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Wittgenstein
E' corretto parlare di metafisica dell'atomismo logico?
di Loris Basini
«... le cose più ovvie e facili non sono quelle che, in senso logico, vengono al principio, bensì sono quelle che, dal punto di vista della deduzione logica, si può dire vengano a metà strada. Proprio come si individuano più facilmente gli oggetti che non sono né lontanissimi né vicinissimi, né piccolissimi, né grandissimi, così sono più facili da afferrare i concetti non troppo complessi né troppo semplici ("semplici" in senso logico).»
B. Russell - Introduzione alla filosofia matematica

Wittgenstein non fece uso dell'espressione "atomismo logico". Fu infatti Russell ad applicarla alla filosofia del Tractatus. Con tale formula, Russell intendeva un tipo di metodologia filosofica contrapposta sia alla tradizione metafisica sia all'evoluzionismo, in particolare quello di Spencer e Bergson. Nelle prime pagine de La conoscenza del mondo esterno (1), troviamo una breve esposizione dei motivi per i quali sia la tradizione classica che quella più recente dell'evoluzionsimo avrebbero dovuto considerarsi superate. Russell faceva risalire la metodologia dell'atomismo logico a Galileo. E ne parlava come di un metodo "sfociato nella filosofia attraverso l'esame matematico". «Esso rappresenta lo stesso genere di progresso di quello introdotto da Galileo nella fisica: la sostituzione di risultati distinti in frammenti, particolareggiati e verificabili, al posto di generalizzazioni largamente non provate, raccomandate soltanto da un certo richiamo dell'immaginazione.»

Russell era quindi persuaso che l'atomismo logico conducesse la filosofia al superamento della metafisica. Per questo, ha senso chiedersi se nel Tractatus vi sia ancora una metafisica.
A. Kenny, nel suo studio intitolato Wittgenstein, sostiene con buoni argomenti che la metafisica non è stata affatto eliminata. Secondo Kenny, le prime pagine del Tractatus contengono una serie di affermazioni sul mondo. Viene poi offerto un criterio per il quale ad ogni coppia di proposizioni contraddittorie corrisponde un solo fatto. Ciò rende vera una proposizione e falsa l'altra.
I fatti possono essere positivi o negativi: un fatto positivo è il sussistere di uno stato di cose; un fatto negativo è il non sussistere di uno stato di cose. (T 2.06) Uno stato di cose (Sachverhalt) è una combinazione di oggetti o cose. Un oggetto può potenzialmente costituire uno stato di cose: essendo possibile una combinazione con altri oggetti, proprio nella possibilità consistono la sua natura, le sue proprietà interne, e la sua forma. Siccome ogni oggetto contiene tutte le sue possibili combinazioni con altri oggetti, quando son dati tutti gli oggetti, sono dati con ciò tutti gli stati di cose possibili.
Gli oggetti sono semplici, non hanno parti, ma possono combinarsi in complessi. Non sono generabili e sono indistruttibili. Ogni mondo possibile deve contenere gli stessi oggetti del mondo reale. Un cambiamento non è che l'alterazione nella configurazione degli oggetti. Un oggetto si distingue da ogni altro o per la forma logica o per le proprietà esterne. Per forma logica si intende il come ogni oggetto può entrare a far parte di uno stato di cose. Le proprietà esterne si trovano di fatto in stati di cose diversi, anche contemporaneamente.
Un'altra distinzione è di tipo numerico, ovvero, poiché possono darsi oggetti indistinguibili l'uno dall'altro, essi non sono identici.
Gli oggetti costituiscono la forma inalterabile e fissa, il contenuto del mondo. (T 2.021, 2.022, 2.023, 2024, 2.025)

Gli stati di cose sono indipendenti l'uno dall'altro; dal sussistere di uno stato di cose non si può inferire il sussistere o il non sussistere di un altro. Visto che i fatti sono il sussistere o il non sussistere di stati di cose, anch'essi sono reciprocamente indipendenti. La totalità dei fatti è il mondo.

Kenny sostiene, a mio avviso giustamente, che queste pagine del Tractatus sono oscure, prima ancora che metafisiche. Dice infatti: «Le dichiarazioni lapidarie predominano sulle argomentazioni e i termini tecnici sono ammassati e ripetuti (forma e contenuto = sostanza; fatti = realtà; essenza = natura = forma). Il criterio di identità per distinguere gli stati di cose è lasciato purtroppo indeterminato e, cosa ancora più sconcertante, non sono forniti esempi di oggetti. E' vero che Wittgenstein, dopo aver detto che gli oggetti sono in uno spazio di possibili stati di cose, continua asserendo che "la macchia del campo visivo può non essere rossa, ma un colore non può non averlo: essa ha, per così dire, lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono deve avere un'altezza, l'oggetto del tatto una durezza, e così via" (T 2.0131). Ma è chiaro che queste sono analogie e non esempi concreti. Nello stesso modo in cui una macchia nel campo visivo dev'essere in uno spazio cromatico (deve avere cioè una posizione nello spettro), un oggetto dev'essere in uno spazio logico (cioè deve avere la possibilità di combinarsi con altri oggetti). (T 2.013, 1,13) Lo spazio logico, andrebbe spiegato, è dato dalla somma degli stati di cose possibili ed esistenti più gli stati di cose possibili ma non esistenti. [...]
Questa mancanza di esempi non è casuale. Wittgenstein credeva nell'esistenza di oggetti semplici e di stati di cose atomici non perché pensava di poterne fornire degli esempi, ma perché riteneva che essi dovessero esistere quali correlati nel mondo dei nomi e delle proposizioni elementari di un linguaggio completamente analizzato. Il perché di questa sua convinzione lo vedremo tra breve. Ma al fine di chiarire quello che dice intorno agli oggetti e agli stati di cose, è forse opportuno cercare di dare una concreta interpretazione delle sue tesi. Ritengo che il gioco degli scacchi, con alcune importanti modifiche, può aiutarci a costruire un modello, il più fedele possibile, del modo in cui è concepito il mondo nel Tractatus.» (2)

L'esempio degli scacchi è calzante e può essere colto intuitivamente. Non mi dilungo pertanto in compagnia di Kenny oltre il necessario. Un pezzo, ad esempio, non può occupare contemporaneamente due caselle e una casella non può essere occupata da due pezzi. Il giocatore dispone di molte possibilità di muovere, ma non di possibilità infinite. Ogni mossa si effettua in uno stato di cose determinato. Il resoconto di una partita di scacchi si può effettuare con estrema semplicità. Scrivendo c4, registriamo un movimento del pedone nella casella designata c4. Ovviamente, perchè si possa comprendere la registrazione di una partita di scacchi, occorre che il lettore sappia leggere quel linguaggio e che, inoltre, sia a conoscenza dell'apertura del gioco. Per aggirare le difficoltà di lettura, si può ricorrere ad una raffigurazione, disegnando una scacchiera e i pezzi. Nessuno, dice Kenny, può fare il resoconto di una partita di scacchi ricorrendo ad "una sola, fissa e uniforme palla rossa". Tuttavia, e questo è un espediente, se facciamo rimbalzare la palla una volta, e diciamo un rimbalzo = un pedone, risolviamo anche questo problema. Due rimbalzi = cavallo, tre = alfiere ecc. «Il sistema dei rimbalzi, posto che abbia un numero di possibilità pari al numero delle possibili situazioni scacchistiche, possiederà la molteplicità logica, la forma logica necessaria per essere una raffigurazione del gioco degli scacchi.» (3)

Fortunatamente, disponiamo di un linguaggio più sofisticato di quello possibile con una palla rossa e non siamo costretti a farla rimbalzare diecimilacinquecentoventisei volte per dire scacco matto con alfiere in g5 (Ag5).

In altre parole, c'è bisogno di un linguaggio appropriato per descrivere gli stati di cose e se quel linguaggio è veramente appropriato, ci risparmiamo un sacco di tempo e di fatica. Chiamare ogni oggetto con il proprio nome è il presupposto essenziale di ogni linguaggio. Ricorrendo al "nome" dell'oggetto, possiamo costruire enunciati dotati di senso. Che un enunciato abbia o meno un senso è questione di logica. Al contrario, che una cosa esista o meno è una questione empirica. Cosa viene prima, la logica o l'esperienza? Secondo Wittgenstein, ed anche secondo Russell, la logica precede ogni esperienza. Russell offre un metodo per parlare di ogni oggetto descrivibile in modo che, sia che l'oggetto esista o non esista realmente, la proposizione avrà comunque un senso. Tale teoria, quella delle descrizioni, impone l'uso di quantificatori.
Il quantificatore è un simbolo che contiene una variabile e serve a indicare la generalità di un enunciato aperto nel quale occorre tale variabile. Un quantificatore esistenziale significa esiste un F, qualche F, gli F esistono o qualcosa è un F. Si ricorre al simbolo del quantificatore esistenziale per significare che l'enunciato aperto è vero per almeno un elemento dell'universo rilevante. Esso è notato dai logici con ($x), come nella formula ($x)Fx.
«Esiste almeno un x tale che x è un F» significa: è vero almeno un enunciato in cui il predicato F è riferito a un nome. Quindi, se la precedente condizione deve essere soddisfatta, occorrono procedimenti che garantiscano che i nomi di cui si parla nelle proposizioni quantificate abbiano in ogni caso un significato.
Da parte sua, Wittgenstein accolse la teoria delle descrizioni, ma la sviluppò in modo diverso. Russell esprime la proposizione in linguaggio ordinario «esiste uno e uno solo re di Francia» nel modo seguente: «esiste almeno un x tale che x è re di Francia, e per ogni y, se y è re di Francia, y è identico a x.» Wittgenstein rinuncia ad impiegare il segno di uguaglianza. E la proposizione viene così: «esiste almeno un x tale che x è re di Francia; e non può accadere per un qualche x e un qualche y che sia x sia re di Francia, sia y sia re di Francia.» (T 5.5321) In tale disposizione, l'affermazione «Il re di Francia è calvo» viene formulata così: «Esiste almeno un tale x tale che x è re di Francia e x è calvo; e non può accadere per un qualche x e per un qualche y, che sia x sia re di Francia, sia y sia re di Francia.» Kenny nota che Wittgestein era interessato, a differenza di Russell, alle descrizioni formate usando predicati diadici. Russell tratta «... è il re di Francia» come un predicato monadico. Wittgenstein spinge il modello di analisi verso ulteriori distinzioni tra descrizione-relazione-nome in rapporto ad espressioni come «l'unto del Signore» o «l'uomo sulla luna».
Indubbiamente, gli approfondimenti di Wittgenstein allontanano dalla teoria originale di Russell ma, nota Kenny, resta un elemento fondamentale comune, ovvero il fatto che una proposizione contenente una descrizione di qualcosa che non esiste è considerata una proposizione non insensata, ma semplicemente falsa. (T 3.24)

«Non è difficile - nota Kenny - e anzi è in accordo con la tradizione filosofica, accettare l'idea che i nomi siano segni semplici, segni che non hanno parti dotate di signficato. Ma quando Wittgenstein dice che i nomi sono "segni semplici vuole in realtà dire che che sono segni per oggetti semplici", [...].Ci si potrebbe chiedere perchè venga esclusa l'esistenza di segni semplici che stiano per oggetti non semplici, come sembrerebbero essere tutti i nomi in italiano. Secondo una ragione addotta nelle Ricerche, questa possibilità viene esclusa perché altrimenti alcune proposizioni sensate diventerebbero insensate. Nel Tractatus si sostiene che se i segni semplici denotassero oggetti complessi le proposizioni in cui essi occorressero avrebbero un senso indeterminato.» (T 3.24)
Kenny osserva che il ragionamento presentato da Wittgenstein rimane oscuro: non si comprende da dove venga «l'indeterminatezza di senso». Si può far parzialmente luce ricorrendo al Prototractatus, in cui Wittgenstein aveva scritto: «A un certo punto l'analisi dei segni deve arrestarsi, poiché se in assoluto i segni devono esprimere qualcosa, il significato gli deve appartenere in un modo che è completo una volta per tutte... Se una proposizione deve avere un senso, l'impiego sintattico di ciascuna delle sue parti deve essere stabilito prima. Ad esempio, non può venire in mente solo in seguito che da essa segue una proposizione. Ma invece dev'essere perfettamente stabilito, ad esempio, quali proposizioni seguano da una proposizione, prima che questa proposizione possa avere un senso.» (PT 3.20102-3; Q 163)
Il problema che si presenta, a questo punto, è se si possa scrivere la parola «fine» ad un processo di analisi. Potremmo dire che senza l'analisi sarebbe impossibile dimostrare cosa segue da un enunciato. Ad esempio, se posti di fronte ad una proposizione del tipo «il re di Francia è saggio», potremmo farne seguire che «il re di Francia esiste» ?
A leggere il Wittgenstein dei Quaderni, si può ricavare che il compito della filosofia sia quello di iniziare l'analisi e portarla a termine. Ma rimane oscuro come si possano risolvere dubbi di questa natura. L'autoevidenza è assai dubbia, e poiché la logica non può dipendere dall'esperienza, per sapere come una proposizione debba essere analizzata, ci si trova nell'impossibilità di fondarsi sulla conoscenza del fatto corrispondente alla proposizione (Q 86 e sg.) Se l'analisi dev'essere possibile in assoluto, tutto ciò che le occorre deve allora essere fornito dallo stesso segno proposizionale non analizzato. (Q 87) Ma se questo è vero l'analisi sarebbe allora superflua. Dopo tutto, per poter identificare enunciati non analizzati a forma soggetto-predicato, non dobbiamo forse già sapere che cosa sia la logica degli enunciati a soggetto-predicato? In effetti, conclude Kenny, un enunciato a soggetto-predicato apparente sembra avere la logica che un enunciato a soggetto-predicato completamente analizzato ha effettivamente.

L'individuo che voglia veramente indagare la logica avrebbe quindi molto da fare. A partire, ad esempio da asserzioni ordinarie del tipo «Socrate è un uomo», anche ignorando quale sia la struttura posseduta da Socrate o dalla mortalità. (Q 168) E, in questa prospettiva, un'espressione come «non analizzabile ulteriormente» dovrebbe essere cancellata, o come dice Wittgenstein, essere posta «all'indice» (Q 94 e sg.)
Russell affronta la questione dell'analisi in un modo che lascia insoddisfatti. La logica formale diventa nient'altro che la forma del ragionamento. Per aggirare il problema della struttura di Socrate, egli consiglia di avvalersi del sillogismo in stile ipotetico: «Se Socrate è un uomo, e se gli uomini sono mortali, Socrate è mortale.» In tal modo, la logica è salva, ma gli asserti non hanno alcun carattere definitivo circa la natura di Socrate e nemmeno circa la natura degli uomini.
La risposta ai nostri dubbi potrebbe consistere nel constatare che l'ulteriore analizzabilità si mostra, e si mostra nell'analizzare ulteriormente, senza che, tuttavia, si venga a trovarsi impediti dal trattare una asserzione come se il processo di analisi fosse terminato.
Il problema che si pone a questo punto è come applicare la logica a una proposizione che non merita analisi ulteriori. Ovviamente, per applicare la logica a una proposizione dovrei conoscere la composizione dell'oggetto cui la proposizione si riferisce. Se dico «questo orologio luccica», sottindendo la complessità che caratterizza la costituzione di un orologio. Non è la stessa cosa che dire «questo specchio luccica». Certo, non è necessario che io sappia come è fatto un orologio per dire che «si trova nel cassetto» o che lo «porto sul polsino come Agnelli» o «nel panciotto come Marenco». Apparentemente no. La costituzione dell'orologio non entra nel dominio di significanza della proposizione. La proposizione ci deve solo dire «qualcosa di chiaro e intellegibile», quindi non è necessario che descriva la costituzione dell'orologio, salvo quando espressamente richiesto. «Se una proposizione - scrive Wittgenstein - ci dice qualcosa essa dev'essere , così com'è, un'immagine - e completa - della realtà.» Ovviamente, ognuno potrà sempre trovare qualcosa di escluso dalla proposizione stessa, ma ciò che essa dice, non solo vien detto completamente, ma è circoscrivibile nettamente. (Q 139)
L'analisi ci consente di di evidenziare quanto sia importante, al fine di stabilire il senso di una proposizione, la complessità dell'oggetto di cui parla, quindi quante diverse complessità siano lasciate indeterminate in ogni proposizione. «Ciò che non so, non lo so, ma la proposizione mi deve mostrare CHE COSA IO SO.» (Q 161)
Una proposizione del tipo «porto l'orologio nel panciotto» contiene indeterminatezza e vaghezza circa la composizione strutturale dell'orologio, ma possiede un senso chiarissimo. Al punto che potrebbe equivalere a «c'è un complesso di rotelle, molle e lancette connesse insieme in qualche modo,e questo complesso è posto nel panciotto di Marenco.»

Cosa possiamo comprendere da ciò? Che il senso della proposizione è molto più complicato della proposizione stessa. Ovvero che il suo significato si riferisce ad un complesso che richiede e presuppone la conoscenza dell'oggetto. Non c'è nulla di sbagliato - dice Wittgenstein - nell'omettere tutta la storia dell'orologio e la descrizione della sua natura di orologio: infatti si può far uso delle convenzioni del nostro linguaggio straordinariamente complicate. (Q 169)
Infatti, anche una proposizione come «l'orologio è posto nel panciotto di Marenco» enuncia chiaramente qualcosa di determinato; l'analisi non fa altro che mettere in evidenza un senso preesistente. Ovviamente, in ogni circostanza, si tratta di stabilire se una proposizione del tipo succitato sia vera o falsa. Perché potrebbero darsi delle «posizioni dell'orologio» che potrebbero sfuggirmi. Per aggirare la difficoltà, Wittgenstein arriva ad ammettere che un fatto sia immagine di sé stesso. Se supponiamo che la proposizione sia falsa, non dovrebbe esistere un aggregato di realtà composto da orologio-panciotto-Marenco, un aggregato da indicare con il dito. Kenny è persuaso che nei Quaderni che precedono la composizione del Tractatus Wittgestein non abbia trovato la soluzione ai problemi sollevati. «Che cosa egli intenda con la nozione di analisi completa di un complesso resta fondamentalmente ambiguo. Forse un'analisi in cui la proposizione verrebbe a contenere tanti elementi quanti sono quelli dello stato di cose che essa raffigura (come suggeriscono i passi datati 12 ottobre 1914, 20 ottobre 1914, 18 dicembre 1914 ecc.)? Oppure si intende un'analisi in cui la proposizione verrebbe a contenere tanti elementi quanti io so che ce ne sono nello stato di cose (come suggerito in Q 162)? Se si intende la prima, non si potrebbe pronunciare la più semplice delle proposizioni senza possedere un'incredibile quantità di informazioni sulla composizione dell'universo; se si intende la seconda, allora non sembrerebbe pertinente discutere, come Wittgenstein fa, se gli oggetti spaziali siano divisibili all'infinito. Forse egli non ha colto la differenza fra le due prospettive per il fatto di scegliere frequentemente, come esempio di un possibile oggetto semplice, un punto del campo visivo. Poiché quest'ultimo è un qualcosa di fenomenico, quello che c'è nel campo visivo coincide con quello che io so esserci; ne segue che chiedersi se ci sono infiniti punti nel campo visivo (Q 163) è lo stesso che chiedersi se io vedo infiniti punti. Ma non è lo stesso se come esempio di oggetti semplici scegliamo le particelle materiali della fisica. (Q 107, 165 sg.)» (4)

Il Tractatus non precisa quali generi di oggetti siano da considerare semplici. E nemmeno dice se gli oggetti semplici siano elementi singoli particolari o universali. Ciò è coerente con l'affermazione che egli sa dell'esistenza di oggetti semplici solo a priori, e che non può darne alcun esempio. Abbiamo che, non potendo fare alcun esempio di nomi per oggetti semplici, non possiamo nemmeno fare esempi di proposizioni elementari, considerato che queste consistono di concatenazioni di nomi. Ciò nonostante, Wittgenstein afferma che tutte le proposizioni del linguaggio comune, a parte le sciocchezze e i tentativi di dire l'ineffabile, sono funzioni di verità delle proposizioni elementari. (T 4.4, 5) Quindi, supponendo che mi siano date tutte le proposizioni elementari, potrei domandare quali proposizioni posso formare mediante esse; allora avrei tutte le proposizioni possibili. (T 4.51)

«5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari» (T 5)
«E' naturale pensare che il significato di questa affermazione sia che tutte le proposizioni possono essere costruite a partire dalle proposizioni elementari più le costanti logiche "e", "o" ecc. così come "p o q" è formata da "p", "o" e "q". Ma Wittgenstein - dice Kenny - lo riterrebbe sbagliato, in quanto può far sembrare che le costanti logiche aggiungano qualcosa di nuovo rispetto a ciò che già è contenuto nelle proposizioni elementari. Il modo in cui dalle proposizioni elementari nasce la funzione di verità è un'operazione. (T 5.3) "Operazione" è il termine tecnico usato da Wittgenstein per riferirsi a ciò che deve farsi con una proposizione per produrne da essa un'altra (T 5.23). La negazione è un'operazione (T 5.2341; Q 31). Non si riduce, ovviamente, ad aggiungere la parola "non" o una tilde a una proposizione; se le convenzioni fossero diverse il loro effetto potrebbe essere completamente differente (T 5.512). La negazione consiste nel rovesciare il senso di una proposizione, cioè nello scambiare tutte le "V" della sua tavola di verità con delle "F", e viceversa. Se, come Wittgenstein suggerisce, consideriamo le stesse tavole di verità come segni proposizionali (T 4.44), allora tutte le operazioni di verità (vale a dire, tutte le operazioni che hanno come risultato le funzioni di verità, e le proposizioni elementari quali basi (T 5.234) possono essere considerate come delle variazioni dello schema delle "V" e delle "F" nella tavola. In effetti, ogni funzione di verità può risultare dall'applicazione successiva di un unico schema di modifica delle proposizioni elementari.» (5)
Possiamo rappresentare una tavola di verità e vedere come opera Wittgenstein.

p N (p) p q N (p, q) pp q r N (p, q, r)
V ccF V V ccF cV V V cc F
F ccV F V cc F cF V V cc F
V F cc F cV F V cc F
F F ccV cF F V cc F
cV V F cc F
cF V F cc F
cV F F cc F
c F F F ccV

N (p) è la negazione di "p", N(p,q) la negazione di "p" e di "q", N(p,q,r) è la negazione di "p", "q", "r" e così via qualunque sia il numero delle proposizioni tra parentesi. Se osserviamo attentamente, vedremo che ogni negazione N è sempre falsa ad eccezione che nell'ultima riga. Abbiamo l'impressione, d'accordo con Kenny, che non sia affatto chiaro il modo in cui ogni proposizione risulti da successive operazioni N(...) applicata a proposizioni elementari., e nemmeno il modo in cui l'uso di questa operazione ci dà la forma più generale della transizione da una proposizione all'altra. (T 6.001) Per capacitarsi, occorre un esempio meno complesso. Quando Wittgenstein dice che tutte le possibili funzioni di verità di un numero dato di proposizioni elementari possono essere scritte in uno schema semplice, vuol dire, ad esempio, che esiste un numero limitato di funzioni di verità se consideriamo solo due proposizioni: p e q.
Vediamo:

p q 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16
V V V F V V V F F F V V V F F F V F
F V V V F V V F V V F F V F F V F F
V F V V V F V V F V F V F F V F F F
F F V V V V F V V F V F F V F F F F

La combinazione qui sopra interessa solo due proposizioni: p e q.
Nella prima colonna sono evidenziate tutte le possibilità, ovvero che p sia vera e q vera, che p sia falsa e q vera, ecc. Nelle altre colonne vengono sviluppate le possibilità in modo che ad ogni coppia di "vero" e "falso", "vero e "vero", "falso" e "falso" corrisponda un riconoscimento di V o F che riguarda l'insieme di p e q, p o q, p in rapporto a q, q come funzione di verità per i due argomenti distinti p e q, e così via. Alle estremità delle colonne, cioè a quella 1 ed a quella 16, troviamo le funzioni di verità "degenerate", la tautologia e la contraddizione. Posto, che p e q siano entrambe vere, come può essere che, alla colonna 16, il loro concatenamento risulti falso? Certo, se entrambe false, allora F nella quarta casella è appropriato e non contraddittorio. Ma dobbiamo considerare che anche V nella prima casella della colonna 1 non è che una tautologia, cioè non fa che ripetere quello che è implicito negli enunciati p e q.
Secondo Wittgenstein, non è necessario ricorrere a tavole di verità di diversa dimensione per rappresentare proposizioni di diversa complessità. Se abbiamo a che fare con n proposizioni elementari, basterà una una tavola di verità con 2n righe per contenere tutte le combinazioni possibili.
Seguiamo il commento di Kenny: «Immaginiamo ora di avere un universo (Wittgenstein direbbe: uno spazio logico) con n possibili stati di cose. La nostra tavola di verità con 2n righe conterrà ogni possibile proposizione su quell'universo (ovviamente conterrà anche tautologie e contraddizioni che, a rigor di termini, non sono "su" quell'universo, ma questa è una cosa che possiamo trascurare). Fra le proposizioni della parte di destra vi saranno le proposizioni elementari, ciascuna delle quali espressa ora come funzione di verità di tutte le proposizioni elementari che ci sono. Se si considerano le proposizioni elementari espresse in questo modo, per esse risulteranno vere due cose: 1) poiché ciascuna proposizione elementare è espressa come una funzione di tutte le proposizioni elementari, e poichè se sono date tutte le proposizioni elementari sono dati anche tutti i nomi, allora ciascuna proposizione elementare conterrà il nome di tutti gli oggetti che ci sono nell'universo; 2) ogni proposizione elementare apparirà come la congiunzione della proposizione stessa con una tautologia: nella tavola precedente, ad esempio, "p", in quanto funzione di verità di "p" e "q", è equivalente a "p e (q o non-q)" (vedi T 4.465).» (6)
Non mi pare il caso, in questa sede, di mostrare come sia possibile raggiungere ogni proposizione che compare nella tavola applicando ripetutamente l'operazione N alle proposizioni elementari. Dovrei entrare in un tecnicismo ancora più complesso di quello necessario finora. Ci basti sapere, che è possibile, ma con ciò saremmo ancora lontani dall'avere una prova formale di questa possibilità. Wittgenstein non prova ciò che asserisce in T6, cioè che la forma generale della funzione di verità è: [,,N( ) ], e si limita a dire: «Poiché è manifestatamente facile esprimere come, con questa operazione, possano essere formate proposizioni, e come, con essa non siano da formare proposizioni, questo deve pure poter trovare un'espressione esatta.» (T 5.503) In T 6.001 leggiamo ancora: «Questo non dice altro se non che ogni proposizione è un risultato dell'applicazione successiva dell'operazione N() alle proposizioni elementari», infine in T 6.002: «Se è data la forma generale nella quale una proposizione è costruita, con ciò stesso è già data anche la forma generale, nella quale, da una proposizione, ne può essere prodotta un'altra mediante un'operazione.»
Come già detto nell'introduzione, le certezze di Wittgenstein su questo punto venivano dalla dimostrazione data da H. Sheffer.
Wittgenstein, però, andò oltre Sheffer, sostenendo che ogni proposizione è una funzione di verità di proposizioni elementari, in modo che la formula di costruzione delle proposizioni vero-funzionali era la forma generale delle proposizioni. (T 5.3) Ciò è diverso dal sostenere che ogni funzione di verità degli enunciati elementari poteva venire costruita con l'applicazione ripetuta ad ognuno dell'operazione N. Il problema è dato, secondo Kenny, dal fatto che né Wittgenstein, né i suoi critici, sono in grado di dare un esempio, o anche solo di mostrare, una proposizione elementare. L'espressione «la neve è bianca» può essere valutata in molti modi, anche come funzione di verità di proposizioni elementari. In realtà, tuttavia, le espressioni del linguaggio comune sembrano in grado di entrare in altre proposizioni del linguaggio comune anche in modo non vero-funzionale. Kenny fa questo esempio: «"La neve è bianca" oltre a comparire in maniera non vero-funzionale nella proposizione "Non è vero che la neve è bianca", compare in maniera non vero-funzionale in "E' possibile che la neve sia bianca" (T5.541 sgg). Inoltre, sebbene "Per ogni x, x è bianco" sia in relazione con "La neve è bianca" (la implica), non sembra però che ne sia una funzione di verità. Malgrado ciò, Wittgenstein affermò che "nella forma proposizionale generale la proposizone occorre nella proposizione solo quale base delle operazioni di verità" (T 5.54).» (7)

Nel prossimo file tenteremo di discutere questo punto in modo più dettagliato.

(continua)

(1) B.Russell - La conoscenza del mondo esterno - 1914 - I ed. in italiano Il Labirinto Longanesi 1966
(2) A. J. P. Kenny - Wittgenstein - Bollati Boringhieri 1984
(3) idem
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem

LB - 24 novembre 2006