Introdurre Wittgenstein è sempre un'impresa
perché occorre spostare l'attenzione
su un universo di discorso radicalmente diverso
da quello della filosofia più tradizionale,
sia essa empiristica, neo-critica, fenomenologica
o neo-positivista. Con Wittgenstein, infatti,
entriamo in una dimensione nella quale è
data preminenza al linguaggio. Esiste un
mondo, ed esso è la totalità
dei fatti. Esiste poi un linguaggio che è
la totalità delle proposizioni che
intendono significare i fatti del mondo.
Anche le proposizioni sono fatti, ma sono
"fatti" diversi: i fatti accadono
in silenzio, non significano, non dicono.
Le proposizioni, al contrario, intendono
significare i fatti stessi. Pertanto, il
linguaggio va inteso come raffigurazione logica
del mondo. Ciò significa che non abbiamo la possibilità
di pensare e di conoscere autonomamente dal
mondo e dal linguaggio. In tutti i casi possibili
non c'è conoscenza indipendente dall'uno,
quindi dall'esperienza, o dall'altro, quindi
dalla cultura che l'umanità ha prodotto studiando
il mondo. Ma ciò che costituisce
il
nostro mondo, in primis il mondo del
pensiero
sul mondo, è il linguaggio.
Il linguaggio
è il tramite del pensiero sul
mondo
comunicato da chi usa il linguaggio
per trasmettere
a chi lo usa per ricevere.
Il motto del Tractatus logico-philosophicus era «Ciò che si può dire in tre parole».
E l'intera trattazione era articolata in
sette enunciati, cui seguiva un commento
fatto di enunciati.
1. Il mondo è tutto ciò che accade
2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere
di stati di cose
3. L'immagine logica dei fatti è il
pensiero
4. Il pensiero è la proposizione munita
di
senso.
5. La proposizione è una funzione di
verità
delle proposizioni elementari
6. La forma generale della funzione di verità
è:[,,N( ) ]
7) Su ciò di cui non si può
parlare, si deve tacere.
Se escludiamo la proposizione n. 6,
che non
si può comprendere senza una spiegazione
logica, il quadro concettuale è molto
chiaro,
elementare, Watson! I punti 1 e 2 definiscono
ontologicamente il mondo come luogo
di eventi
e non di essenze, ergo di "cose".
Dopo la relatività einsteniana, Wittgenstein
pensa tempo e spazio come congiunti
in un
unico spazio-tempo. Orbene, ci sono
eventi,
non oggetti.
I punti 3 e 4 vogliono significare che il
linguaggio è un'immagine isomorfa del mondo.
Una proposizione è vera se il fatto fotograficamente riportato accade nel mondo. Il punto 4 è
particolarmente importante e mi pare conveniente
mostrare un esempio di argomentazione wittgensteiniana:
«4.001 La totalità delle proposizioni
è il linguaggio.
4.002 L'uomo possiede la capacità di
costruire
linguaggi, con i quali ogni senso può
esprimersi,
senza sospettare come e che cosa ogni
parola
significhi. - Così come si parla senza
sapere
come i singoli suoni siano emessi.
Il linguaggio comune è una parte dell'organismo
umano, né è meno complicato di questo.
È umanamente impossibile desumerne
immediatamente
la logica del linguaggio.
Il linguaggio traveste i pensieri.
E precisamente
così che dalla forma esteriore dell'abito
non si può concludere alla forma del
pensiero
rivestito; perché la forma esteriore
dell'abito
è formata per ben altri scopi che quello
di far riconoscere la forma del corpo.
Le tacite intese per la comprensione
del
linguaggio comune sono enormemente
complicate.
4.003 Il più delle proposizioni e questioni
che sono state scritte su cose filosofiche
non è falso, ma insensato. Perciò a questioni
di questa specie non possiamo affatto rispondere,
ma possiamo solo stabilire la loro insensatezza.
Il più delle questioni e proposizioni dei
filosofi si fonda sul fatto che noi non comprendiamo
la nostra logica del linguaggio.
(Esse sono della specie della questione,
se il bene sia più o meno identico
del bello).
Né meraviglia che i problemi più profondi
propriamente non siano problemi.»
Il punto 5 asserisce che il linguaggio
è
riducibile alla logica proposizionale,
pertanto
il valore di verità di una proposizione
è
riducibile al valore di verità delle
sue
componenti.
Il punto 6, suggerisce Piergiorgio Odifreddi,
è «semplicemente una concessione alla
moda del momento: al fatto, cioè, che nel
1913 Henry Sheffer aveva scoperto il connettivo
"non entrambi" già studiato da
Crisippo, al quale si possono facilmente
ridurre tutti gli altri. La riduzione di
tutti i connettivi a uno solo fu evidentemente
considerata eccitante, visto che la adottarono
sia Wittgenstein nel Tractatus sia Russell e Whitehead nella seconda edizione
dei Principia.» (1)
Franca D'Agostini spiega che indica la proposizione elementare e una variabile che indica l'espressione in
cui figurano, appunto, in qualità di
"termini"
(cioè di componenti), le proposizioni
elementari..
N() è la negazione di ogni termine di una espressione,
cioè una proposizione complessa. La linea
sopra i simboli delle variabili "¯
" sta a indicare che esse "rappresentano
tutti i loro valori". (2)
Il punto 7 è espresso in modo irritante.
Se Wittgenstein avesse usato il condizionale,
sarebbe stato meglio. A prescindere, tuttavia,
dal "si dovrebbe", possiamo notare,
con Remo Bodei, che al di qua del "mistico"
non abbiamo solo il dovere di parlare, ma
di parlare correttamente. «invece succede
che ci impigliamo nelle regole del nostro
stesso linguaggio, ci confondiamo e formuliamo
proposizioni che non sono significanti. Ossia,
afferma Wittgenstein (che sviluppa qui una
distinzione tradizionale: tra verità di ragione
e verità di fatto in Leibniz, tra relazioni
fra idee e relazioni fra fatti in Hume e
tra giudizi analitici e giudizi sintetici
in Kant), proposizioni che non sono tautologiche,
né empiricamente verificabili. La filosofia
diventa, in queste condizioni, un'attività
che per compito quello di perimetrare l'area
del linguaggio significante e di chiarificare
la logica del pensiero, eliminando le espressioni
confuse e senza senso.» (3)
Piergiorgio Odifreddi, a mio avviso, avanza
alcune osservazioni sostanziose in merito
al Tractatus. Se è vero che il lavoro mette il dito sulla
piaga delle limitazioni intrinseche del linguaggio,
in particolare sul fatto che, benché esso
mostri sempre la propria forma logica, non
può parlarne, allora, occorre intendersi.
Possiamo ipotizzare che Wittgenstein si riferisse
alla sola struttura sintattica. Ovvero a
cosa rende una successione di simboli una
proposizione sensata. In tal caso, Wittgenstein
sbagliava gravemente. Kurt Gödel dimostrò
che nel 1931 che ogni linguaggio sufficientemente
potente può esprimere la propria sintassi.
«Se invece per "forma logica"
intendeva la struttura semantica del linguaggio,
cioè cosa renda vera una proposizione sensata,
allora Wittgenstein aveva ragione: Tarski
dimostrò infatti nel 1936 ... che nessun
linguaggio sufficientemente potente può definire
la propria verità, e dunque esprimere la
propria semantica. Anche se già nella sua
introduzione al Tractatus Russell anticipò che limitazioni di un linguaggio
sono relative ad esso, e si possono
facilmente
aggirare, uscendo dal linguaggio ed
entrando
in un metalinguaggio: ovvero, "su
ciò
di cui non si può parlare in un linguaggio,
si può parlare in un altro".»
(4) E questo sarà proprio il terreno
di ricerca
del II Wittgenstein. Ma, al momento,
il giovane
Wittgenstein era arciconvinto di aver
definitivamente
risolto il problema della filosofia.
Rimanendo ben saldi in tale ambito di ragionamento,
possiamo notare, con Michele Di Francesco,
che sia Frege che Russell avevano posto anch'essi
la logica al centro delle loro ricerche ma,
paradossalmente, non avevano trovato granché
da dire sulla sua natura. Sia Frege che Russell,
in sostanza, avevano sposato la causa del
platonismo. Questo comportava il considerare
le proposizioni logiche come espressioni
del rapporto tra "proposizioni"
o "pensieri" riposanti in "un
terzo regno" al di là dell'esperienza.
Per questa via, dunque, la conoscenza viene
fatta dipendere, oltre che dall'esperienza
sensibile, anche, e soprattutto, dalla percezione
intellettuale di relazioni ed oggetti logici
fondamentali. Assumendo tale visione, non
si può non ammettere che l'oggetto della
conoscenza rimane una sorta di mistero mistico
che si rivela a spizzichi solo a matematici
molto dotati da madre natura. «Il merito
di aver dissolto il mistero lo rivendicherà
Ludwig Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus (1922) propone la celebre teoria secondo
cui le proposizioni logiche (e matematiche)
sono "tautologie"... vere solo
in virtù della loro forma. Ciò rende le "verità
della logica" puramente linguistiche:
esse sono tali non in quanto affermano qualcosa
che corrisponde alla realtà, ma perché la
natura del simbolismo le rende tali; anzi
a rigore non si dovrebbe parlare nemmeno
di verità, in quanto le tautologie non dicono
nulla del mondo ("A A") non descrive alcun "fatto",
ma spiega, o meglio mostra, una regola fondamentale nell'uso del simbolo
"".» (5)
Ciò significa altresì che di fronte ad una
proposizione nella forma "se p allora q" e ad una nella forma "p / perciò q" un eventuale tentativo di dimostrazione
non avrebbe alcun senso. O si vede
o ciao.
Tentassimo di dimostrarlo grazie a
qualche
altro principio logico, anche quel
principio
dovrebbe poggiare su una dimostrazione:
ci
troveremmo impastoiati in un regresso
infinito.
Per Wittgenstein, in sostanza, la logica
poteva solo essere mostrata, non detta.
Su questi basi è abbastanza naturale scoprire
che Wittgenstein, applicando tali principi
nel trattare le proposizioni causali e le
leggi scientifiche, finì col trovarsi in
una posizione molto vicina a quella di Hume.
Definisce la credenza nella causalità una
superstizione e osserva: «5.135 In nessun modo può concludersi del sussistere
d'una qualsiasi situazione al sussistere
di una situazione affatto diversa da essa.» Non c'è infatti «5.136 [...] un nesso causale che giustifichi
una tale conclusione. » Non si dà connessione logica "tra
stati di cose". Quindi è sbagliato
dire
qualcosa come "ogni evento ha
la sua
causa. Non è un principio empirico
e nemmeno
una descrizione della natura. Infatti,
potremmo
osservare che due eventi simili, ma
separati,
risultano sempre diversi l'uno dall'altro.
Come spiegare allora l'esistenza di
una teoria
come quella newtoniana che non solo
pretende
di descrivere il rapporto tra corpi
fisici,
ma anche di spiegarlo mediante la legge
di
gravitazione?
I critici hanno definito "anti-fattualista"
la posizione del giovane Wittgenstein. Cerchiamo
di comprenderla meglio. «Sebbene il
mondo non contenga fatti causali - scrive
Alberto Voltolini - l'impalcatura logica
che sostiene ogni mondo possibile/pensabile,
cioè la forma logica del mondo o del nostro linguaggio/pensiero,
è strutturata causalmente. La cosiddetta
legge di causalità non è una legge, ma "la
forma di una legge" (TLP 6.32), ossia
la forma per costruire un sistema di descrizione
del mondo articolato in una serie di leggi
naturali, quello dato dalle proposizioni
della fisica (TLP 6.321. 6.34, 6.341). Nell'essere
tale forma , la legge di causalità è a sua
volta una forma logica del linguaggio/pensiero
o del mondo; se è superstizione la credenza
in tale legge, non così è la sua conoscenza
in quanto conoscenza a priori di una forma
logica (TLP 6.33). Questo comporta che, sebbene
ciascuna specifica descrizione legiforme
del mondo possa essere falsa, nel senso che
potrebbe tranquillamente darsi un mondo possibile
alternativo a quello reale in cui le cose
non si comportano secondo la descrizione
generale espressa da una certa legge naturale,
tuttavia non possiamo pensare alcun mondo
possibile in cui le cose non si comportino
secondo una qualche descrizione legiforme.» (6)
In realtà, dunque la visione di Wittgenstein
è molto più vicina a quella di Kant
che a
quella di Hume, perché questi aveva
fondato
tutte le possibilità della conoscenza
su
esperienze sensoriali, senza ammettere
alcuna
forma a priori decisiva nel determinare
le
forme della conoscenza stessa. Pur
senza
nominare l'a priori, Wittgenstein riconosce
però che esiste un modo di costruire
le leggi
naturali.
C'è ancora da dire che sull'esistenza di
una causalità reale, Wittgenstein tornerà con un testo, Causa ed effetto, probabilmente scritto in reazione ad un
lavoro di Bertrand Russell, I limiti dell'empirismo, elaborato nel periodo 1935-36. Russell
sostenne che Hume non aveva impostato
correttamente
il problema dichiarando che è solo
grazie
all'abitudine che riconosciamo una
relazionedi
causa ed effetto. Secondo Russell,
noi esperiamo
direttamente quella stessa relazione tra eventi.
Sulle posizioni di Wittgenstein in risposta
a Russell, appuntamento ad un prossimo file.
(1) P.Odifreddi - Le menzogne di Ulisse - Longanesi 2004
(2) F. D'Agostini - Breve storia della filosofia nel Novecento
- Einaudi 1999
(3) R.Bodei - La filosofia del Novecento - Donzelli 1997 / 2006
(4) P.Odifreddi - Le menzogne di Ulisse - Longanesi 2004
(5) M. Di Francesco -
Aspetti logico-linguistici dell'impresa scientifica
- in G. Giorello -
Introduzione alla filosofia della scienza
- Bompiani
(6) A. Voltolini -
Wittgenstein tra causalità e libertà - in L. Wittgenstein
Causa ed effetto / seguito da
Lezioni sulla libertà del volere- Einaudi 2006
LB - ottobre 2006 |
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