueti molti sono morti nelle loro case, con buona pace dei cacciatori di frodo del territorio.

Oggi anche i media fanno la loro parte. È mancata un’informazione completa che desse conto della vastità della sciagura. Paesi gravemente colpiti da frane e smottamenti, Itala e Guidomandri, che hanno subito gravi danni e sventramenti di case, ma fortunatamente non hanno avuto morti, non sono stati neanche nominati. Pur avendo rischiato la vita, gli Italesi si sono dignitosamente rimboccati le maniche, senza clamore, e hanno cominciato i lavori di sgombero. Solo dopo tre giorni hanno avuto aiuto e sono state sfollate 250 persone.

Alle analisi si sono preferite frettolose approssimazioni, giudizi sommari, anche nelle dichiarazioni di qualche responsabile istituzionale e di personaggi pubblici.

Si è attribuita semplicisticamente la causa della tragedia all’abusivismo edilizio. Il che è vero solo in parte. Molte costruzioni hanno origini antiche e hanno retto per secoli; ma i forti cambiamenti climatici recenti, assieme allo stravolgimento del territorio operato dall’uomo, per quello che si è fatto e per quello che non si è fatto, avrebbero dovuto essere presi in considerazione con tempestività dalle varie amministrazioni locali, provinciali e regionali, per fare progetti ambientali e mettere in atto efficaci  opere di prevenzione.

Non si è posto in risalto, quindi, l’abusivismo legale del territorio, la superficialità della “speculazione autorizzata”, con i certificati perfettamente “in regola”.

Ai media non si chiedono inchieste processuali, ma un’informazione più approfondita e rispettosa dei fatti, visto il potere di influenza che hanno sull’opinione pubblica e la sperimentata capacità di sensibilizzare e far scattare sentimenti di solidarietà.

O, forse, “è già stato dato”, e la costa ionica siciliana è troppo lontana?

È stato detto subito da fonti istituzionali che non era il momento delle polemiche.

Ma credo sia il momento della chiarezza, di una analisi onesta, che identifichi le responsabilità individuali, senza gioco delle parti o dei partiti: responsabilità di chi non ha ascoltato le allerte dei tecnici che avevano fatto progetti di messa in sicurezza, di coloro che avevano il dovere di farli attuare, dei finanziamenti non dati e di quelli stanziati per questi obiettivi ma dirottati in altri luoghi o per altri scopi.

Ciò non riporterà i morti in vita, ma consolerebbe chi è rimasto e darebbe maggiore fiducia per il futuro il sapere che non tutto passa impunito.

L’attenzione va tenuta alta se non si vuole che vinca ancora una volta il malaffare.

Dall’immagine mediatica che è prevalsa la gente si è sentita offesa, ancora una volta umiliata e colpevolizzata, come se tutti fossero abusivi e dediti all’illegalità. Perché non si sono fatti i dovuti distinguo fra chi non ha compiuto rigorosamente il proprio dovere e chi ha subito l’arbitrio altrui, fra chi ha abusato e chi, invece, civilmente ha denunciato e reclamato?

E se nella tragedia la pietà cristiana è il sentimento che deve prevalere su tutti, a maggior ragione per gli innocenti, vittime due volte.

Monsignor La Piana, arcivescovo di Messina, nella sua dura omelia funebre, ha sottolineato «la carente gestione di un patrimonio unico e prezioso…troppo spesso sfregiato e deturpato…violentato: negligenza e noncuranza, interessi privati ed egoistici, logiche perverse e speculazioni di ogni ordine e grado… Si è voluto anche polemizzare, giudicare e condannare con sufficienza e presunzione».

La stragrande maggioranza dei siciliani fa il proprio dovere, crede nello Stato, vuole credere; lo ha dimostrato nei decenni con i suoi morti: contadini, operai, imprenditori, giudici, poliziotti, politici, soldati, che hanno lottato per la giustizia, per la legalità, per migliori condizioni di vita proprie e altrui.

Molta gente è sfiduciata e rassegnata perché non viene considerata e garantita nei propri diritti, proprio dalle istituzioni che rappresentano lo Stato. È stanca di promesse, chiede opere concrete. Non si possono etichettare proteste e richieste di provvedimenti con luoghi comuni e formule di comodo, facendo passare questi cittadini come ribellisti o piagnoni. Che fiducia devono avere, e in chi?

Lungo la statale che attraversa Scaletta, accanto alla secentesca chiesetta della Vergine della Lettera, quasi emblematicamente, è stata appoggiata al cancello di lamiera di un capannone una nodosa croce di legno fatta con due pezzi grezzi di tronco: forse anche Cristo è sceso dall’altare ed è andato in giro ad “asciugare qualche lacrima”, come aveva detto il grande bergamasco la sera dell’apertura del Concilio Vaticano II, e a “ fare una carezza ai bambini” che si trovano rifugiati in un’anonima stanza d’albergo, lontani da quelle che erano le loro case.

E mentre si parla di radicamento, di valorizzazione della cultura territoriale, delle risorse ambientali e delle esperienze locali, un’esponente del governo ha dichiarato che non è possibile mettere in sicurezza tutti i paesi colpiti e bisognerà pertanto convincere i cittadini a lasciare il loro paese e trasferirsi altrove. Tutti? Speriamo che questo proposito sia solo una sua boutade. Il territorio, non è un valore di cultura, di storie, di esperienze ed emozioni che non sono trasferibili?

Una considerazione: perché insistere nella costruzione del ponte di Messina, visto che tutta quella zona – è risaputo – è ad alto rischio sismico e manifestamente non in stato di sicurezza? Ci sono interi complessi di edifici costruiti letteralmente su colline di sabbia.

Questa situazione allarmante è stata più volte e da più parti denunciata. Sono queste le priorità per la Sicilia e il Sud? O aspettiamo altre sciagure per versare altre lacrime?

Perché, invece, non potenziare beni e culture territoriali esistenti, affinché non ci sia solo l’opportunità di emigrare, ma anche quella di tornare?

Il mio viaggio non è un ritorno, la mia Itala non è la mia Itaca.

 

 

 

 

 

 

 

 

Augusto Sciacca (1945), pittore, scenografo

e pubblicista, messinese d’origine, laureato

in architettura al Politecnico di Milano,

si è formato nel clima concettuale degli Anni 70.

Sin dagli esordi, conduce una ricerca rigorosa

sull’uomo nella sua dimensione esistenziale

e nel suo rapporto con l’infinitudine del cosmo.

Un lavoro condotto per grandi cicli pittorici.

Ha esposto in numerose mostre personali

e collettive in Italia e all’estero e ha ricevuto

numerosi riconoscimenti.

Sue opere si trovano presso musei nazionali

e internazionali.

Ha realizzato numerose scenografie teatrali.

 

 

 

Contatti:

sciacca.augusto@libero.it

www.ilsagittario.com

 

 

Reportage pubblicato da “L’Eco di Bergamo” il 2 novembre 2009  

(a un mese dall’alluvione)