Wittgenstein non fece uso dell'espressione
"atomismo logico". Fu infatti Russell
ad applicarla alla filosofia del Tractatus. Con tale formula, Russell intendeva un
tipo di metodologia filosofica contrapposta
sia alla tradizione metafisica sia
all'evoluzionismo,
in particolare quello di Spencer e
Bergson.
Nelle prime pagine de La conoscenza del mondo esterno (1), troviamo una breve esposizione dei
motivi per i quali sia la tradizione
classica
che quella più recente dell'evoluzionsimo
avrebbero dovuto considerarsi superate.
Russell
faceva risalire la metodologia dell'atomismo
logico a Galileo. E ne parlava come
di un
metodo "sfociato nella filosofia
attraverso
l'esame matematico". «Esso
rappresenta
lo stesso genere di progresso di quello
introdotto
da Galileo nella fisica: la sostituzione
di risultati distinti in frammenti,
particolareggiati
e verificabili, al posto di generalizzazioni
largamente non provate, raccomandate
soltanto
da un certo richiamo dell'immaginazione.»
Russell era quindi persuaso che l'atomismo
logico conducesse la filosofia al superamento
della metafisica. Per questo, ha senso chiedersi
se nel Tractatus vi sia ancora una metafisica.
A. Kenny, nel suo studio intitolato
Wittgenstein, sostiene con buoni argomenti che la metafisica
non è stata affatto eliminata. Secondo Kenny,
le prime pagine del Tractatus contengono una serie di affermazioni sul
mondo. Viene poi offerto un criterio
per
il quale ad ogni coppia di proposizioni
contraddittorie
corrisponde un solo fatto. Ciò rende vera una proposizione e
falsa l'altra.
I fatti possono essere positivi o negativi:
un fatto positivo è il sussistere di
uno
stato di cose; un fatto negativo è
il non
sussistere di uno stato di cose. (T
2.06)
Uno stato di cose (Sachverhalt) è una
combinazione
di oggetti o cose. Un oggetto può potenzialmente
costituire uno stato di cose: essendo
possibile
una combinazione con altri oggetti,
proprio
nella possibilità consistono la sua
natura,
le sue proprietà interne, e la sua
forma.
Siccome ogni oggetto contiene tutte
le sue
possibili combinazioni con altri oggetti,
quando son dati tutti gli oggetti,
sono dati
con ciò tutti gli stati di cose possibili.
Gli oggetti sono semplici, non hanno parti,
ma possono combinarsi in complessi. Non sono
generabili e sono indistruttibili. Ogni mondo
possibile deve contenere gli stessi oggetti
del mondo reale. Un cambiamento non è che
l'alterazione nella configurazione degli
oggetti. Un oggetto si distingue da ogni
altro o per la forma logica o per le proprietà esterne. Per forma logica si intende il come ogni
oggetto può entrare a far parte di
uno stato
di cose. Le proprietà esterne si trovano
di fatto in stati di cose diversi, anche contemporaneamente.
Un'altra distinzione è di tipo numerico,
ovvero, poiché possono darsi oggetti
indistinguibili
l'uno dall'altro, essi non sono identici.
Gli oggetti costituiscono la forma
inalterabile
e fissa, il contenuto del mondo. (T
2.021,
2.022, 2.023, 2024, 2.025)
Gli stati di cose sono indipendenti
l'uno
dall'altro; dal sussistere di uno stato
di
cose non si può inferire il sussistere
o
il non sussistere di un altro. Visto
che
i fatti sono il sussistere o il non
sussistere
di stati di cose, anch'essi sono reciprocamente
indipendenti. La totalità dei fatti
è il
mondo.
Kenny sostiene, a mio avviso giustamente,
che queste pagine del Tractatus sono oscure, prima ancora che metafisiche. Dice infatti:
«Le dichiarazioni lapidarie predominano
sulle argomentazioni e i termini tecnici
sono ammassati e ripetuti (forma e contenuto
= sostanza; fatti = realtà; essenza = natura
= forma). Il criterio di identità per distinguere
gli stati di cose è lasciato purtroppo indeterminato
e, cosa ancora più sconcertante, non sono
forniti esempi di oggetti. E' vero che Wittgenstein,
dopo aver detto che gli oggetti sono in uno
spazio di possibili stati di cose, continua
asserendo che "la macchia del campo
visivo può non essere rossa, ma un colore
non può non averlo: essa ha, per così dire,
lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono
deve avere un'altezza, l'oggetto del tatto
una durezza, e così via" (T 2.0131).
Ma è chiaro che queste sono analogie e non
esempi concreti. Nello stesso modo in cui
una macchia nel campo visivo dev'essere in
uno spazio cromatico (deve avere cioè una
posizione nello spettro), un oggetto dev'essere
in uno spazio logico (cioè deve avere la
possibilità di combinarsi con altri oggetti).
(T 2.013, 1,13) Lo spazio logico, andrebbe
spiegato, è dato dalla somma degli stati
di cose possibili ed esistenti più gli stati
di cose possibili ma non esistenti. [...]
Questa mancanza di esempi non è casuale.
Wittgenstein credeva nell'esistenza
di oggetti
semplici e di stati di cose atomici
non perché
pensava di poterne fornire degli esempi,
ma perché riteneva che essi dovessero
esistere
quali correlati nel mondo dei nomi
e delle
proposizioni elementari di un linguaggio
completamente analizzato. Il perché
di questa
sua convinzione lo vedremo tra breve.
Ma
al fine di chiarire quello che dice
intorno
agli oggetti e agli stati di cose,
è forse
opportuno cercare di dare una concreta
interpretazione
delle sue tesi. Ritengo che il gioco
degli
scacchi, con alcune importanti modifiche,
può aiutarci a costruire un modello,
il più
fedele possibile, del modo in cui è
concepito
il mondo nel Tractatus.» (2)
L'esempio degli scacchi è calzante
e può
essere colto intuitivamente. Non mi
dilungo
pertanto in compagnia di Kenny oltre
il necessario.
Un pezzo, ad esempio, non può occupare
contemporaneamente
due caselle e una casella non può essere
occupata da due pezzi. Il giocatore
dispone
di molte possibilità di muovere, ma
non di
possibilità infinite. Ogni mossa si
effettua
in uno stato di cose determinato. Il
resoconto
di una partita di scacchi si può effettuare
con estrema semplicità. Scrivendo c4,
registriamo
un movimento del pedone nella casella
designata
c4. Ovviamente, perchè si possa comprendere
la registrazione di una partita di
scacchi,
occorre che il lettore sappia leggere
quel
linguaggio e che, inoltre, sia a conoscenza
dell'apertura del gioco. Per aggirare
le
difficoltà di lettura, si può ricorrere
ad
una raffigurazione, disegnando una
scacchiera
e i pezzi. Nessuno, dice Kenny, può
fare
il resoconto di una partita di scacchi
ricorrendo
ad "una sola, fissa e uniforme
palla
rossa". Tuttavia, e questo è un
espediente,
se facciamo rimbalzare la palla una
volta,
e diciamo un rimbalzo = un pedone,
risolviamo
anche questo problema. Due rimbalzi
= cavallo,
tre = alfiere ecc. «Il sistema
dei
rimbalzi, posto che abbia un numero
di possibilità
pari al numero delle possibili situazioni
scacchistiche, possiederà la molteplicità
logica, la forma logica necessaria
per essere
una raffigurazione del gioco degli
scacchi.»
(3)
Fortunatamente, disponiamo di un linguaggio
più sofisticato di quello possibile con una
palla rossa e non siamo costretti a farla
rimbalzare diecimilacinquecentoventisei volte
per dire scacco matto con alfiere in g5 (Ag5).
In altre parole, c'è bisogno di un linguaggio
appropriato per descrivere gli stati di cose
e se quel linguaggio è veramente appropriato,
ci risparmiamo un sacco di tempo e di fatica.
Chiamare ogni oggetto con il proprio nome
è il presupposto essenziale di ogni linguaggio.
Ricorrendo al "nome" dell'oggetto,
possiamo costruire enunciati dotati di senso.
Che un enunciato abbia o meno un senso è
questione di logica. Al contrario, che una
cosa esista o meno è una questione empirica.
Cosa viene prima, la logica o l'esperienza?
Secondo Wittgenstein, ed anche secondo Russell,
la logica precede ogni esperienza. Russell
offre un metodo per parlare di ogni oggetto
descrivibile in modo che, sia che l'oggetto
esista o non esista realmente, la proposizione
avrà comunque un senso. Tale teoria, quella
delle descrizioni, impone l'uso di quantificatori.
Il quantificatore è un simbolo che contiene
una variabile e serve a indicare la
generalità
di un enunciato aperto nel quale occorre
tale variabile. Un quantificatore esistenziale
significa esiste un F, qualche F, gli F esistono o
qualcosa è un F. Si ricorre al simbolo del quantificatore
esistenziale per significare che l'enunciato aperto è vero per almeno un elemento dell'universo
rilevante. Esso è notato dai logici
con ($x), come nella formula ($x)Fx.
«Esiste almeno un x tale che x è un F» significa: è vero almeno un enunciato
in cui il predicato F è riferito a un nome. Quindi, se la precedente
condizione deve essere soddisfatta,
occorrono
procedimenti che garantiscano che i
nomi
di cui si parla nelle proposizioni
quantificate
abbiano in ogni caso un significato.
Da parte sua, Wittgenstein accolse
la teoria
delle descrizioni, ma la sviluppò in
modo
diverso. Russell esprime la proposizione
in linguaggio ordinario «esiste
uno
e uno solo re di Francia» nel
modo
seguente: «esiste almeno un x tale che x è re di Francia, e per ogni y, se y è re di Francia, y è identico a x.» Wittgenstein rinuncia ad impiegare
il segno di uguaglianza. E la proposizione
viene così: «esiste almeno un x tale che x è re di Francia; e non può accadere per un
qualche x e un qualche y che sia x sia re di Francia, sia y sia re di Francia.» (T 5.5321) In tale
disposizione, l'affermazione «Il
re
di Francia è calvo» viene formulata
così: «Esiste almeno un tale
x tale che x è re di Francia e x è calvo; e non può accadere per un qualche
x e per un qualche y, che sia x sia re di Francia, sia y sia re di Francia.» Kenny nota che
Wittgestein era interessato, a differenza
di Russell, alle descrizioni formate
usando
predicati diadici. Russell tratta «...
è il re di Francia» come un predicato
monadico. Wittgenstein spinge il modello
di analisi verso ulteriori distinzioni
tra
descrizione-relazione-nome in rapporto
ad
espressioni come «l'unto del
Signore»
o «l'uomo sulla luna».
Indubbiamente, gli approfondimenti
di Wittgenstein
allontanano dalla teoria originale
di Russell
ma, nota Kenny, resta un elemento fondamentale
comune, ovvero il fatto che una proposizione
contenente una descrizione di qualcosa
che
non esiste è considerata una proposizione
non insensata, ma semplicemente falsa.
(T
3.24)
«Non è difficile - nota Kenny
- e anzi
è in accordo con la tradizione filosofica,
accettare l'idea che i nomi siano segni
semplici,
segni che non hanno parti dotate di
signficato.
Ma quando Wittgenstein dice che i nomi
sono
"segni semplici vuole in realtà
dire
che che sono segni per oggetti semplici", [...].Ci si potrebbe
chiedere perchè venga esclusa l'esistenza
di segni semplici che stiano per oggetti
non semplici, come sembrerebbero essere
tutti
i nomi in italiano. Secondo una ragione
addotta
nelle Ricerche, questa possibilità viene esclusa perché
altrimenti alcune proposizioni sensate
diventerebbero
insensate. Nel Tractatus si sostiene che se i segni semplici denotassero
oggetti complessi le proposizioni in
cui
essi occorressero avrebbero un senso
indeterminato.»
(T 3.24)
Kenny osserva che il ragionamento presentato
da Wittgenstein rimane oscuro: non si comprende
da dove venga «l'indeterminatezza di
senso». Si può far parzialmente luce
ricorrendo al Prototractatus, in cui Wittgenstein aveva scritto: «A
un certo punto l'analisi dei segni
deve arrestarsi,
poiché se in assoluto i segni devono
esprimere
qualcosa, il significato gli deve appartenere
in un modo che è completo una volta
per tutte...
Se una proposizione deve avere un senso,
l'impiego sintattico di ciascuna delle
sue
parti deve essere stabilito prima.
Ad esempio,
non può venire in mente solo in seguito
che
da essa segue una proposizione. Ma
invece
dev'essere perfettamente stabilito,
ad esempio,
quali proposizioni seguano da una proposizione,
prima che questa proposizione possa
avere
un senso.» (PT 3.20102-3; Q 163)
Il problema che si presenta, a questo
punto,
è se si possa scrivere la parola «fine»
ad un processo di analisi. Potremmo
dire
che senza l'analisi sarebbe impossibile
dimostrare
cosa segue da un enunciato. Ad esempio, se posti di
fronte ad una proposizione del tipo
«il
re di Francia è saggio», potremmo
farne
seguire che «il re di Francia
esiste»
?
A leggere il Wittgenstein dei Quaderni, si può ricavare che il compito della filosofia
sia quello di iniziare l'analisi e portarla
a termine. Ma rimane oscuro come si possano
risolvere dubbi di questa natura. L'autoevidenza
è assai dubbia, e poiché la logica non può
dipendere dall'esperienza, per sapere come
una proposizione debba essere analizzata,
ci si trova nell'impossibilità di fondarsi
sulla conoscenza del fatto corrispondente
alla proposizione (Q 86 e sg.) Se l'analisi
dev'essere possibile in assoluto, tutto ciò
che le occorre deve allora essere fornito
dallo stesso segno proposizionale non analizzato.
(Q 87) Ma se questo è vero l'analisi sarebbe
allora superflua. Dopo tutto, per poter identificare
enunciati non analizzati a forma soggetto-predicato,
non dobbiamo forse già sapere che cosa sia
la logica degli enunciati a soggetto-predicato?
In effetti, conclude Kenny, un enunciato
a soggetto-predicato apparente sembra avere la logica che un enunciato a soggetto-predicato
completamente analizzato ha effettivamente.
L'individuo che voglia veramente indagare
la logica avrebbe quindi molto da fare.
A
partire, ad esempio da asserzioni ordinarie
del tipo «Socrate è un uomo»,
anche ignorando quale sia la struttura
posseduta
da Socrate o dalla mortalità. (Q 168)
E,
in questa prospettiva, un'espressione
come
«non analizzabile ulteriormente»
dovrebbe essere cancellata, o come
dice Wittgenstein,
essere posta «all'indice»
(Q
94 e sg.)
Russell affronta la questione dell'analisi
in un modo che lascia insoddisfatti. La logica
formale diventa nient'altro che la forma
del ragionamento. Per aggirare il problema
della struttura di Socrate, egli consiglia
di avvalersi del sillogismo in stile ipotetico:
«Se Socrate è un uomo, e se gli uomini
sono mortali, Socrate è mortale.» In
tal modo, la logica è salva, ma gli asserti
non hanno alcun carattere definitivo circa
la natura di Socrate e nemmeno circa la natura
degli uomini.
La risposta ai nostri dubbi potrebbe
consistere
nel constatare che l'ulteriore analizzabilità si mostra, e si mostra nell'analizzare ulteriormente,
senza che, tuttavia, si venga a trovarsi
impediti dal trattare una asserzione
come
se il processo di analisi fosse terminato.
Il problema che si pone a questo punto è
come applicare la logica a una proposizione
che non merita analisi ulteriori. Ovviamente,
per applicare la logica a una proposizione
dovrei conoscere la composizione dell'oggetto
cui la proposizione si riferisce. Se dico
«questo orologio luccica», sottindendo
la complessità che caratterizza la costituzione
di un orologio. Non è la stessa cosa che
dire «questo specchio luccica».
Certo, non è necessario che io sappia come
è fatto un orologio per dire che «si
trova nel cassetto» o che lo «porto
sul polsino come Agnelli» o «nel
panciotto come Marenco». Apparentemente
no. La costituzione dell'orologio non entra
nel dominio di significanza della proposizione.
La proposizione ci deve solo dire «qualcosa
di chiaro e intellegibile», quindi
non è necessario che descriva la costituzione
dell'orologio, salvo quando espressamente
richiesto. «Se una proposizione - scrive
Wittgenstein - ci dice qualcosa essa dev'essere
, così com'è, un'immagine - e completa -
della realtà.» Ovviamente, ognuno potrà
sempre trovare qualcosa di escluso dalla
proposizione stessa, ma ciò che essa dice,
non solo vien detto completamente, ma è circoscrivibile nettamente. (Q 139)
L'analisi ci consente di di evidenziare
quanto
sia importante, al fine di stabilire
il senso
di una proposizione, la complessità
dell'oggetto
di cui parla, quindi quante diverse
complessità siano lasciate indeterminate in ogni proposizione.
«Ciò che non so, non lo so, ma
la proposizione
mi deve mostrare CHE COSA IO SO.»
(Q
161)
Una proposizione del tipo «porto
l'orologio
nel panciotto» contiene indeterminatezza
e vaghezza circa la composizione strutturale
dell'orologio, ma possiede un senso
chiarissimo.
Al punto che potrebbe equivalere a
«c'è
un complesso di rotelle, molle e lancette
connesse insieme in qualche modo,e
questo
complesso è posto nel panciotto di
Marenco.»
Cosa possiamo comprendere da ciò? Che
il
senso della proposizione è molto più complicato della proposizione stessa. Ovvero che il
suo significato si riferisce ad un
complesso
che richiede e presuppone la conoscenza
dell'oggetto.
Non c'è nulla di sbagliato - dice Wittgenstein
- nell'omettere tutta la storia dell'orologio
e la descrizione della sua natura di
orologio:
infatti si può far uso delle convenzioni
del nostro linguaggio straordinariamente
complicate. (Q 169)
Infatti, anche una proposizione come
«l'orologio
è posto nel panciotto di Marenco»
enuncia
chiaramente qualcosa di determinato;
l'analisi
non fa altro che mettere in evidenza
un senso
preesistente. Ovviamente, in ogni circostanza,
si tratta di stabilire se una proposizione
del tipo succitato sia vera o falsa.
Perché
potrebbero darsi delle «posizioni
dell'orologio»
che potrebbero sfuggirmi. Per aggirare
la
difficoltà, Wittgenstein arriva ad
ammettere
che un fatto sia immagine di sé stesso.
Se
supponiamo che la proposizione sia
falsa,
non dovrebbe esistere un aggregato
di realtà
composto da orologio-panciotto-Marenco,
un
aggregato da indicare con il dito.
Kenny
è persuaso che nei Quaderni che precedono la composizione del Tractatus Wittgestein non abbia trovato la soluzione
ai problemi sollevati. «Che cosa egli
intenda con la nozione di analisi completa
di un complesso resta fondamentalmente ambiguo.
Forse un'analisi in cui la proposizione verrebbe
a contenere tanti elementi quanti sono quelli
dello stato di cose che essa raffigura (come
suggeriscono i passi datati 12 ottobre 1914,
20 ottobre 1914, 18 dicembre 1914 ecc.)?
Oppure si intende un'analisi in cui la proposizione
verrebbe a contenere tanti elementi quanti
io so che ce ne sono nello stato di cose
(come suggerito in Q 162)? Se si intende
la prima, non si potrebbe pronunciare la
più semplice delle proposizioni senza possedere
un'incredibile quantità di informazioni sulla
composizione dell'universo; se si intende
la seconda, allora non sembrerebbe pertinente
discutere, come Wittgenstein fa, se gli oggetti
spaziali siano divisibili all'infinito. Forse
egli non ha colto la differenza fra le due
prospettive per il fatto di scegliere frequentemente,
come esempio di un possibile oggetto semplice,
un punto del campo visivo. Poiché quest'ultimo
è un qualcosa di fenomenico, quello che c'è
nel campo visivo coincide con quello che
io so esserci; ne segue che chiedersi se
ci sono infiniti punti nel campo visivo (Q
163) è lo stesso che chiedersi se io vedo
infiniti punti. Ma non è lo stesso se come
esempio di oggetti semplici scegliamo le
particelle materiali della fisica. (Q 107,
165 sg.)» (4)
Il Tractatus non precisa quali generi di oggetti siano
da considerare semplici. E nemmeno
dice se
gli oggetti semplici siano elementi
singoli
particolari o universali. Ciò è coerente
con l'affermazione che egli sa dell'esistenza
di oggetti semplici solo a priori, e che non può darne alcun esempio. Abbiamo
che, non potendo fare alcun esempio
di nomi
per oggetti semplici, non possiamo
nemmeno
fare esempi di proposizioni elementari,
considerato
che queste consistono di concatenazioni
di
nomi. Ciò nonostante, Wittgenstein
afferma
che tutte le proposizioni del linguaggio
comune, a parte le sciocchezze e i
tentativi
di dire l'ineffabile, sono funzioni
di verità
delle proposizioni elementari. (T 4.4,
5)
Quindi, supponendo che mi siano date
tutte
le proposizioni elementari, potrei
domandare
quali proposizioni posso formare mediante
esse; allora avrei tutte le proposizioni
possibili. (T 4.51)
«5. La proposizione è una funzione
di verità delle proposizioni elementari»
(T 5)
«E' naturale pensare che il significato
di questa affermazione sia che tutte
le proposizioni
possono essere costruite a partire
dalle
proposizioni elementari più le costanti
logiche
"e", "o" ecc. così
come
"p o q" è formata da "p", "o" e "q". Ma Wittgenstein - dice Kenny - lo riterrebbe
sbagliato, in quanto può far sembrare
che
le costanti logiche aggiungano qualcosa
di
nuovo rispetto a ciò che già è contenuto
nelle proposizioni elementari. Il modo
in
cui dalle proposizioni elementari nasce
la
funzione di verità è un'operazione. (T 5.3) "Operazione" è il termine
tecnico usato da Wittgenstein per riferirsi
a ciò che deve farsi con una proposizione
per produrne da essa un'altra (T 5.23).
La
negazione è un'operazione (T 5.2341;
Q 31).
Non si riduce, ovviamente, ad aggiungere
la parola "non" o una tilde
a una
proposizione; se le convenzioni fossero
diverse
il loro effetto potrebbe essere completamente
differente (T 5.512). La negazione
consiste
nel rovesciare il senso di una proposizione,
cioè nello scambiare tutte le "V"
della sua tavola di verità con delle
"F",
e viceversa. Se, come Wittgenstein
suggerisce,
consideriamo le stesse tavole di verità
come
segni proposizionali (T 4.44), allora
tutte
le operazioni di verità (vale a dire,
tutte
le operazioni che hanno come risultato
le
funzioni di verità, e le proposizioni
elementari
quali basi (T 5.234) possono essere
considerate
come delle variazioni dello schema
delle
"V" e delle "F"
nella
tavola. In effetti, ogni funzione di
verità
può risultare dall'applicazione successiva
di un unico schema di modifica delle
proposizioni
elementari.» (5)
Possiamo rappresentare una tavola di
verità
e vedere come opera Wittgenstein.
p |
N (p) |
p q |
N (p, q) |
pp q r |
N (p, q, r) |
V |
ccF |
V V |
ccF |
cV V V |
cc F |
F |
ccV |
F V |
cc F |
cF V V |
cc F |
|
|
V F |
cc F |
cV F V |
cc F |
|
|
F F |
ccV |
cF F V |
cc F |
|
|
|
|
cV V F |
cc F |
|
|
|
|
cF V F |
cc F |
|
|
|
|
cV F F |
cc F |
|
|
|
|
c F F F |
ccV |
N (p) è la negazione di "p", N(p,q) la negazione di "p" e di "q", N(p,q,r) è la negazione di "p", "q", "r" e così via qualunque sia il numero
delle proposizioni tra parentesi. Se osserviamo
attentamente, vedremo che ogni negazione
N è sempre falsa ad eccezione che nell'ultima
riga. Abbiamo l'impressione, d'accordo con
Kenny, che non sia affatto chiaro il modo
in cui ogni proposizione risulti da successive
operazioni N(...) applicata a proposizioni
elementari., e nemmeno il modo in cui l'uso
di questa operazione ci dà la forma più generale
della transizione da una proposizione all'altra.
(T 6.001) Per capacitarsi, occorre un esempio
meno complesso. Quando Wittgenstein dice
che tutte le possibili funzioni di verità
di un numero dato di proposizioni elementari
possono essere scritte in uno schema semplice,
vuol dire, ad esempio, che esiste un numero
limitato di funzioni di verità se consideriamo
solo due proposizioni: p e q.
Vediamo:
p q |
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
V V |
V |
F |
V |
V |
V |
F |
F |
F |
V |
V |
V |
F |
F |
F |
V |
F |
F V |
V |
V |
F |
V |
V |
F |
V |
V |
F |
F |
V |
F |
F |
V |
F |
F |
V F |
V |
V |
V |
F |
V |
V |
F |
V |
F |
V |
F |
F |
V |
F |
F |
F |
F F |
V |
V |
V |
V |
F |
V |
V |
F |
V |
F |
F |
V |
F |
F |
F |
F |
La combinazione qui sopra interessa
solo
due proposizioni: p e q.
Nella prima colonna sono evidenziate tutte
le possibilità, ovvero che p sia vera e q vera, che p sia falsa e q vera, ecc. Nelle altre colonne vengono sviluppate
le possibilità in modo che ad ogni
coppia
di "vero" e "falso",
"vero e "vero", "falso"
e "falso" corrisponda un
riconoscimento
di V o F che riguarda l'insieme di
p e q, p o q, p in rapporto a q, q come funzione di verità per i due argomenti
distinti p e q, e così via. Alle estremità delle colonne,
cioè a quella 1 ed a quella 16, troviamo
le funzioni di verità "degenerate",
la tautologia e la contraddizione. Posto,
che p e q siano entrambe vere, come può essere che,
alla colonna 16, il loro concatenamento
risulti
falso? Certo, se entrambe false, allora
F
nella quarta casella è appropriato
e non
contraddittorio. Ma dobbiamo considerare
che anche V nella prima casella della
colonna
1 non è che una tautologia, cioè non
fa che
ripetere quello che è implicito negli
enunciati
p e q.
Secondo Wittgenstein, non è necessario
ricorrere
a tavole di verità di diversa dimensione
per rappresentare proposizioni di diversa
complessità. Se abbiamo a che fare
con n proposizioni elementari, basterà una una
tavola di verità con 2n righe per contenere tutte le combinazioni
possibili.
Seguiamo il commento di Kenny: «Immaginiamo
ora di avere un universo (Wittgenstein direbbe:
uno spazio logico) con n possibili stati di cose. La nostra tavola
di verità con 2n righe conterrà ogni possibile proposizione
su quell'universo (ovviamente conterrà anche
tautologie e contraddizioni che, a rigor
di termini, non sono "su" quell'universo,
ma questa è una cosa che possiamo trascurare).
Fra le proposizioni della parte di destra
vi saranno le proposizioni elementari, ciascuna
delle quali espressa ora come funzione di
verità di tutte le proposizioni elementari
che ci sono. Se si considerano le proposizioni
elementari espresse in questo modo, per esse
risulteranno vere due cose: 1) poiché ciascuna
proposizione elementare è espressa come una
funzione di tutte le proposizioni elementari,
e poichè se sono date tutte le proposizioni
elementari sono dati anche tutti i nomi,
allora ciascuna proposizione elementare conterrà
il nome di tutti gli oggetti che ci sono
nell'universo; 2) ogni proposizione elementare
apparirà come la congiunzione della proposizione
stessa con una tautologia: nella tavola precedente,
ad esempio, "p", in quanto funzione di verità di "p" e "q", è equivalente a "p e (q o non-q)" (vedi T 4.465).» (6)
Non mi pare il caso, in questa sede,
di mostrare
come sia possibile raggiungere ogni
proposizione
che compare nella tavola applicando
ripetutamente
l'operazione N alle proposizioni elementari.
Dovrei entrare in un tecnicismo ancora
più
complesso di quello necessario finora.
Ci
basti sapere, che è possibile, ma con
ciò
saremmo ancora lontani dall'avere una prova
formale di questa possibilità. Wittgenstein non prova ciò che asserisce
in T6, cioè che la forma generale della funzione
di verità è: [,,N( ) ], e si limita a dire: «Poiché è manifestatamente
facile esprimere come, con questa operazione,
possano essere formate proposizioni, e come,
con essa non siano da formare proposizioni,
questo deve pure poter trovare un'espressione
esatta.» (T 5.503) In T 6.001 leggiamo
ancora: «Questo non dice altro se non
che ogni proposizione è un risultato dell'applicazione
successiva dell'operazione N() alle proposizioni elementari», infine
in T 6.002: «Se è data la forma generale
nella quale una proposizione è costruita,
con ciò stesso è già data anche la forma
generale, nella quale, da una proposizione,
ne può essere prodotta un'altra mediante
un'operazione.»
Come già detto nell'introduzione, le certezze
di Wittgenstein su questo punto venivano
dalla dimostrazione data da H. Sheffer.
Wittgenstein, però, andò oltre Sheffer,
sostenendo
che ogni proposizione è una funzione
di verità
di proposizioni elementari, in modo
che la
formula di costruzione delle proposizioni
vero-funzionali era la forma generale
delle
proposizioni. (T 5.3) Ciò è diverso
dal sostenere
che ogni funzione di verità degli enunciati
elementari poteva venire costruita
con l'applicazione
ripetuta ad ognuno dell'operazione
N. Il
problema è dato, secondo Kenny, dal
fatto
che né Wittgenstein, né i suoi critici,
sono
in grado di dare un esempio, o anche
solo
di mostrare, una proposizione elementare. L'espressione
«la neve è bianca» può
essere
valutata in molti modi, anche come
funzione
di verità di proposizioni elementari.
In
realtà, tuttavia, le espressioni del
linguaggio
comune sembrano in grado di entrare in altre proposizioni del linguaggio comune
anche in modo non vero-funzionale. Kenny fa questo
esempio: «"La neve è bianca"
oltre a comparire in maniera non vero-funzionale
nella proposizione "Non è vero che la
neve è bianca", compare in maniera non
vero-funzionale in "E' possibile che
la neve sia bianca" (T5.541 sgg). Inoltre,
sebbene "Per ogni x, x è bianco" sia in relazione con "La
neve è bianca" (la implica), non sembra
però che ne sia una funzione di verità. Malgrado
ciò, Wittgenstein affermò che "nella
forma proposizionale generale la proposizone
occorre nella proposizione solo quale base
delle operazioni di verità" (T 5.54).»
(7)
Nel prossimo file tenteremo di discutere
questo punto in modo più dettagliato.
(continua)
(1) B.Russell - La conoscenza del mondo esterno - 1914 - I ed. in italiano Il Labirinto Longanesi
1966
(2) A. J. P. Kenny - Wittgenstein - Bollati Boringhieri 1984
(3) idem
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem
LB - 24 novembre 2006 |