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Wittgenstein
Un altro Wittgenstein, dallo Steinhof
Dario Smizer

Proviamo a cambiare prospettiva. Proviamo cioè a leggere Wittgenstein non come l'apripista dell'empirismo logico, ma come il primo vero filosofo del Novecento. Il primo che riesca a portare alle estreme conseguenze un pensiero che muova dalla logica e dalle esperienze sensibili e da nient'altro. Lasciamoci alle spalle anche Mach e Russell. Mach, tra l'altro, non era un autore apprezzato da Wittgenstein. E guardiamo, piuttosto, a Frege, come Cacciari cominciò a mostrare. In primo luogo: Frege ispira il Tractatus in modo molto più organico di Russell. Per Russell la logica ha sempre contenuto ontologico. Cioè, parla di oggetti esistenti. Denota. Per Frege, le descrizioni hanno significato anche quando non denotano. «Né la notazione di 'oggetto' è riducibile a 'direttamente denotabile', né disponiamo di nomi in corrispondenza univoca con singole cose: non esiste per una sola cosa un solo nome. Il linguaggio naturale appare perciò a Frege, come nel Wittgenstein che riscopre la problematicità intrinseca del Tractatus, mai perfettamente logicizzabile.» (1)
Frege, secondo Cacciari, abbandona l'idea di una essenziale logicità del linguaggio. Sarebbe irrazionalismo «confidare in tale idea e ripeterne all'infinito il fallimento». Occorre cogliere il «potere nuovo che conferisce alla Ratio, alla sua Logica, proprio l'abbandonarla.» Gli esseri umani sono dotati di fantasia. Rinunciando all'annichilimento della fantasia, la Logica si limita «alla definizione rigorosa-restrittiva del senso forte del conoscere: conoscere le leggi dell'essere vero, in quanto realtà indipendente dal nostro riconoscerla, che modifica il soggetto allorché è riconosciuta, ma che non è il soggetto, in nessun modo, a pro-durre».

Ora, la questione si potrebbe presentare così: se le proposizioni non riescono a saturare l'estensione di 'vero', nel modo ordinario in cui il termine è impiegato, e, mi permetto di aggiungere, di cui generalmente si abusa, si dovrebbe concludere solo che il senso di un enunciato va delimitato rapportandolo ad un concetto di proposizione a sua volta delimitato. Ovvero, il senso di un enunciato non si ricava dai suoi possibili contesti di occorrenza. Ancora Cacciari docet: «Al di sopra della 'fantasia polimorfica dei linguaggi naturali, si libra ancora il 'terzo mondo' di un contesto di giustificazione per l'enunciato stesso, assoluto dallo status delle conoscenze e dalla lingua del parlante. Qui sta forse il nesso più significativo tra Frege e Husserl. Ma non sembra che in Frege, come invece per Husserl, la stessa indeterminatezza semantica del linguaggio naturale venga assunta come condizione della sua apertura, della sua carica intenzionale - che proprio la 'miseria' (rispetto alla precisione logica dei linguaggi formalizzati) del linguaggio naturale stia alla base del suo potere intenzionante, della sua capacità di svilupparsi-arricchirsi, determinando costantemente nuovi modi di riferimento al reale.»

Proviamo a spiegarci. In tale "realismo" non vi è contraddizione con l'intenzionalità del soggetto, indeterminabile a priori. Il linguaggio non è qualcosa che si possa inventare liberamente. Possiamo trovarci uno stile, certo, ma non possiamo prescindere né dalla storia della lingua, né dalla sua evoluzione. Altrimenti saremmo impotenti a comunicare. Frege rinunciava così a conciliare linguaggio formale e il linguaggio in cui incorriamo «contro la nostra volontà nella poesia.» Ma questa rinuncia - dice Cacciari - corre sul filo del paradosso. «Nella indeterminatezza semantica del linguaggio naturale (e la filosofia si costruisce per Husserl, classicamente, su e nel linguaggio naturale) appaiono incarnati modi ideali di riferimento al reale, i quali, insieme e proprio grazie all'apertura costitutiva del linguaggio naturale stesso, variano storicamente. Tale variabilità - prosegue Cacciari - è limitata dallo status complessivo del sapere e dalle forme della sua espressione.» In altre parole: in Husserl rimane il problema della fondazione, ma si trasforma in quello di limite reciproco che, storicamente, varianza e invarianza producono nelle grammatiche filosofiche e scientifiche. A Cacciari appare paradossale il rovesciamento della miseria del linguaggio nel potere della sua intenzionalità. Anche se il linguaggio naturale non parla di semplici cose, e vada ben oltre il denotare russelliano, in ciò non è implicato un produrre modi ideali di riferimento al reale. Intenzionalità vuol dire che il significato non è astraibile dall'intenzione del soggetto che parla o scrive o gesticola. Il referente, pertanto, si costituisce nel linguaggio.

Cacciari pone qui una domanda cruciale. Se, per Frege, concipere non significa produrre un pensiero che prima non esisteva, ma scoprire e prendere un pensiero che c'è già, perché è proprio come la luna che non cessa di esistere se non la guardiamo, dobbiamo prendere atto, allora, che questo modo di riferimento ideale alla realtà non può essere prodotto dall'intenzione? «Quale schematismo è possibile dedurre tra la miseria-indeterminatezza del linguaggio, di questo linguaggio che l'intentio apre e trasforma continuamente, e l'indipendenza-inalterabilità del mondo del pensiero da parte del soggetto pensante? Come possono le forme di teoria, che afferrano il pensiero che già c'è determinare gli "ambiti di variazione dei concetti"...?»

Occorre abbandonare questa strada: di ciò è consapevole Wittgenstein. Egli vede che si tratta di cogliere insieme le regole del gioco sia la possibilità di trasformarle. «Per quanto il gioco rimanga saldamente orientato dalle sue tradizioni e non dilegui mai in invenzione-traformazione soltanto, i suoi limiti non sono decidibili secondo modalità ideali, a meno di non intenderle in senso estremamente debole, spogliandole di ogni carico teleologico e non assumendone sul serio l'impegno fondazionale.»
Allora, abbiamo che nel Tractatus il discorso logico non vuole più corrispondere a obiettivi di logicizzazione del linguaggio naturale e nemmeno eleva pretese di fondazione delle grammatiche scientifiche. Ciò che rende diverso il linguaggio scientifico è il suo tentativo di rendere una immagine non-immaginaria, fedele, del mondo. E' un tentativo che non rimanda ad alcuna pretesa di fondazione logica. Può reggere se e solo se la proposizione scientifica è denotativa e, per dirla con Quine, non parla di Pegaso, o della cupola sferico-quadrangolare dell'università di Berkeley, ma denota oggetti esistenti. Come rilevava M. Rosso, «il mondo è il risultato di una scelta operata dal caso nell'ambito di tutto il possibile.» (2) Questo è il senso della prima proposizione del Tractatus, e non si può cominciare diversamente, perché la scienza esprime solo ciò che è contingente-casuale. Se è così, non sarà allora contingente lo stesso significato? E' su questa domanda che ruota e si arresta l'intero marchingegno del Tractatus. «Wittgenstein - scrive Cacciari - intende sottrarre la proposizione scientifica alla contingenza radicale del suo oggetto. Egli trova sbarrata, interrotta la strada logico-fondazionale; ne tenta una ontologica: vi è una sostanza del mondo, non ulteriormente decomponibile, di cui ogni proposizione è funzione. Il mondo è una configurazione accidentale - ma di oggetti semplici non accidentali. Le immagini della scienza non contengono perciò soltanto l'accidentalità della configurazione, ma anche la sostanzialità degli oggetti o delle entità semplici che stanno alla base della configurazione. La teoria della raffigurazione o del significato, propria del Tractatus, fa della Begründung una questione ontologica.» (3) Ma, è proprio la radicalità con cui viene affermata la necessità di una fondazione ontologica che condanna il Tractatus al fallimento. Infatti, per realizzarsi la Begründung, occorrerebbe fosse possibile una riduzione dei nomi non alle cose che ci stanno di fronte, bensì ad oggetti semplici che nonsono dati. Per questo anche il più semplice atomo di linguaggio risulterà troppo complesso e contingente rispetto alle pretese di fondazione ontologica. Ne vengono due impossibilità: non si può descrivere l'oggetto semplice, ci è è precluso descrivere la totalità del mondo. Tutto ciò che possiamo fare con il linguaggio è denotare situazioni oppure costruire tautologie, cioè proposizioni logiche. E' una sorta di prigione, un muro invalicabile ed è solo all'interno di questo perimetro che si può esprimere qualcosa di "sensato".

Il Tractatus fallisce perché l'intenzione non esaurisce l'intenzionato, e neppure «contiene simboli di relazione diretta con esso.» (4) A differenza degli esiti positivistici di Carnap e soci, che si acquietano nella riduzione del significato al dato semplicemente dato, l'intenzione wittgensteiniana si prefigge di scavalcare un ostacolo; purtroppo senza prendere un'adeguata rincorsa e senza l'ausilio di un qualche propulsore capace di maggiorare la prestazione.
Cacciari osserva che la problematicità della fondazione ontologica si svelerà esplicitamente nelle Osservazioni filosofiche, ma è implicita nel Tractatus.
Anche in questo modo, possiamo così constatare come «il Mistico non costituisca una equivoca atmosfera del Tractatus, ma la sua conclusione necessaria.» Il Mistico «descrive il limite del senso delle proposizioni che si sono succedute, ne è, anzi, legge immanente: prescrive a esse regole, divieti, condizioni di operatività. Il Mistico indica come il mondo possa semplicemente mostrarsi.» (5) E in uno scritto del 1931, contenuto nelle Osservazioni filosofiche, Wittgenstein scriverà: «L'inesprimibile (ciò che mi appare come misterioso, e che non sono in grado di esprimere) procura forse lo sfondo sul quale ciò che io ho potuto esprimere acquista significato.» Non è esattamente quello che dice Cacciari, il quale vede nel Mistico una legge immanente che contiene regole e divieti. In questo senso, anche affermare che esiste un inesprimibile sarebbe Mistico. Cacciari prova a spiegarsi così: «Nei termini delle Osservazioni filosofiche potremmo dire che inesprimibile è divenuta la possibilità di 'liberare' la proposizione dalla contingenza, di riallacciare il segno al mondo, di fondare ontologicamente il rapporto tra intentio e intenzionato. Il problema dell'inesprimibile inizia quell'opera di dissoluzione della Begründung nella analisi dei limiti costitutivi del linguaggio, e delle certezze in essi raggiungibili, che si compirà nelle Ricerche filosofiche e, soprattutto, in Über Gewissheit. Il fondamento è convenzione. Essenziale è l'inesorabile costrittività delle regole che non possiamo logicamente rifiutare (Franck). Non soltanto quello del formalismo logico-matematico è un gioco "inesorabile". Essere certi è "appartenere a una comunità che è tenuta insieme dalla scienza e dalla educazione". (6) Questa certezza non ha però implicazioni psicologistiche o sociologistiche; essa è costruita nel sapere accumulato nel linguaggio, in un linguaggio che è naturale, intrinsecamente storico. "Certezza non è sinonimo di un atteggiamento 'spirituale', ma l'articolazione di una procedura grammaticale" (Wittgenstein); il 'primo' non è l'Ego cogito, ma la massa dei cogitata storicamente trasmessici e che noi sappiamo giocare e rigiocare. In questi cogitata si indirizza , si decide, si trasforma. Essi definiscono i limiti di variabilità delle loro grammatiche. L'operatività del nostro discorso ha a condizione il dato di questi giochi giocati, la situazione che essi hanno determinato.» (7) Sono più o meno le stesse cose che ha cercato di evidenziare Fabio Ferrari nella prima parte del suo saggio sul soggetto in Wittgenstein. (8)

Il Wittgenstein che volge le spalle alla filosofia dell'atomismo logico muta il rapporto tra 'fatti' e 'proposizioni', ma non vien meno alla convinzione che ogni proposizione sull'esser così siano equivalenti. Ciò che rende il mondo non-casuale non si può trovare nel mondo, ma fuori di esso. Se fosse vero il contrario, saremmo nel paradosso perchè troveremmo che sarebbe casuale anche il trovare il senso del mondo. Dalla casualità del mondo non si arriva al Bonum, ma solo a nuove configurazioni di crisi; sarebbe un fare violenza al linguaggio pretendere di estrarre il Bonum dal mondo. Un mondo che può raffigurare solo con proposizioni neutre ed equivalenti.

La posizione che Wittgenstein viene ad assumere, così, secondo Cacciari, si configura come nettamente caratterizzata dall'opposizione al Moderno e dalla consapevolezza dell'impossibilità del Tragico. Il libro scritto per gli amici dispersi in ogni angolo del mondo "con amicizia", evidenzia l'opposizione al Moderno come costruzione che rimuove qualcosa di essenziale, cioè il lato distruttivo della dialettica, il Logos come negazione della ragione calcolante. La Zivilisation positivistica e mondana è possibile solo al prezzo di una rimozione radicale del negativo del pensiero. Il progresso è la parola-chiave in grado di descrivere l'entusiasmo del neopositivista per le conquiste della Zivilisation, la quale è forza e forma costruttiva sempre più complessa. Ma Wittgenstein non prova alcuna simpatia per tale entusiasmo, per tale passione per il màthema pro-duttivo. Non pretende di chiamare alla diaspora per sfuggire ad un'irrazionale credenza nel razionale, ma in quanto estraneo alla pro-duttività. Secondo Cacciari, «Il fondamento di questa costruttività è quello stesso dell'originario "intento distruttivo" del Logos, la cui dialettica può dimostrare che ogni oggertto sensibile o astratto, che si esprime in un giudizio, può essere provato essere o non essere a un tempo, possibile e impossibile. Questo fondamento torna ad essere problema in Wittgenstein, ed al suo ritorno incessante, la sua continua riconsiderazione ciò che viene opposto all'epos della Ratio typisch aufbauend. Nessun Progresso risolve tale nodo.» (9)
Fin dall'antichità, la dialettica ha perso la sua apparenza gioconda con Zenone, mostrando piuttosto il suo lato terriibile. Negare questo aspetto, significa rimuovere, e la Ratio si regge su tale rimozione, che sola consente la pro-duttività e l'Aufbau.
Per guarire dalla malattia, occorre diventare 'matti tenendo la testa a posto'. Solo questa capacità di gettare lo sguardo obliquamente consente una nuova chiarezza in grado di rendere trasparente il fondamento del costruire.
Quanto all'impossibilità del tragico, si tratta di comprendere che la forma della tragedia è diventata impossibile in un modo dominato da categorie ebraiche e cristiane. E' lo stesso Dio ebraico a negarne l'impossibilità teorica. Privato della figura e dell'immaginazione, l'ebreo è costretto a porre sul Nulla la sua 'cosa'. Tale situazione produce così un duplice movimento. Da un lato viene inibita la produttività, ma viene così stimolato l'approccio critico alla produzione degli altri. L'ebreo contemporaneo è analisi e riflessione: Wittgenstein si riscopre ebreo scavando nella condizione di potenza-impotenza che deriva dal divieto di produrre una metafisica di immagini. Ma, anche guardando al superamento cristiano, si scorge non una guarigione, ma un proseguimento della malattia. Malattia, il cui decorso si scontra con il dogmatismo pretenzioso di costruire a sua volta la Fede su una certezza mondana anziché sull'Indicibile. Ma è proprio la Fede che rende difficile sintesi e compromessi con il mondo. La metànoia, cioè la conversione al cristianesimo, non è razionale, né incontra la razionalità. Wittgenstein arriva ad impiegare Kierkegaard contro Paolo per evidenziare che il dogmatismo delle certezze mondane nasce con Paolo, il quale giudicò il mondo secondo valori. Non era questa la via per la metànoia proposta dai Vangeli.


(1) M. Cacciari - Dallo Steinhof - Adelphi / seconda edizione 2005
(2) M. Rosso - Introduzione a L. Wittgenstein, Torino 1976 / testo citato da Cacciari, il sottoscritto non lo ha letto.
(3) Cacciari, cit.
(4) Cacciari, cit.
(5) Cacciari, cit.
(6) L. Wittgenstein - Della certezza - Einaudi 1978
(7) Cacciari, cit.
(8) M. Ferrari -
(9) Cacciari, cit.
DS - 13 febbraio 2007