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angela manganaro 

A ccu appatteni, bedda?

 

1° ottobre 2009 spunta sulla carta geografica dell’Italia un punto scuro, nero come il fango. Prima non c’era e ora, dopo una giornata di acqua battente che mancu li cani, c’è. Prima non c’era niente tra Scaletta e Mili, solo un buco nero che inghiotte le vite, le rimastica e le sputa lontano, a Milano, a Torino, qualcuno a Bologna, molti in Germania. Tanti solo a Lentini, proprio dietro l’angolo. Non è in continente Lentini, è giusto a uno sputo, nella provincia di Siracusa, in una fossa dove d’estate si muore dal caldo. Lì d’inverno si lavorano le arance: si scartano - le piccole da una parte, le belle dall’altra per l’esportazione - poi si tirano a lucido come gli spagnoli non sanno fare e s’incartano nelle veline colorate. E, a fine luglio, proprio per la festa della madonna delle grazie, si torna a casa, finalmente si torna a Giampilieri. Questo c’era prima di quel 1° ottobre. Invece adesso c’è un punto e in quel punto s’è concentrata la rabbia della montagna.  Lei l’aveva detto che non ne poteva più e nessuno l’ha ascoltata. Lei lo sapeva che i suoi fianchi non avrebbero retto oltre. Inseminatemi, aveva pregato ogni giorno gli uomini del villaggio, ma gli uomini sono sordi quando si perdono nel tubo catodico anziché smarrirsi tra Centurione e Venere. Il cielo, si sa, oggi non lo guarda più nessuno, non fa promozione, il cielo, niente tre per due questa settimana, solo immensa volta celeste, niente di eccezionale. Nessuna storia di trans né di minorenni in cerca di un posto in parlamento. Niente di niente.

Conservate la vostra rabbia perché domani vi servirà. Piegate con cura i vostri ricordi a fisarmonica e poi ficcateli nella tasca destra del cappotto buono perché domani saranno i soli disposti a farvi compagnia. Lustrate le vostre pentole perché saranno le sole capaci di accogliere il cibo giusto per la vostra desolazione. Arance amare condite con l’aceto. Ma loro che ne sanno di come si mangia la salsiccia? Loro sono del nord. Sono del nord anche se stanno a Napoli. Fuori dall’isola è quasi impossibile non essere del nord. Solo la Calabria è ancora sud. Solo lei conosce il disordine del cuore, la solitudine asserragliata nelle vene che battono forte sotto la pelle. Gli altri, tutti gli altri, sono pelle straniera, non sono né sì né no, al massimo sono “ni” e mi puoi toccare solo con la canna. Invece il sud è fatto di tanti Giovanni Buffo, Nicola Caca oro, Paolo Pudduzzo. Non ci sono signori Rossi e cummenda Brambilla c’è Nicola Facci cacata e  Giuvanni Gano, ci sono i Toro e i Bissati. E poi c’è  Rita Sanghigna e Ninu Causi i catta, Mimma Cappellana e  Paulu Tistazza, Giuanninu Bammara e Paolu Ghericuper, Savina e Paolo Billiuolli, Turi Caca sangu e Santa Mammamia, Pippino Funciazza e Giuvanni Babbalou, Mimmo Malutempu e ‘Ntunietta Trecuticchi, Eugenia Culustottu e Mimmu Malutempu, Pietro Giacca i ferro e suo figlio Taninu Gileccu i ferro, Felici Giacobbe e Turi Mafia, Giovanni Cavadditto e Michele Papagnu, Maria Baffa e Turi Pastureddi, Angelina Pituni e Nino Pinna,  Turi Cane morto e Maria Pallini, Paolo Calamaru i Lipari e Razio Bruciaferro,  Giuvanni Pitricchia e Cicciu u Cunnutu, Maria a Unchia e Giuvannino Mai netto, Ianciulu Babbetto e Santu Babbilova, Turi ‘Ncinni e Cicciu u Poccu, Ina a morte e Pippu Pubbirazzu, Ina Cavalera e Petru Mannaru, Lina Babbetta e Maria Baggiana, Salvucciu Pitroliu e Marcello Ministru, Cicciu u Baffu e Ninui Pinnaredda, e Turi Cuddittu, Marcellu Ministru. E una volta, dieci anni, fa anche Giovanni Jekity.

Soprannomi? Nonsi. La ‘nciuria nasce da gente che legge il destino di altra gente con la mano destra poggiata sul cuore, nasce dalla storia e parla di futuro sottocoperta. Non è un’etichetta attaccata al polso del nascituro ma una targa d’oro appesa all’uscio di famiglia. Perché la “nciuria” non è solo di chi se l’è personalmente “guadagnata” ma è appartenenza, familiarità. È dna. È un marchio incancellabile di storia collettiva, contiene irrisione, affetto, possesso, tenerezza e crudeltà mischiate insieme a seconda del caso, qualche volta della necessità. Contiene pane e amore, lacrime e rabbia. Contiene la vita. Vita mono tona, qualche volta sgangherata, a  tratti violenta, spesso solo poco elegante come una scena di Ciprì e Maresco. Vita inabissata in un mare di fango in una sera d’autunno davvero tanto incazzata, e bagnata, molto bagnata. Ci sono giorni in cui anche l’acqua si fa nemica. Come quel 1° ottobre di acqua a scatafascio che scendeva senza una pausa che fosse una. Mai visto tanto ben di dio d’acqua non cercata. Che se ne fa la terra di tanta acqua tutta in un sera? Che se ne fanno gli uomini di tutto quel fango che da un momento all’altro si sono trovati addosso? Forse qualcuno l’avrà pensato ch’era meglio scomparire che morire di noia per tutta la vita. Forse qualcuno ci ha pensato ma solo un momento e poi più. Adesso molti di loro hanno le orecchie piene di fango, qualcuno anche la bocca, ed è muto dal quel 1° ottobre. Ma tutti, proprio tutti, il fango ce l’hanno negli occhi, donne e bambini, vecchi e ragazzi, uomini e nani il fango ce l’hanno dentro gli occhi e nel cuore. Impastato di notte nera come la pece e di un boato sordo, che si mischia a quello dei tuoni, che arriva di soppiatto e si fa riconoscere all’ultimo momento, solo quando ormai è troppo tardi.

Matri chi niru tutt’asseme. La montagna si mette a rollare e piove acqua e fango e i muri battono i denti. E la mattinata passata al mare a fare il bagno sembra lontana mille secoli. Ma dove siamo, signoriddio, e cosa è successo tutto d’un botto? Fuori si sentono boati e colpi terribili alle porte e sembra che il diavolo in persona stia scardinando le finestre. Sta finendo, ora finisce, pensa qualcuno. Ma non finisce se non trascinando con sé terra fango morti pezzi di vita giocattoli bambini. Tutto insieme in un impasto inscindibile dove è impossibile distinguere il cuore delle cose dall’apparenza del disastro. Ed è tutto buio in un attimo. Non c’è luce nelle case, come sempre al primo tuono si levano la luce, e non c’è luce nemmeno per le strade ma si sentono i cani ululare e i bambini piangere e i vecchi morire di paura, in silenzio. Un lungo interminabile silenzio che si è incastrato tra le rughe dure di quelle facce secche che, da  bambina, quando m’incontravano per strada, sudata e sporca di cadute tra un nascondino e l’altro, mi guardavano dritto negli occhi e mi chiedevano “A cu appatteni, bedda?” E io che già conoscevo i codici della mia comunità, non esitavo a farmi riconoscere: “Sugnu a niputi di Ianciula Bammara”. La mia carta d’identità acquisiva d’un fiat il timbro d’appartenenza al paese. Mai mi sarebbe venuto in mente di dire che ero la figlia di Nino Manganaro, quella semmai era una conseguenza genetica. Ma tanto anche mio padre era figlio di Ianciula Bammara, anche per mio padre, suo padre veniva dopo Ianciula Bammara. Chissà cosa avrebbe fatto quel piccolo uomo di mio padre se si fosse trovato in mezzo al questo castigo di dio, lui che sapeva quanto era fragile la montagna verso il Puntale: “Non ti azzardare a portare i tuoi fratelli là sopra che ti ammazzo” - mi diceva a denti stretti quando mi sapeva a giocare per il paese - “i picciriddi hann’a stari sempre appresso a ‘ttia”.  Sì papà.

Ci ho provato a tenermeli sempre appresso ma non ci sono riuscita, non tutti almeno, ma questo lui lo sa già. Allora sì, allora eravamo i niputi di Ianciula Bammara, tosti comu a so’ patri, che correvano per i vicoli e giocavano a zippuli fino a quando le strade del paese si riempivano dei rumori delle case vestite a sera: la sigla del telegiornale che scappava da sotto la porta, il rumore dei piatti che si urtavano per stare tutti su un tavolo troppo piccolo, l’acqua del bagno che scrosciava a vuoto senza riuscire a fare il suo dovere: “lavatibi i manu e ‘ssittatibi”. Già ma come facevi a far venire via la terra dalle mani che avevano toccato di tutto in ogni pomeriggio che dio mandava sulla terra? Muri scrostati, pezzi di porta che trovavi per strada, e le buche che scavavamo per giocare a zippule, e le gare “a cu ‘rriva prima”. E tutto gridando, saltando, chiamando a squarciagola, non c’erano pause in quell’onda sonora che accompagnava i nostri pomeriggi, all’uscita della scuola.

Ora solo il silenzio s’incastra tra le costole dei vivi e il respiro troncato dei morti. Un silenzio acre senza un filo di colore, solo variazioni di grigio che riempie i buchi della memoria più testarda. Silenzio e odori del passato che s’infilano nelle orecchie meno sorde e là fanno casa, lontano dalla sicumera di quelli che sanno cosa fare sempre. Io  non lo so cosa fare, non so come ricacciare indietro gli odori del mio passato aggrappati ai vicoli in cui da ragazzina giocavo a nascondino. Conto, affondo la testa nel braccio appoggiato al muro e conto, e quando conto da Giampilieri parte un’onda sonora di spiattamenti, e scrosci di chiamate che la uniscono a Molino e poi su ad Altolia, e giù a Briga, e ancora piegano verso Scaletta Marina e Guidomandri, Scaletta Superiore e Itala:

 

trentotto (Simone Neri)

trentasette (Giuseppa Calogero)

trentasei (Alessandro Sturiale)

trentacinque (Carmelo Ricciardello)

trentaquattro (Ilaria Calogero)

trentatrè (Luigi Costa)

trentadue (Maria Li Causi)

trentuno (Orazio Sturiale)

trenta (Maria Restuccia)

ventinove (Salvatore Zagami)

ventotto (Maria Letizia Scionti)

ventisette (il piccolo Francesco Lonia)

ventisei (il piccolo Lorenzo Lonia)

venticinque (Agnese Falgitano)

ventiquattro (Onofrio Sturiale)

ventitre (Letterio Maugeri)

ventidue (Elena De Luca)

ventuno (Pasquale Bruno)

venti (Letterio Laganà)

diciannove (Teresa Macina)

diciotto (la piccola Ilaria De Luca)

diciassette (Francesco De Luca)

sedici(Carmela Oliveri)

quindici (Roberto Carullo)

quattordici (Katia Panarello)

tredici (Monica Balascuja)

dodici (Martino Scibilia)

undici (Concetta Cannistraci)

dieci (Salvatore Scionti)

nove (Giuseppe Tonante)

otto (Franca Micali)

sette (Santina Porcino)

sei (Bartolo Sciliberto)

cinque (Carmelina Maria Barbera)

quattro (Leo Pituni Maugeri)

tre (Cristian Pituni Maugeri)

due (Ketty De Francesco)

uno (Santino Bellomo)

 

... a ‘ccu vidu vidu...

   

Siciliana d’origine, dopo la laurea in Scienze Politiche, si trasferisce a Milano dove tuttora vive.

Ha curato la presentazione in catalogo di alcuni artisti, allestito mostre, recensito raccolte di poesie e libri d'arte. Collabora con alcune riviste.

Ha pubblicato un romanzo  e numerosi racconti. Ha tradotto alcune raccolte di poesie dallo spagnolo.

Nell’88 e ’89  cura il settore letterario dei festival delle Arti INFESTA (ediz. 1988 e 1989) e KALÓ NERÓ (ediz. dal 1995 al ’99) entrambi diretti da Michele Cannaò.

È ideatrice e curatrice di due premi letterari: "FreeBook Giovani" del 1990, riservato ai detenuti delle carceri italiane, e  nel 1996-97 il “Premio Zanclea” riservato alle Piccole Case Editrici Italiane.

Nel 1991 fonda, insieme a Michele Cannaò, lo Studio La Credenza di Milano.

Nel  1993 cura “Fiumi d’inchiostro”, mostra letteraria di piccoli editori allo Studio La Credenza di Milano.

Giornalista, ha curato l’Ufficio Stampa di alcuni Festival  e di diversi convegni. Ha diretto alcune riviste: “FreeBook “ (1987- 1991); la rivista  interdisciplinare delle arti “ArteNet” (1991-1994); il  giornale parlante “Atuxtu” (1996-1997).

Ha ideato e realizzato siti web d’arte e letteratura.

Dal 2002 cura l’editing dei testi di psicoanalisi editi da Franco Angeli.

 

 

Contatti:

angela.manganaro@yahoo.it

http://utenti.lycos.it/ipertestuale