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La "Kehre" di Wittgenstein
di Loris Basini


Se ho esaurito le giustificazioni, la mia vanga ha raggiunto la pietra e ne è stata sviata. Quindi sono incline a dire: "Questo è semplicemente ciò che faccio".

 


Si parla di primo e secondo Wittgenstein con estrema disinvoltura, si dà per acquisita una svolta profonda nel suo pensiero, si dice che il secondo abbia confutato il primo persino con accanimento. Ciò è vero, ma solo in parte. Su alcuni punti, ad esempio quello del linguaggio come raffigurazione, la "rottura" è innegabile. Ma su altri, anche senza eccessiva fatica, si possono trovare elementi di continuità. Il tema del linguaggio rimane la costante. Se il primo Wittgenstein ruota nell'orbita di Bertrand Russell, il secondo risente del rapporto con George E.Moore, e anche di quello con l'economista italiano Piero Sraffa. A differenza di Russell, che aveva privilegiato il momento logico formale, e i suoi paradossi, Moore è orientato 'filologicamente', avendo studiato greco e latino. Anch'egli combatte la 'vaghezza argomentativa' dei grandi filosofi idealisti, ma non pretende di demolirla mettendola a confronto con la struttura logico-oggettiva, bensì analizzando e scomponendo le tesi filosofiche, fino a ridurle al loro minimo, a 'tesi semplici'. In tal modo, Moore rendeva le tesi filosofiche commisurabili al senso comune, quindi a quello che gli sembrava il comune empirismo, dal quale tale senso comune è alimentato. Wittgenstein aveva conosciuto Moore, insieme all'economista J. M. Keynes, durante il primo soggiorno a Cambridge. Furono Russell e Moore ad esaminarlo per la laurea in filosofia nel '29. Come vedremo in un prossimo file, Moore giocò un ruolo importante nello spingere Wittgenstein ad occuparsi anche di epistemologia. Per ora è sufficiente richiamare il suo nome ed il suo modo di riflessione, specie con lo scritto In difesa del senso comune del 1925. Uno scritto che toccò sicuramente Wittgenstein, quantomeno trasversalmente.

Il nuovo Wittgenstein cambia lo stile espositivo, ma non muta il tono dell'interrogazione filosofica, che rimane 'strana' e 'profonda' cioè del tutto peculiare. Andiamo con ordine. Innanzitutto, bisogna sbarazzarsi del mito di un decennio, quello dal 1919 al 1929, nel quale Wittgenstein si sarebbe occupato di "vivere" e non di "pensare", soprattutto di pensare "filosoficamente". L'eco suscitato dalla pubblicazione del Tractatus portò la fama di Wittgenstein alle stelle. Presero contatto con lui figure come il giovane Frank Ramsey di Cambridge e Moritz Schlick da Vienna. Schlick organizzò numerosi incontri tra Wittgenstein e i membri del costituendo Wiener Kreis, in particolare Carnap, Feigl e Waismann. E' indubbio che il Tractatus ebbe un'enorme influenza sul pensiero dei neopositivisti, perché fornì loro il cibo necessario ad una teoria empirica del linguaggio.
Il ruolo di Ramsey, che aveva tradotto il Tractatus in inglese, fu diverso. Egli ebbe infatti l'ardire di muovere diverse obiezioni e stimolò Wittgenstein a ripensare alcune formulazioni ed alcune tesi. Il dattiloscritto Osservazioni filosofiche fu sostanzialmente il frutto della convinzione di far rientrare nel medesimo alveo in cui scorreva il fiume del Tractatus alcune delle osservazioni di Ramsey, o meglio, delle reazioni alle obiezioni di Ramsey. Osservazioni filosofiche fu completato nella primavera del 1930, ma fu pubblicato solo postumo. Ramsey, a soli 19 anni, era andato a trovare Wittgenstein a Trattenbach, un paesotto di montagna nella bassa Austria, ricevendo dall'incontro viva impressione e non poco sconcerto. Dal canto suo, Russell, mentore del primo Wittgenstein, continuò ad avere uno scambio epistolare col Wittgenstein 1 e ½.

Ora è opinione corrente e consolidata che Wittgenstein non smise di "pensare" filosoficamente, ma che smise, piuttosto, di "militare" in filosofia, "oscurandosi" per un lungo periodo. Indubbiamente, l'intento era quello di fare esperienze al di fuori del mondo accademico e delle discussioni astratte. Su questo periodo esiste ormai una consistente letteratura che ha saputo evidenziare diversi aspetti del 'calvario esistenziale' di Wittgenstein alla ricerca di una "decenza". E' indubbio che il decennio del silenzio segni una svolta, una "Kehre" nella vicenda umana e filosofica. Sappiamo che fu sull'orlo del suicidio, che fu tentato dal "prendere i voti", che fu profondamente deluso dall'esperienza di insegnante elementare, e che fu soprattutto la gente dei monti a deluderlo per la propria insipienza morale e intellettuale, non diversamente, del resto, da quel Bertrand Russell che scriveva opere di filosofia popolare sorprendentemente 'ripugnanti'.

Il passaggio dal Tractatus alle Ricerche filosofiche fu considerevolmente lento e laborioso. E' evidente fin dalle prime pagine lo sforzo di Wittgenstein indirizzato a scrivere un'opera organica, concentrata su pochi temi: la relazione linguaggio-mondo, il significato, la comprensione, il rapporto tra significato e stati mentali. Lo stile è decisamente diverso da quello del Tractatus. Non più aforismi definitivi e solenni, gettati in faccia al lettore senza adeguata spiegazione, ma una prosa problematica, che non lesina ritorni sui medesimi punti sotto angolature diverse.
I paragrafi §§ 1-137 contengono una critica serrata alle posizioni difese dallo stesso Wittgenstein nel Tractatus. Estremamente significative sono le pagine dedicate alla demolizione della teoria della denotazione e della dottrina raffigurativa del significato delle proposizioni, la quale si regge sulla denotazione. Poi viene presentata la teoria che si incentra sul significato dei termini e delle proposizioni entro differenti giochi linguistici. Successivamente, Wittgenstein critica la tesi che la filosofia si debbe occupare dell'essenza di qualcosa come il linguaggio e la proposizione, per giungere a dichiarare che non è vero che solo un ideale logico di linguaggio potrebbe rendere lo stesso aderente alla realtà, quindi capace di descrivere gli stati di cose reali e possibili. La filosofia, questa la tesi di Wittgenstein, deve descrivere il linguaggio così com'è, dunque come lo trova. Occorre badare in particolare al nostro linguaggio ordinario e corrente, avendo in vista l'obiettivo di liberarlo dai fraintendimenti concettuali in cui si incappa se non si afferra la grammatica dei termini che lo costituiscono. In tale luce si avanza la tesi che molti concetti sono caratterizzabili dall'esistenza di "somiglianze di famiglia" tra gli oggetti cui gli stessi concetti si riferiscono. Nei paragrafi §§ 138-184, Wittgenstein affronta il rapporto tra significato e comprensione, e polemizza contro la tesi mentalista seconda la quale comprendere vuol dire entrare con la testa in certi stati mentali, ovvero ripetere esperienze comuni a chi ha pensato o detto qualcosa in precedenza.
La posizione dei mentalisti è che deve esistere un'immagine interna associata ad ogni termine del linguaggio. Locke e Hume sostennero questa idea associativa. Wittgenstein, però, va alla radice del mentalismo semantico, e cita Agostino. Potremmo così scoprire che proprio Agostino ispirò le posizioni rilevanti del Tractatus, che Wittgenstein si dispone ora a rinnegare. Se nel T. Wittgenstein aveva detto che una proposizione non ha il particolare senso che ha, ovvero non è immagine di uno stato di cose fino a quando non è considerata come il rendiconto di un simile stato di cose, ora Wittgenstein dice che ciò è paradossale.
Sostiene infatti che l'avere una determinata esperienza consapevole non è condizione sufficiente per usare un termine in un dato significato. Wittgenstein dice che non c'è significato senza spiegazione esterna del significato. La spiegazione è data dall'uso corrente di un termine nel linguaggio. Si trova nei vocabolari e non nelle nostre esperienze mentali. La connessione interna di significato e comprensione non implica l'assunto dei mentalisti, per i quali il significato è prodotto da un evento mentale. Wittgenstein porta l'esempio di una successione aritmetica enunciata senza precisare la regola che la successione segue. Tutti siamo in grado di capire la regola, sempre che i numeri non siano sparati a casaccio, senza che questa regola sia stata esperita prima d'ora. Wittgenstein suggerisce persino, caso davvero estremo, che un tizio possa semplicemente sentirsi a proprio agio con una serie numerica del tipo 1, 5, 11, 19, 29, la cui regola non è facilmente intuibile, perché non si tratta di quella di numeri dispari elencati in una successione 'a caso', ma della formula an = n2+n-1.

Secondo Wittgenstein avere una nozione di "regola" comporta (e comunque aiuta) a chiarire la nozione di "significato". Anche seguendo una regola noi critichiamo il mentalismo. E seguendo una regola, analizzando cosa significa, comprendiamo anche che il mentalismo potrebbe originare l'idea della possibilità di un linguaggio privato, limitato all'espressione di sensazione personali e stati interni. Wittgenstein si impegna a dimostrare che un tale linguaggio non può esistere, data l'impossibilità di ottemperare a criteri di normatività. Molti fraintendimenti nascono dall'abuso che si compie violando la regola che impone di usare un linguaggio pubblico ordinario accessibile e comprensibile perché regolato. Queste osservazioni aprono un capitolo della storia della filosofia che, a mio avviso, è ancora in gran parte da scrivere. Infatti, le osservazioni di Wittgenstein negano una validità alle filosofie empiriste che affermano che noi possiamo intendere solo sulla base di una riflessione sulla nostra esperienza, la quale, sola, sarebbe realmente comprensiva.

Anche i paragrafi sui "giochi linguistici" rivestono un'importanza straordinaria. Tentare una definizione esaustiva del gioco linguistico è come vincere un terno al lotto. E' meglio ricorrere ad esempi, perché esiste una pluralità di insiemi differenti che potremmo chiamare "giochi linguistici". Un primo esempio viene dalla possibilità di usare la medesima proposizione in contesti diversi. Ma questo comporta che essi siano usati per scopi differenti. Questo vale per la descrizione, ma anche nel caso si voglia comandare, chiedere, avanzare ipotesi. Anche questi sono "giochi linguistici".
Ciò vale anche per le parole singole, le quali possono essere utilizzate in contesti diversi con significati diversi. Molteplici giochi linguistici con singole parole si realizzano attraverso le informazioni che ogni parola 'veicola' in contesti diversificati. Un gioco linguistico effettuato attraverso un numerale è completamente diverso da un gioco effettuato su un termine indicante la forma di un oggetto.
Un linguaggio completo, sia esso primitivo o portato alla più raffinata delle articolazioni, è un gioco linguistico. L'esempio, spesso più citato, di un gioco linguistico 'denotazionale' è quello dei muratori. Due muratori al lavoro devono per forza comunicare. Uno nomina oggetti come "mattone", "pilastro", "lastra", "trave". L'altro glie li porge. Il gioco linguistico in atto in un cantiere edile è una forma primitiva e autonoma di linguaggio. Ma anche prendendo in esame giochi più complessi, si può considerare il valore metodologico del gioco: «i giochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luce attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio» (RF § 130)
Parlare del linguaggio come insieme di giochi linguistici, spesso eterogenei, evidenzia il suo carattere prassiologico. «Qui la parola "gioco linguistico" è destinata a mettere in evidenza il fatto che parlare un linguaggio fa parte di un'attività, o di una forma di vita.» (RF § 23). Non c'è un soggetto parlante o scrivente astratto che costruisce il linguaggio e le sue regole sintattiche; esso è il risultato dell'uso in un contesto di attività di carattere sociale.
Parlare e comprendere un linguaggio non può essere un'attività svolta in completo isolamento. Una serie di procedure linguistiche perderebbero il loro scopo se non fossero considerate come interne di attività extralinguistiche. Un caso particolare potrebbe essere quello del contare e del misurare. Difficilmente ci si metterebbe a contare, dice Wittgenstein, se non si avesse lo scopo di quantificare il numero di oggetti, pesarli, misurarli.
Questo livello del gioco linguistico come prassi rappresenterebbe tuttavia ancora una dimensione logica del linguaggio. In realtà, però, quando Wittgenstein ricorre all'espressione "forma di vita" situa il problema del gioco ad un livello ulteriore. Se il linguaggio è costitutivamente attività umana, esso dipende da un particolare tipo di relazioni pre-linguistiche. Inoltre, i giochi linguistici non possono essere considerati territori senza legge, a-normati. Il linguaggio è configurazione di simboli soggetta a regole. A fissare le regole è l'attività. Un sistema di regole grammaticali non è arbitrario, non è nemmeno il risultato di una contrattazione, o di una convenzione linguistica, ma è dato dalla sua natura umana. Le regole non sarebbero sistematiche se gli individui che giocano quel gioco non disponessero, e non riproponessero con costanza, le medesime reazioni di fronte alle situazioni linguistiche. «Ha senso dire che, in generale, gli uomini concordano relativamente ai loro giudizi di colore? E se le cose stessero altrimenti? - Questo direbbe che è rosso il fiore che l'altro chiama blu, ecc. ecc. - Ma allora con quale diritto si potrebbe dire che le parole "rosso" e "blu", che questi uomini usano, sono i nostri colori?» (RF p. 295)

Un altro punto interessante è quello del prendere qualcosa per qualcos'altro.

Nell'immagine sono raffigurati un coniglio e/o un'anatra. Dipende da come guardiamo, se da destra a sinistra o da sinistra a destra. Si tratta di un'immagine ambigua. In natura non è possibile che noi si possa cadere in dubbio se l'animale che abbiamo davanti, e non che scorgiamo nel chiaroscuro o nella nebbia, sia un'anatra oppure un coniglio. Eppure, una figura di questo tipo ci imbarazza e ci diverte, e chissà cos'altro. Essa ci induce a considerare un problema che potremmo chiamare vedere-come. Da una semplice indagine di ordine fisiologico non potrebbe venire nulla di interessante sul piano concettuale. Quello che interessa, al contrario, è un problema di ordine concettuale e non empirico. Il criterio non mentalista che ci serve è "la rappresentazione di ciò che si è visto". La mia esperienza può mutare da quando vedo la figura come un'anatra a quando la vedo come coniglio. Se qualcuno mi chiedesse cosa vedo, darei una descrizione articolata e differenziata di due esperienze diverse di due immagini diverse. Il vedere-come, allora, è un concetto intermedio tra vedere e pensare. Vedere-come non è "vedere" tout court. Noi non percepiamo più un oggetto in modo ordinario. Nel vedere-come è insito un elemento volontaristico che non si trova nella percezione ordinaria. La forma di descrizione che discende dalla percezione ordinaria di una forchetta non mi porta a dire che "sto provando a vedere una forchetta nella forchetta che sta sul tavolo". Diversamente, nella figura ambigua che ho davanti, ora provo a vedere l'anatra e poi riprovo a vedere il coniglio.
Il vedere-come non è però nemmeno un pensare, cioè una condizione puramente intellettuale. Esso, infatti, impone in primo luogo di vedere. E' dunque pur sempre esperienza visiva, ma di natura complessa.
Tra i chiarimenti che Wittgenstein cerca di dare circa il vedere-come, e quindi il vedere qualcosa per qualcos'altro, troviamo il percepire somiglianze. Ma egli è anche costretto a dire qualcosa sul carattere dell'immagine, sui requisiti necessari che un'immagine ambigua deve avere. Essa deve essere stata pensata e progettata per avere intrinsecamente un doppio senso. Se non avesse in sé le proprietà di poter apparire come anatra e come coniglio, non sarebbe bivalente.

Questa breve nota, ovviamente, serve unicamente a introdurre per sommi capi il pensiero del secondo Wittgenstein, e non ha alcuna pretesa esaustiva. Chi fosse interessato ad un approfondimento, dovrà dunque attendere futuri sviluppi, sia da parte mia che da altri collaboratori di "Moses".
L B - 24 novembre 2006