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maria manganaro

 

Giornalista, Maria Manganaro è attualmente, portavoce della Presidente della Provincia di Ancona.

 

 

GIAMPILIERI, ORAZIONE FUNEBRE

Umiliata e offesa, la montagna si scioglie in lacrime di fango

Sabato(forse) sarà il giorno dei funerali delle vittime ritrovate e di un paese cancellato, sommerso dal fango della vendetta della montagna che oggi custodisce tanti altri corpi senza vita.

Straziante sarà la cerimonia, attonito il dolore di donne uomini e bambini senza un futuro certo.

La storia di Giampilieri, quella che io conosco (anche se nata a Giampilieri Marina, le origini dei miei quattro nonni, come quelle di moltissimi altri emigranti, sono sepolte a Giampilieri Superiore dove ho trascorso l’infanzia tra vicoli, scuola, parenti e amici) parla di migrazioni, temporanee e definitive, interne all’isola o verso il continente. Un paese che trovava la sua identità nella campagna. Quasi ogni famiglia possedeva piccoli appezzamenti di agrumeti o uliveti secolari, da curare quotidianamente. Piccoli appezzamenti terrazzati difficili da coltivare (dove le motozappe “saltavano” muretti a secco), i cui raccolti non davano da vivere per tutto l’anno. Nel migliore dei casi solo ossigeno per un paio di mesi. Per il resto dell’anno bisognava trovare altri lavori. Tra questi, l’impiego stagionale nel siracusano a “lavorare con le arance”: raccolta, lucidatura, etichettatura, compravendita. Già negli anni Settanta si avvertono i primi segnali di crisi del sistema. Mio padre, per esempio, non riusciva più a vendere i limoni neanche “sull’albero”, non conveniva più, non si ripagava neanche le spese. “Nelle trattative con la Comunità europea, – diceva in dialetto, - i nostri governi ci stanno svendendo, a differenza della la Spagna che invece punta sulla sua agricoltura e sul trasporto ferroviario, anziché sui camion” (sarebbe lungo parlare della viabilità siciliana e calabrese). Naturalmente, anche nel siracusano il commercio agricolo e l’occupazione languivano, le arance andavano al macero a tonnellate. Emigrare era la parola d’ordine per i giovani (io stessa ho vinto un concorso al nord per gioco, solo perché volevo andare qualche giorno a Roma: quei quiz mi hanno fregato e piangendo sono dovuta partire per Milano senza avere ancora finito l’università). Nonostante tutto, il fiero e prepotente  orgoglio dei “giampuleroti” resisteva, gli abitanti dei paesi vicini continuavano a chiamarli “chiddi da ciumara storta”, quelli della fiumara ingovernabile e orgogliosa come gli abitanti di Giampilieri. Col passare degli anni le scorte storiche di orgoglio si sono esaurite, intimamente legate alla conoscenza di una montagna su cui erano arrampicati appezzamenti rigogliosi come giardini. I vecchi morivano e i giovani prendevano una due tre lauree, per vincere concorsi ovunque e ottenere posti di lavoro fisso. Per gli eredi la campagna non rientrava più nelle possibilità di denaro e di tempo: prenotare l’acqua (che costava!), irrigare alle ore assurde in cui il tuo turno era previsto, pagare un “omo” per zappare e un altro per potare. Giampilieri Superiore non è mai stato il luogo dei grandi proprietari terrieri o dei mafiosi e non aveva più neanche la sua microeconomia. Le campagne raggiungevano lo stato di abbandono, gli incendi aumentavano là dove il controllo di proprietari e confinanti solidali veniva a mancare. L’Italia non sapeva che farsene di quei piccoli produttori e di quella campagna che non consentiva coltivazioni estensive utili a questa o a quella azienda di trasformazione alimentare (invece i piromani, specie negli ultimi anni, sono diventati abilissimi nell’appiccare incendi a catena, congegni a orologeria che hanno destato l’ira della montagna).

I giovani ancora legati al loro paese hanno costruito case nuove più a valle, gli anziani sono rimasti e le case si sono svalutate (fino a quei seimila euro richiesti per l’appartamento di un uomo che ha perso moglie e figlia nel fango prima di riuscire a vendere). Tuttavia il vecchio paese ha mantenuto il centro di culto (con la sua austera chiesa del Settecento), negozi,  bar,  pizzerie,  panifici, parrucchieri, farmacia, ufficio postale. I giovani delle case nuove non hanno mai pensato di creare servizi ai piani bassi delle loro residenze: non ce n’era bisogno a cento metri dal vecchio paese.

Quel paese privato della sua storica microeconomia è stato definitivamente cancellato. Se ne accorgeranno soltanto gli abitanti delle case nuove senza servizi.

Eppure, Giampilieri, lembo all’estremo sud del Comune di Messina è in uno dei tanti angoli suggestivi della Sicilia, a un chilometro dal mare di Giampilieri Marina dal cui limite inizia lo Stretto,  con un capo (quello di Scaletta, sorella di sciagura insieme ad Altolia, Molino e Briga) che dà il via a una serie di capi (Alì, Sant’Alessio, Forza d’Agrò, Taormina) che in successione disegnano sul mare una sequenza mozzafiato.

Solo a scrivere la parola “mozzafiato” mi si ferma il respiro, sabato in cattedrale si piangerà forte per le salme recuperate e per quelle ancora sepolte sotto metri di fango indurito dal sole. A qualcuno dei responsabili della colpevole incuria dovrà pur nascere il rimorso di aver sacrificato al clientelismo la vita di decine di persone, di un intero paese e di una montagna umiliata, facendo orecchio da mercante all’interminabile sequela di denunce inascoltate dei comitati cittadini, della guardia forestale, dei vigili, di Legambiente, della protezione civile.

Solo una richiesta, oltre all’accertamento delle responsabilità e a una civile attenzione al futuro prossimo: almeno un numero verde dovuto ai familiari delle vittime di ogni catastrofe.

 

L'opera è inedita è stata donata dall'autrice al Museo del Fango