Primo Levi

Primo Levi, scrittore e poeta italiano, nacque a Torino nel 1919, studiò chimica all'università di Torino dal 1939 al 1941 e successivamente, mentre lavorava come ricercatore chimico a Milano, decise di unirsi ad un gruppo di resistenza ebraica che si formò in seguito all'intervento tedesco nel nord d'Italia nel 1943. Per questo motivo fu catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943 e fu condotto prima in un campo d'internamento a Fossoli, poi nel campo di sterminio (Lager) nazista di Monòwitz, vicino Auschwitz, insieme con altri 650 ebrei, egli sopravvisse perché impiegato in attività di laboratorio.

Furono proprio le attività di laboratorio che aumentarono le sue possibilità di non ammalarsi gravemente, di salvarsi dai congelamenti, poiché i laboratori erano riscaldati, e di superare le selezioni. Nel 1987, Levi si tolse la vita forse a causa delle negative conseguenze psicologiche apportategli dall'esperienza del Lager.

Tra i suoi numerosi libri i più importanti sono: "La tregua", che descrive il lungo viaggio verso casa attraverso la Polonia e la Russia dei sopravvissuti ai campi di sterminio, e "Se non ora, quando?" in cui riprende il tema della guerra e dell'ebraismo.

La poesia "Se questo è un uomo" è tratta dall’omonimo libro nel quale Primo Levi racconta delle condizioni di vita dei deportati ad Auschwitz. Egli nel libro riporta testimonianze obiettive, infatti scrive con un linguaggio pacato di un testimone del campo di sterminio, non con quello lamentevole di una vittima.

I campi di sterminio, detti anche Lager, furono istituiti a partire dal 1942. In essi venivano rinchiusi ebrei vittime di deportazioni sistematiche, eseguite per attuare la "soluzione finale" che ebbe come scopo l'annientamento delle "razze inferiori".

I prigionieri erano costretti ai lavori forzati e coloro che non resistevano venivano uccisi. Alcuni vennero addirittura impiegati come cavie in esperimenti scientifici e medici. Qui morirono con i gas oppure per fame e malattie circa 11 milioni di persone, di cui più di sei milioni di ebrei.

Questa mappa mostra la presenza di moltissimi campi di sterminio nel cuore dell'Europa. Come dice Primo Levi "non c'era un tedesco che non sapesse dell'esistenza dei campi; erano pochi i tedeschi che non avessero un parente o un conoscente in campo" ma molti di loro non sapevano perché volevano "non sapere" ed erano convinti che, chiudendo gli occhi, le orecchie e la bocca all'orrore che li circondava, non fossero complici di quanto avveniva davanti alle loro porte.

Tra i campi riportati sulla mappa non è evidenziato il campo di Mònowitz, dove fu deportato Primo Levi, perché esso era uno dei quaranta campi dipendenti da quello di Auschwitz, che era la capitale amministrativa del complesso. Tra questi il campo di Mònowitz era uno dei più grandi (conteneva circa dodicimila prigionieri) ed era situato a sette Km da Auschwitz.

I versi della poesia "Se questo è un uomo” sono alcuni tra i più belli e significativi che abbia scritto Primo Levi, e proprio con questi versi si apre il suo libro "Se questo è un uomo". Questo libro è una testimonianza sconvolgente sull'inferno del Lager, è un libro sulla dignità e sullo stato di degradazione dell'uomo di fronte agli spietati meccanismi dello sterminio di massa.

Il libro descrive il trasporto delle vittime nei campi, le  loro condizioni di vita, e la struttura dei campi, in particolare di quello dove fu deportato Primo Levi.

Primo Levi fu catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943 e fu mandato prima a Fossoli, presso Modena, in un campo d'internamento; poi il mattino del 21 febbraio 1944 insieme agli altri ebrei del campo, che erano circa seicentocinquanta, venne trasportato ad Aushwitz.  Il trasporto delle vittime avvenne in treno, in vagoni merci sprovvisti di tutto, persino di prese d'aria. Il treno viaggiava lentamente verso la destinazione e molti deportati morirono lungo il tragitto, il loro punto d'arrivo era Monowitz, un campo vicino Auschwitz.

Arrivati al campo venne fatta una prima selezione, secondo la quale, i bambini, i vecchi e gli inabili al lavoro vennero condotti direttamente nelle camere a gas; gli altri, invece, furono portati in stanze poco riscaldate dove vennero spogliati, rasati e portati a fare la doccia, dopo di che vennero loro consegnate le uniformi da lavoro. Così dei seicentocinquanta deportati solo centoventi superarono la prima selezione, i rimanenti furono uccisi.

In seguito, quelli rimasti in vita, dopo esser stati battezzati con un nuovo nome, cioè un numero tatuato sul braccio sinistro, erano pronti per lavorare; il lavoro consisteva o nel trasportare blocchi di cemento da ottanta Kg l'uno dai treni alle fabbriche, o nel produrre gomma che serviva alle riparazioni sia delle attrezzature da guerra sia del campo stesso. Si lavorava d'estate e d'inverno, con il sole o con la neve sempre vestiti con una camicia e un pantalone.

Il campo di Monowitz era uno dei lager più grandi che poteva contenere fino a quattordicimila prigionieri. Questo lager era un "quadrato" di seicento metri di lato formato da sessanta baracche in legno e da una gran piazza centrale, detta piazza dell'Appello, dove i prigionieri si riunivano il mattino per formare i gruppi di lavoro e la  sera per contarsi, il tutto era delimitato da due reticolati di filo spinato percorso da corrente ad alta tensione. Le baracche, chiamate Blocks, erano le abitazioni dei prigionieri e dei capi baracca ed erano divise in due locali: il primo locale, dove viveva il capo-baracca, era un mini appartamento di lusso; il secondo invece, dove c'erano i prigionieri, era un dormitorio con centocinquanta cuccette (fatte con tavole di legno) a tre piani divise da tre corridoi, nelle quali dormivano duecentocinquanta persone, quasi due per ogni cuccetta.

I prigionieri erano divisi in tre categorie: gli ebrei, i politici e i criminali, i quali comandavano sulle altre due categorie; essi si distinguevano dal segno che portavano tatuato sul braccio, infatti, i criminali portavano tatuato un triangolo verde, i politici uno rosso e gli ebrei la stella ebraica.

 Otto di quelle baracche costituivano l'infermeria, qui in un periodo che va da due settimane a due mesi i prigionieri erano tenuti a guarire o a morire, infatti chi tendeva alla guarigione veniva curato, chi, invece, tendeva ad aggravarsi veniva mandato alle camere a gas. La vita nell'infermeria Levi la definiva un "limbo", qui i disagi materiali erano pochi, a parte la fame e la sofferenze dovute alle malattie, non faceva freddo e non si lavorava, per di più il pranzo e la cena venivano distribuiti nel letto.

Nel lager la lotta per sopravvivere era senza remissione perché ognuno è "disperatamente ferocemente solo", qui l'uomo è solo a lottare per la sua vita e su di lui regna una legge feroce la quale afferma: "A chi ha, sarà dato; a chi non ha sarà tolto". Infatti con gli individui più forti i capi mantengono volentieri i contatti perché sperano di poterne trarre qualche utilità, mentre con quelli più deboli, che come afferma l'autore sono i mussulmani, non vale la pena di rivolger loro la parola e di farseli amici. La vita nel lager è un inferno, è una guerra giornaliera contro la fatica, la fame e il freddo; per cercare di sopravvivere e di sfuggire alle selezioni il più a lungo possibile c'erano tre vie: l'organizzazione, la pietà e il furto; chi non metteva in pratica questi metodi ma soccombeva semplicemente, cioè chi eseguiva tutti gli ordini che si ricevevano, chi mangiava solo la razione che gli veniva data o si atteneva alla disciplina del lavoro e del campo non rimaneva in vita più di tre mesi.

Tuttavia nonostante le terribili condizioni di vita del lager i tentativi di fuga erano rarissimi perché erano difficili e molto pericolosi dato che i prigionieri erano indeboliti dalla fame e dai maltrattamenti, demoralizzati, e facilmente riconoscibili dai loro abiti a strisce.

Inoltre per reprimere i tentativi di fuga si adottavano durissime contromisure, infatti chi veniva ripreso veniva impiccato pubblicamente nella piazza dell'Appello; quando veniva scoperta una fuga gli amici dell'evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, talvolta venivano arrestati e deportati nel lager anche i genitori del colpevole. Per questi motivi i prigionieri che tentarono la fuga furono poche centinaia e quelli a cui la fuga riuscì una decina. Quelli che riuscirono ad evadere furono solo alcuni prigionieri polacchi che abitavano poco lontano dal lager.

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