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Il problema del soggetto dal I Wittgenstein al II
di Fabio Ferrari
T 6.52 Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
T 6.521 La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.
T 6.522 V'è davvero dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.
T 6.41 Il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore, né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v'è, dev'essere fuori d'ogni avvenire ed essere-così


Esporre Wittgenstein con semplicità non è semplice. Non già perché il suo pensiero sia complicato, bensì perché è complicata la filosofia. E perché è così?
Nelle Osservazioni filosofiche egli diede la seguente spiegazione, che è poi il nocciolo di tutto il pensiero di Wittgenstein: «La filosofia scioglie quei nodi del pensiero che noi stessi abbiamo intrecciato procedendo per non-sensi; ma, per riuscirvi, deve compiere movimenti altrettanto complicati quanto lo sono quei nodi. Perciò anche se il risultato della filosofia è semplice, non lo può essere il metodo per conseguirlo. La complessità della filosofia non è quella della sua materia, ma quella del nostro intelletto ingarbugliato.» (1)
Si capisce così perché Wittgenstein continuò a considerare la filosofia come un'attività e non come una teoria. Attività di chiarificazione del linguaggio, mirata alla prevenzione del sorgere di nuovi disordini mentali e alla terapia intensiva di quelli già esistenti. E' una forma di psicoanalisi alternativa a quella di Freud, ma è pur sempre psicoterapia.
In questo breve scritto mi propongo di impostare un solo problema: quello del soggetto in Wittgenstein, considerandolo come un problema non dissolto completamente, perché non chiarito direttamente. Ma se non fu dissolto, non lo si deve, allora, alla sua non-solubilità?

Potremmo partire dalla più ovvia delle domande: chi decide che una proposizione è priva di senso? E' un soggetto pensante, o si tratta semmai della cultura, della scienza e della filosofia del tempo in cui visse Wittgenstein che diventano soggetto che pensa per conto di tutti? La questione è solo provvisoriamente risolta nel corpo del Tractatus Logico Philosophicus. Qui si muove dal solipsismo. Il linguaggio è considerato, nella sua totalità, funzione del soggetto linguistico-trascendentale. Ma, in questo modo, il problema della soggettività è esasperato, anche se tale tensione rimane tra le righe. Per coglierla, bisogna chiedersi a quale tipo di solipsismo facesse riferimento Wittgenstein: se ad un ego cogito cartesiano, quindi ad una totalità dell'esperienza che un soggetto umano potrebbe tentare di organizzare ed esplicitare, oppure ad un "solipsismo linguistico", secondo il quale il soggetto è solo funzione, ridotto a funzione (di verità) del linguaggio nella sua forma logica. Se è vero che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo, non si può non trovare vero che al di là del linguaggio non può essere pensato alcunché, perché, per il soggetto che pensa mediante il linguaggio, il mondo pensato finisce dove finisce il linguaggio. Il linguaggio può andare molto lontano, ma ad un certo punto si arresta. E' come se dicesse "sono arrivato", e sono arrivato ai limiti del mondo.
Pertanto, non è il soggetto tradizionale del moderno, l'ego cogito, che usa il linguaggio per pensare e per dire. Abbiamo a che fare con un nuovo tipo di soggetto che è funzione del linguaggio, appunto, subjectum al linguaggio stesso, dal quale dipende in modo essenziale. Il solipsismo linguistico viene così espressamente a restringere, non solo a circoscrivere, a restringere, l'esistenza di una sostanza che viene prima del linguaggio, che impara il linguaggio impadronendosi del significato delle parole. Tanto che, in T 5, 64 si legge: «Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L'io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso.» E prima Wittgenstein aveva scritto: «Il soggetto che pensa, immagina, non v'è.» (T 5.631) Abbiamo, insomma, una decisa tendenza a ridurre il soggetto empirico, con la sua memoria e la sua ragione, ad un "fatto" in un mondo di "fatti". L'io è dunque un oggetto sprofondato nella contingenza, non è più soggetto nemmeno in senso psicologico. Il soggetto non può essere più il fondamento della conoscenza, ma solo il custode-magazziniere di un immenso deposito. E, semmai, potrebbe diventare oggetto di essa, se soggetto ci fosse. Ma c'è ancora?

Si possono, allora, avere mille ragioni nel dire che con Wittgenstein siamo all'ultimo colpo di piccone inferto alla soggettività moderna, già duramente attaccata da Hegel, da Marx, da Nietzsche e da Freud? Con estrema convinzione risponderei: sì. Ma, con altrettanta convinzione, aggiungerei: l'edificio non è crollato. L'ultima picconata è stata inferta con mano troppo leggera.
Cartesio si era posto il problema di come costruire il mondo a partire dai "dubbi" del soggetto solipsistico; Hume aveva portato il dubbio nei confronti dell'empirico e delle precarie certezze fondate sull'abitudine oltre ogni limite; Wittgenstein prova ad ultimare la distruzione del mondo "costruito" sulla precarietà dell'io. Ma poi si ferma. Se la filosofia "è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio", allora si tratta di domandare alla forma della razionalità del soggetto, come si rende 'perspicua' l'applicazione stessa della razionalità. Così, nelle Note sul "Ramo d'oro" di Frazer possiamo leggere: «Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un'importanza fondamentale. Esso designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose.» (2) Die übersichtliche Darstellung, la rappresentazione perspicua, apre alla comprensione della matematica, è la matematica. Allo stesso modo, la rappresentazione per immagini diventa cruciale sul terreno sdrucciolo della conoscenza soggettiva, quel terreno sul quale "la logica del nostro linguaggio è così difficile da afferrare". (3)

Siamo così alla estraneazione del soggetto trascendentale dal mondo delle equivalenze e della ambivalenze. Ciò non porta al silenzio comandato in modo oracolare in chiusura del Tractatus Logico Philosophicus, bensì a considerare la possibilità di una salvezza dei 'valori' dalla contingenza del mondo. Essa non va intesa come semplice 'manovra' di un soggetto in cerca di aria fresca, ma come azione 'complementare' a quel soggetto empirico, 'fatto' in un mondo di 'fatti'.
L'eliminazione di proposizioni del tipo "A crede che p" porta a lasciar sussistere solo la "coordinazione di fatti per coordinazione dei loro oggetti". Sicché il problema di un accordo tra la pluralità di soggetti che conoscono viene "dissolto" in un linguaggio di adamantina purezza. Non c'è ricerca dell'intersoggettività, come in Husserl, ma un solo soggetto linguistico trascendentale, che finisce col trascendere il nodo della pluralità. Il soggetto individuale, l'eroe della conoscenza della grande filosofia illuminista, è vicino alla dissoluzione, diventando una funzione della grammatica. Che significa "io"? Lo si capisce da come è costruita una frase dotata di senso. Ma in una proposizione sensata, "io" può essere omesso. Come in italiano. Putroppo abbiamo a che fare con un inglese, lingua globale, che dice "ai" sia come pre-messa per dire "vado a prendere una boccata d'aria", sia per dire "ciao".

Wittgenstein conclude la Conferenza sull'etica dichiarando di aver parlato per se stesso. «Alla fine della mia conferenza sull'etica ho parlato in prima persona. Credo che sia abbastanza essenziale. Là non c'è più nulla da constatare, posso solo intervenire come individualità e parlare in prima persona.» (4) Qui si accenna esplicitamente a un tentativo disperato di evadere dalla galera del linguaggio, avventandosi "contro le pareti della nostra gabbia". Perché, dopo aver detto che "il linguaggio è il limite del mio mondo", mi trovo ora a pensare che oltre quel limite esiste, per me, un altro mondo? Ed è quello il mondo che mi interessa!
Si può trovare la risposta, tornando al Tractatus Logico Philosophicus. "Il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore, né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v'è, dev'essere fuori d'ogni avvenire ed essere-così."(T 6.41) Quindi, tra i saggi sull'etica e il Tractatus comincia a far capolino una frattura. Se per dire e non tacere su ciò che il linguaggio non può dire, occorre balbettare e farfugliare, bisogna riconoscere che si ricorre comunque ad un linguaggio, un linguaggio che usa le medesime parole del Tractatus Logico Philosophicus, cioè lo stesso vocabolario tedesco, ma in maniera diversa. Le parole dell'etica hanno un significato per chi parla, cioè per il soggetto. Esse continuano a rimanere insensate nella loro neutrale formulazione logico-linguistica, ma non possono più essere ricacciate in gola. Rispetto al rigore logico del Tractatus Logico Philosophicus, è ammettere che si possono dire spropositi. «L'essenza della religione evidentemente può non avere a che fare con il fatto che si parli, o piuttosto: se si parla, è questo stesso una componente dell'atto religioso e non una teoria. E quindi non importa se le parole sono vere o false o insensate.» (5) Allora è vero che il soggetto del linguaggio, ristretto come un espresso in tazzina, torna a far sentire le proprie istanze fondamentali. E qui è importante notare che Wittgenstein nega quanto affermato in precedenza: «Avventarsi contro i limiti del linguaggio? Il linguaggio non è certo una gabbia.» (6)

Con ciò siamo nel pieno di una revisione. Il concetto di linguaggio si apre a nuove prospettive, a partire dal saggio Some Remarks on Logical Form. (7) E in stretta connessione, segue una revisione del concetto di soggetto. Il saggio si apre con una riaffermazione delle tesi precedenti. «Ogni proposizione ha un contenuto e una forma. Otteniamo l'immagine della forma pura [...] se alle costanti della proposizione sostituiamo delle variabili.» Dunque, ogni proposizione è funzione di verità di proposizioni più semplici; l'analisi deve raggiungere quelle proposizioni che costituiscono il nucleo di ogni proposizione. Ma nel saggio compare una novità: Wittgenstein abbandona la tesi secondo cui le proposizioni elementari sono, tra loro, indipendenti. E' un passo in direzione dell'olismo wittgensteiniano, in direzione della teoria dei giochi linguistici.

Nelle Osservazioni filosofiche, Wittgenstein aveva già introdotto diverse notazioni grammaticali per superare l'incondizionatezza dell'affermazione solipsistica. Attraverso il superamento di una proposizione come "Io solo vedo ciò che è visto", dove si dice che in questo caso "io" è impiegato in modo del tutto differente da altri casi, cioè altre notazioni grammaticali imperniate su soggetti "individuati da un corpo".
Comincia ad emergere una tendenza a considerare "io" pronome come mera convenzione grammaticale. Si può proprio dire che è possibile eliminare "io" dal linguaggio, senza scantonare in proposizioni del tipo "Wittgenstein prova mal di testa", oppure "Wittgenstein indossa una camicia col collo aperto e non porta la cravatta". "Io" è un nome vuoto, che non denota e non descrive. Però allude, ed allude ad un despota. «Ci si potrebbe figurare un despotato orientale dove il linguaggio sia costruito in modo che il despota sia al suo centro e il suo nome detenga il posto di 'L.W'» (8) Il soggetto di ogni proposizione è il despota. "Lui" pensa, "lui" prova dolore.
Personalmente, ho trovato in questo passaggio un riferimento a Freud, sia rispetto al concetto di super-io, sia rispetto a quello di Es. Il despota potrebbe essere sia l'uno che l'altro. Ma rispetto alle formazioni psichiche freudiane c'è molto di meno e molto di più. Quando Wittgenstein pensa "Es denkt", dice che tutti i pensieri sono del despota, nessun altro può pensare. E ciò mi fa ritenere che il despota, infine, sia proprio l'impersonalità della cultura scientifica. Ma, dall'altro, devo anche considerare che ogni "io" non è altro che un despota a sua volta. Infatti: «Ma è altrettanto chiaro che questo linguaggio può avere ognuno come centro.» (9) Ecco che proprio nel momento in cui il soggetto appare pericolosamente vicino ad una dissoluzione, facendosi dominare e annullare dalla figura del despota, che, ripeto, a mio avviso è la cultura scientifica prima ancora che la filosofia, il soggetto risorge come despota a sua volta. Per dirla con Freud, esso ha introiettato il suo super-io. «Tu hai scoperto, innanzitutto, un nuovo modo di concepire le cose. Come se avessi trovato un nuovo modo di dipingere; oppure un nuovo metro, o un nuovo genere di canzoni.» (10)

In un prossimo intervento cercherò di indagare se tutte le sollecitazioni che ho cercato di condensare trovino adeguata risonanza nelle Ricerche filosofiche.


(1) L. Wittgenstein - Osservazioni filosofiche - Einaudi 1976
(2) L. Wittgenstein - Note sul "Ramo d'oro" di Frazer - Milano 1980
(3) L. Wittgenstein - Osservazioni filosofiche - Einaudi 1976
(4) L. Wittgenstein - Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa - Milano 1967
(5) ivi
(6) ivi
(7) Si tratta di uno scritto preparato per la Joint Session of the Aristotelian Society and the Mind Association nel 1929, subito dopo il ritorno di W. a Cambridge.
(8) L. Wittgenstein - Osservazioni filosofiche - Einaudi 1976
(9) ivi, (§ 58)
(10) L. Wittgenstein - Ricerche filosofiche - Einaudi 1974