b | a Giampilieri |
gaetano delli santi |
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acqua acuta e frana delicata fanno l’uomo di fango
Ero seduto su una poltrona, che (a vederla da un punto di vista poco in vista rivelava un aspetto formale quasi intraveduto da una vista affetta da astenopia e meropia) non aveva nessuna fisionomia che me la rivelasse in forma di poltrona. Sembrava piuttosto un asparago seduto su un ciuco intento a mangiarselo. Seduto su quella poltrona, m’era duro sedermici: entrava in brighe col mio culo. E dunque... seduto su quella poltrona, mi chiedevo: «Perché sedermi su questa poltrona, su cui è impossibile sedersi? Perché sedermi sulla sua tragica caducità che non è neppure in grado di condurmi a sedere né a farmi star seduto su una eroica sofficità che mi inviti a sedermi per poter star comodamente seduto? Perché la forma posizionale del suo schienale che, pur non avendo nulla in sé di intersiderale né di ancestrale, mostra comunque una faccia risorgimentale, anche se (e si vede) estroflette smorfie causate da un dolore gengivale dovuto alla caduta di un dente embrionale?»
Nel mentre ero intento ad arrovellarmi su queste elucubrazioni -sostanziali e universalmente di primaria importanza-,… mi addormentai. Mi ritrovai di colpo in un colore fangoso, dai contorni di fango, la cui complessa e monilitica sessualità di fango mi mostrò un uomo di fango -nato dal fango... ricordate?- che mi venne incontro con l’andatura di una autorità franata.
PERDINCI! PERDINCI! Ero IO!!!!!!!
Si fermò a pochi passi da me e iniziò a parlare rivolgendosi a un pubblico che non c’era, facendo finta ch’io non ci fossi.
Signori e signore, Giampilieri è oggi -così ci dicono- abbassata al cadavere di un giocattolo più vivo di un morto e più morto di un vivo con l’alito di motriglia in bocca e la brina di melma che ha labbri dissotterrati e occhi di trafitti.
Qualcuno mi ha detto -cari signori e signore- che non è un orango che in quel fango balla il fandango... No! Non è un donzello che fa il menestrello sotto il baccello allungando il pisello a una fava e la clava a una superdonna in minigonna tutta sex-shop e pornoshop non stop... No!
È Giampilieri ingrognata perché stasera primo ottobre 2009 ore 17.00
bolle di simulacri dal suo fango bevono un litro di cielo inchiodato alle nuvole bevono un vento di legno che tubi di frenesia mangia tra spruzzi di torbidi corpi e polpe di pozzanghere acefale.
E Giampilieri, che non mi si mostrò con i sembianti di una città affarista né con la faccia di una grandiloquente azienda gettatasi nelle speculazioni... mi sciorinò un discorso di cui non compresi del tutto il senso. Drizzò le parole verso di me... come un allucinato che, persosi tra i denti di una frana sfigurata dalla frana (come una fame sfigurata dalla fame),... avesse raggiunto il culmine del suo delirio.
Fratello mio!… chi scava promesse scaglie di grida scàglia sui diavoli duri coi cieli stremati di sempre...
e ora persino un muro di frana ti è scappato dalla bocca.
Ed io, scendendo ne l’amaro di quella tomba melmosa ho sognato: squame di incesti seminavano la gogna in mezzo a un lago di peccati e sguazzavano in un polistirolo drogato consacràti allo strido di un’ombra cruda e di fioriture d’acque spezzate...
“Che ci vuoi fare? Così è il mondo” mi disse una contessina burina che al posto della testa aveva una latrina viperina e al posto del culo un’acquolina alla pecorina.
Ho sognato: miserevoli croste di cartoline e di cartoni animati, fallimentari, di rimbambiti arricchiti, scodellavano ascelle acquistate nei supermarket.
“A noi veline, tutte mutandine e cine dalla testa a forma di vuotazucchine, ci piace... così... andar a spasso coi blasonati e vip incafonati...”
mi dissero delle voci saltate fuori a sorpresa da pacchetti di sorrisi che sembravano sbarre messe all’ingrasso tra spuntoni di natiche in fiamme e spire di stucchi al sugo.
Non ebbi, signori e signore, neppure il tempo di correggere le mie orecchie... perché udissero meglio quelle parole... che come luce al suo primo vagito vidi avanzare verso di me (dopo che Giampilieri svaporò all’istante) tra grumi di ruggiti e battiti di silenzi scomposti e vapori zoppicanti il giovane sottocapo di prima classe della Marina Simone Neri... che da morto (morto nel metter in salvo 8 anime senza darsi pena di raccòr l’alito per poter pensare più a sé che agli altri -chi pensa per sé, pensa per tre-) mi disse:
Ora che in pozzi cicisbèi affaticando le ossa ci facciamo funebri… ora che nubifragi spermatici hanno dato vita a sberleffi come spilli e locuste pronte al guasto… ora che anche il ràncido ristagno ha i suoi tentacoli e si colora di illusorio… ora che la nostra vita goccia a goccia s’aggruma a scolo di fogna...
non temere...
seppellisci quelle mucche di zucchero che friggono pescecani in pelli di vento e piogge stuprate...
e vieni all’aperto.
Vai! Ci saranno per te vicende di leccalecca e di copiosi crisantemi dalle stelle baciati; ci saranno mattine scarcerate anche se respirerai stagni e carcasse di germogli senza semi.
Armenti di cemento vendono le loro risate da cui cadono foglie blindate e c’è -in ogni nuvola di legno marcio e di metallo stolto- minestra di forcazzi che imbrigliata dalla carne marcia s’incarogna.
Vai! Che fartene di questo azzurro ossuto che vive sotto un orizzonte spezzato e insultato? che fartene di questi naufragi di truffatori e tumulazioni di sterco che abitano gli stridori degli insetti schiacciati?
Non ingoiare lo sgorbio d’ingoio! Non somigliare a chi màstica morti in festa!
L’erbaccia presuntuosa vive anche in cimiteri di betulle in amore e ti beve da un buio di disastri.
Da oggi calata nella Tv di un polipo spargimenzogna una poltiglia di flash nutre i tuoi sogni ma tu sii ciò che non sei mai stato.
non galleggiare in un baleno screpolato bucato dal ghigno di un carnefice
non andare tra boscaglie di ciarlatani e di opportunisti tra giungle di insensatezze e infamità d’accatto in cerca di quei nessuni che lúccicano condannati a sostenere niente
non startene ne lo stambúgio tapino color balocco ad annusare il suo decoro ebbro di noie che si crede vivo e forte come un biascichìo di gomma
non arrotolarti a una foschía cretina spalmata sullo sconquasso allacciata al soprammobile appesa al cigolío di cravatta che fa finta d’esser finta che ingozza un corvo a becco mozzo con farfalle a caccia di denti
non strisciare in mezzo ad apostoli sfocati né in mezzo a monumenti grassi e serafici e non aspettare la gassosa regina che aspetta tromboni e pupazzi
Sappi che c’è un topo in queste voci doppiate da una politica berciante -s’inventa un codazzo di cosce dilettanti tra teste gracchianti montate su un grugno da becchino- -parla dalle cartacce distilla pasticci malati sorride masticato da un riso di paglia… e dice:
“Ciò che in quest’acqua passa è acqua svuotata e passata bagnata dalla lucertola stroncata.”
Sappi che c’è un mercato emerso da stupide decorazioni ammansito da torme di bisbigli vaginali da lanterne di ceroni come quaglie festanti: ingozza fucilate di maiale squartato stampa ossa e cartilagini per tutti fa lo strafocchione -fa troppo in una sola cosa: perde una vagina un muco una smorfia da zucchero vecchio striscia sui passi di chi tace e lì… s’infossa nella caduta dei già caduti.
Sappi che c’è un angelo caduto dallo sperma -bestemmiato dall’insensato se ne va in tripudio con un nonsenso mozzo: è una chiacchierata che sta tutta nel palmo di un confetto come una caramella arrabbiata è un chiodo che abbaia a un martello è un occhio carico di bottoni spensierati è una campana diventata scrofa è una caduta di cervelli è la faccia-frittata che ti dà per pranzo una pancia di scimmia
e un fetore di chiavate uscito da maccheroni scotti.
Poi, cari signori e signore, vidi venirmi incontro non fiotti di profumi, infeltriti dallo squittio di un capo capripede -alla Berluschin-, dai capelli plasticati, intrisi di sorrisi che ti ridono dal decorativismo di un positivismo tutto attivismo iperattivismo corporativismo soggettivo egocentrismo baciato dall’erezione di un priapismo reazionario egemonismo più del papismo superomismo da fumismo e trasformismo... non baratri di esseri sbagliati, che trasportano bandiere guerce e soldi come fagioli infiocchettati per chi ama comprare anche i morti... No, signori, no!
Vidi invece venirmi incontro il popolo di Scaletta Marina, Giampilieri Superiore, Giampilieri Marina, Altolia, Molino, Santo Stefano di Briga, Briga Superiore, Pezzolo e Guidomandri Superiore...
Emanava tutt’intorno un profumo di tristezza, che percepivo come spilli di dolore che mi entravano nella carne. Mi circondò -sembrava un raduno di nebulose smaliziate. E iniziò a dirmi, in un sol coro...
Qualcuno ha dichiarato, che questo stagno d’orrori s’è formato a causa dell’indiscriminata costruzione in aree poche idonee e ancor più destabilizzate dagli scavi connessi all’attività edile... Può darsi. Se così fosse, signori, cari signori, vi chiediamo: perché non ci avete -con irreprensibile onestà- aiutato a realizzare il nostro sogno? Volevamo vivere, stando in un luogo che fosse più vicino al cielo e agli umori della terra. Volevamo svegliarci al mattino con gli alberi in fiore negli occhi, con le vette dei monti nel cuore, con il cielo nelle vene. Non volevamo la città: non volevamo le sue anguille regali, la sua monnezza, i suoi corvi d’anidride solforosa, le cupole di torbida letizia, i suoi batteri mafiosi, i suoi politici usurpatori, il suo scatolame edilizio, protetto dalla scorza grigiastra di volti come secchiate di muscoli sgualciti, destinati a vagolar per gli angoli morti dei loro squallidi appartamenti. Volevamo un’umile caverna entro cui sentirci più vicini al respiro della terra. Essere cittadini del Cosmo cosa vuol dire se non desiderare un’esistenza che consenta di spingerci oltre la consuetudine di esistere solo nella propria squallida quotidianità?
Poi si fece avanti Giampilieri Superiore e, additando tutto ciò che la circondava, sommersa da una pellicola di sussurri martirizzati... mi disse:
Nel cosmo appiccicato al divenire v’è forse salvezza? No! solo sirene e patacche incantesimi grulli cocci di visceri tiranni un paradiso che ha le stígmati l’orologio feroce che riduce le ore a un rantolo un mare di chiacchiere e di melmose felicità che ti offre un bicchiere di coltellate
e occhi infilzati nell’inguine di una zucca.
Esistono dei punti in cui sia vivo un punto? Sì! Esistono grappoli di morti che si crescono i capelli; esiste lo sgorgo di carie infitto nei raschi d’ossa e negli scrosci di spore effimere che strisciano sui passi di chi tace ed è inerme.
E tra gli inermi esiste il succo inerme di una giornata visibilmente uccisa.
E Giampilieri si dissolse.
Sentii, pian piano, salirmi alle narici un odore di carogna, che a mano a mano prendeva la forma di una stella caduta in un secchio d’acqua sporca. Più di quaranta corpi, incadaveriti, di uomini donne e bambini (da la frana seppelliti)... si raccolsero in un unico polmone... per lanciarmi addosso parole sofferte...
«Dove se ne andò la solidarietà umana? Perché, signori, non ci avete detto che l’acqua (per impastar la calce con cui avremmo dovuto costruire le nostre case) non andava raccolta dall’insulto di un’acqua stagnante, ma da una sorgente viva, lungi dagli approfittatori, e da chi vende falsi splendori che erogano maschere? Perché non ci avete detto che quei mattoni provenivano da fornaci di maiali e ruffiani? Noi, che volevamo una casa tra alberi immacolati, come avremmo potuto capire, da soli, che la costruzione delle nostra case l’avevamo, ignari, affidata a un siero di egoismi e di acchiappatutto… tetragoni?»
Non avevano ancora terminato il loro discorso... che mi raggiunse, con la velocità di un fulmine, facendosi spazio tra brago lotume melletta e pattiniccio, la frana. Rizzandosi da quell’ammasso di sfasciume alluvionato (fiore che si sia perso tra i serpenti), disse:
Di dove veniamo, chi siamo, cosa vogliamo?
Veniamo da arnie d’oscenità che hanno fatto arrapare gli ormoni androgenici e li hanno sbattuti negli ovuli… veniamo da cadaveri bugiardi che tra pidocchi sotterranei hanno leccato le vaccate di un’orda d’uccisi e pestilenze… veniamo dal tuorlo uterino delle spelonche deflorate ovvero dall’innervamento degli escrementi.
Chi siamo? Ora siamo cosce dai capezzoli occhiuti ora enzimi che ancheggiano spinti da rivoli di genitali siamo odio e abominio infingardi sotto cui pulsano medaglioni di poco vavole di millenni sprecati siamo bufali feticisti palazzinari incontinenti sordi embrioni missilistici prodezze di spermaceti fenditure masturbate dalle nuvole sgrondo di scarti e cianfrusaglie che getta orinatoi nel feto…
siam tutti in attesa dei vermi.
E ora diteci: vogliam forse che il trionfo delle ambizioni senz’anima imperversi… che l’estetismo vampiro di un ercúleo ingranaggio di volgarità venga sempre coreografato dall’incandescenza di un Moloch sanguinario… che l’orificio uretrale abbia dita storte… che i polpastrelli abbiano vescicole seminali segnate da orecchi senz’occhi… che la testa trasporti lo sfintere anale per non far trasalire di vergogna l’inconfondibile odore di una terraferma salvata da facce da culo?
La predilezione dell’individualismo è così tanto fruttuosa? Si!
È la fascinazione della crudeltà che genera personaggi grotteschi e vende omicidi sibillini
alla lúdica scimmia da ballo.
Poi, signori e signore, tutto si dileguò con la stessa velocità di un fulmine con cui quelle visioni mi apparvero all’improvviso. Udii... ascoltai con attenzione quei discorsi. Dico con attenzione... poiché non riuscivo a capacitarmi se quello era un sogno o realtà (come quelle surrealtà che subiamo dalla Tv quando a tavola ci ingozziamo di spaghetti). Percepii che qualcosa in me impose una bellezza sull’orlo della mostruosità. Quel tragico rito mi fu ingiunto come una violenza, narrata da un astuto tempo che ti scruta, passa e uccide.
Cara Giampilieri... la nostra esistenza è la faccia di una frana in cui si specchia l’irreprensibile glacialità di una luce impiccata?
Quale uso facciamo del lavorío delle nostre passioni, quando i nostri organi vitali vengono sperperati e la multiformità delle nostre sensazioni viene anestetizzata?
E allora... come introdurre in noi ciò che è al di fuori di noi... l’altro Uomo... l’altro Cosmo?
Anche le occasioni mancate sono necessarie al tuo (nostro) presente, sono qui per confermare l’interferenza vitale del tuo straziante dolore.
La tua vita è comunque, cara Giampilieri, una risorsa che talvolta ti incoraggia a esistere anche se ora dubiti della tua esistenza.
E ricomparve Giampilieri. Aveva con sé latte di capra da offrirmi e una luce albuminoide, ottenuta da un’equazione alquanto ineccepibile con la morte. Mi osservò in silenzio, per qualche istante. E, col piglio di un’acqua rappresa, disse:
E tu sàlvati, fratello! Sàlvati! da questi ganzerini insipidi. Quel perfidiare garabullare (ingannare) dissipare lascialo all’illustre regno dei pennacchi beatificanti. Di celestiale -in questi patrimonii beati- v’è solo l’alito ferroso dell’ammoniaca che tutto infiacchisce e fa cadere nell’ostilità de’ risucchi e delle escrescenze proliferanti.
Líberati! da questo iposolferoso lactobacillus uterino… pecunia e rozzume che insozziscono soprammessi alla girellina che sputacchia cinismi di gomma.
Sàlvati! da questa cupa modernità che corrode i sogni, sbrana le emozioni, sconfigge le passioni, opprime la naturalezza del blasfemo, vende schiavi e glorie di carta velina
e tutti crocifigge con una libertà stracciona e bugiarda.
Qua s’úngono scartoffie ammiccanti che cazzeggiano con briciole impietose d’insensato
e brillii flatulenti.
Mi risvegliai con un mal di testa guercio, come un uccellino posatosi su una speme dal dolzore gioioso di un ruscelletto gaio e pien di crine inargentato. Mi stropicciai gli occhi, mi strizzai le palle. E mi avviai verso la porta... per tuffarmi -come tutti i giorni- nella procellosa e trepida gioia d’un gran disegno esistenziale....
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L'opera "Acqua acuta e frana delicata fanno l'uomo fango" è stata scritta da Gaetano Delli Santi per il Museo del Fango e per la gente di Giampilieri alla quale l'autore l'ha donata. |