| home | indice Wittgenstein | indice Heidegger | novecento | filosofia oggi e domani | dizionario |

Il Tractatus del giovane Wittgenstein
di Loris Basini


Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo.

 


Introdurre Wittgenstein è sempre un'impresa perché occorre spostare l'attenzione su un universo di discorso radicalmente diverso da quello della filosofia più tradizionale, sia essa empiristica, neo-critica, fenomenologica o neo-positivista. Con Wittgenstein, infatti, entriamo in una dimensione nella quale è data preminenza al linguaggio. Esiste un mondo, ed esso è la totalità dei fatti. Esiste poi un linguaggio che è la totalità delle proposizioni che intendono significare i fatti del mondo. Anche le proposizioni sono fatti, ma sono "fatti" diversi: i fatti accadono in silenzio, non significano, non dicono. Le proposizioni, al contrario, intendono significare i fatti stessi. Pertanto, il linguaggio va inteso come raffigurazione logica del mondo. Ciò significa che non abbiamo la possibilità di pensare e di conoscere autonomamente dal mondo e dal linguaggio. In tutti i casi possibili non c'è conoscenza indipendente dall'uno, quindi dall'esperienza, o dall'altro, quindi dalla cultura che l'umanità ha prodotto studiando il mondo. Ma ciò che costituisce il nostro mondo, in primis il mondo del pensiero sul mondo, è il linguaggio. Il linguaggio è il tramite del pensiero sul mondo comunicato da chi usa il linguaggio per trasmettere a chi lo usa per ricevere.
Il motto del Tractatus logico-philosophicus era «Ciò che si può dire in tre parole». E l'intera trattazione era articolata in sette enunciati, cui seguiva un commento fatto di enunciati.
1. Il mondo è tutto ciò che accade
2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero
4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.
5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari
6. La forma generale della funzione di verità è:[,,N( ) ]
7) Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

Se escludiamo la proposizione n. 6, che non si può comprendere senza una spiegazione logica, il quadro concettuale è molto chiaro, elementare, Watson! I punti 1 e 2 definiscono ontologicamente il mondo come luogo di eventi e non di essenze, ergo di "cose". Dopo la relatività einsteniana, Wittgenstein pensa tempo e spazio come congiunti in un unico spazio-tempo. Orbene, ci sono eventi, non oggetti.
I punti 3 e 4 vogliono significare che il linguaggio è un'immagine isomorfa del mondo. Una proposizione è vera se il fatto fotograficamente riportato accade nel mondo. Il punto 4 è particolarmente importante e mi pare conveniente mostrare un esempio di argomentazione wittgensteiniana:
«4.001 La totalità delle proposizioni è il linguaggio.

4.002 L'uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. - Così come si parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi.
Il linguaggio comune è una parte dell'organismo umano, né è meno complicato di questo.
È umanamente impossibile desumerne immediatamente la logica del linguaggio.
Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell'abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell'abito è formata per ben altri scopi che quello di far riconoscere la forma del corpo.
Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate.

4.003 Il più delle proposizioni e questioni che sono state scritte su cose filosofiche non è falso, ma insensato. Perciò a questioni di questa specie non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo stabilire la loro insensatezza. Il più delle questioni e proposizioni dei filosofi si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio.
(Esse sono della specie della questione, se il bene sia più o meno identico del bello).
Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi.»

Il punto 5 asserisce che il linguaggio è riducibile alla logica proposizionale, pertanto il valore di verità di una proposizione è riducibile al valore di verità delle sue componenti.
Il punto 6, suggerisce Piergiorgio Odifreddi, è «semplicemente una concessione alla moda del momento: al fatto, cioè, che nel 1913 Henry Sheffer aveva scoperto il connettivo "non entrambi" già studiato da Crisippo, al quale si possono facilmente ridurre tutti gli altri. La riduzione di tutti i connettivi a uno solo fu evidentemente considerata eccitante, visto che la adottarono sia Wittgenstein nel Tractatus sia Russell e Whitehead nella seconda edizione dei Principia.» (1)
Franca D'Agostini spiega che indica la proposizione elementare e una variabile che indica l'espressione in cui figurano, appunto, in qualità di "termini" (cioè di componenti), le proposizioni elementari.. N() è la negazione di ogni termine di una espressione, cioè una proposizione complessa. La linea sopra i simboli delle variabili "¯ " sta a indicare che esse "rappresentano tutti i loro valori". (2)
Il punto 7 è espresso in modo irritante. Se Wittgenstein avesse usato il condizionale, sarebbe stato meglio. A prescindere, tuttavia, dal "si dovrebbe", possiamo notare, con Remo Bodei, che al di qua del "mistico" non abbiamo solo il dovere di parlare, ma di parlare correttamente. «invece succede che ci impigliamo nelle regole del nostro stesso linguaggio, ci confondiamo e formuliamo proposizioni che non sono significanti. Ossia, afferma Wittgenstein (che sviluppa qui una distinzione tradizionale: tra verità di ragione e verità di fatto in Leibniz, tra relazioni fra idee e relazioni fra fatti in Hume e tra giudizi analitici e giudizi sintetici in Kant), proposizioni che non sono tautologiche, né empiricamente verificabili. La filosofia diventa, in queste condizioni, un'attività che per compito quello di perimetrare l'area del linguaggio significante e di chiarificare la logica del pensiero, eliminando le espressioni confuse e senza senso.» (3)

Piergiorgio Odifreddi, a mio avviso, avanza alcune osservazioni sostanziose in merito al Tractatus. Se è vero che il lavoro mette il dito sulla piaga delle limitazioni intrinseche del linguaggio, in particolare sul fatto che, benché esso mostri sempre la propria forma logica, non può parlarne, allora, occorre intendersi. Possiamo ipotizzare che Wittgenstein si riferisse alla sola struttura sintattica. Ovvero a cosa rende una successione di simboli una proposizione sensata. In tal caso, Wittgenstein sbagliava gravemente. Kurt Gödel dimostrò che nel 1931 che ogni linguaggio sufficientemente potente può esprimere la propria sintassi.
«Se invece per "forma logica" intendeva la struttura semantica del linguaggio, cioè cosa renda vera una proposizione sensata, allora Wittgenstein aveva ragione: Tarski dimostrò infatti nel 1936 ... che nessun linguaggio sufficientemente potente può definire la propria verità, e dunque esprimere la propria semantica. Anche se già nella sua introduzione al Tractatus Russell anticipò che limitazioni di un linguaggio sono relative ad esso, e si possono facilmente aggirare, uscendo dal linguaggio ed entrando in un metalinguaggio: ovvero, "su ciò di cui non si può parlare in un linguaggio, si può parlare in un altro".» (4) E questo sarà proprio il terreno di ricerca del II Wittgenstein. Ma, al momento, il giovane Wittgenstein era arciconvinto di aver definitivamente risolto il problema della filosofia.

Rimanendo ben saldi in tale ambito di ragionamento, possiamo notare, con Michele Di Francesco, che sia Frege che Russell avevano posto anch'essi la logica al centro delle loro ricerche ma, paradossalmente, non avevano trovato granché da dire sulla sua natura. Sia Frege che Russell, in sostanza, avevano sposato la causa del platonismo. Questo comportava il considerare le proposizioni logiche come espressioni del rapporto tra "proposizioni" o "pensieri" riposanti in "un terzo regno" al di là dell'esperienza. Per questa via, dunque, la conoscenza viene fatta dipendere, oltre che dall'esperienza sensibile, anche, e soprattutto, dalla percezione intellettuale di relazioni ed oggetti logici fondamentali. Assumendo tale visione, non si può non ammettere che l'oggetto della conoscenza rimane una sorta di mistero mistico che si rivela a spizzichi solo a matematici molto dotati da madre natura. «Il merito di aver dissolto il mistero lo rivendicherà Ludwig Wittgenstein, che nel Tractatus logico-philosophicus (1922) propone la celebre teoria secondo cui le proposizioni logiche (e matematiche) sono "tautologie"... vere solo in virtù della loro forma. Ciò rende le "verità della logica" puramente linguistiche: esse sono tali non in quanto affermano qualcosa che corrisponde alla realtà, ma perché la natura del simbolismo le rende tali; anzi a rigore non si dovrebbe parlare nemmeno di verità, in quanto le tautologie non dicono nulla del mondo ("A A") non descrive alcun "fatto", ma spiega, o meglio mostra, una regola fondamentale nell'uso del simbolo "".» (5)
Ciò significa altresì che di fronte ad una proposizione nella forma "se p allora q" e ad una nella forma "p / perciò q" un eventuale tentativo di dimostrazione non avrebbe alcun senso. O si vede o ciao. Tentassimo di dimostrarlo grazie a qualche altro principio logico, anche quel principio dovrebbe poggiare su una dimostrazione: ci troveremmo impastoiati in un regresso infinito. Per Wittgenstein, in sostanza, la logica poteva solo essere mostrata, non detta.
Su questi basi è abbastanza naturale scoprire che Wittgenstein, applicando tali principi nel trattare le proposizioni causali e le leggi scientifiche, finì col trovarsi in una posizione molto vicina a quella di Hume. Definisce la credenza nella causalità una superstizione e osserva: «5.135 In nessun modo può concludersi del sussistere d'una qualsiasi situazione al sussistere di una situazione affatto diversa da essa.» Non c'è infatti «5.136 [...] un nesso causale che giustifichi una tale conclusione. » Non si dà connessione logica "tra stati di cose". Quindi è sbagliato dire qualcosa come "ogni evento ha la sua causa. Non è un principio empirico e nemmeno una descrizione della natura. Infatti, potremmo osservare che due eventi simili, ma separati, risultano sempre diversi l'uno dall'altro. Come spiegare allora l'esistenza di una teoria come quella newtoniana che non solo pretende di descrivere il rapporto tra corpi fisici, ma anche di spiegarlo mediante la legge di gravitazione?

I critici hanno definito "anti-fattualista" la posizione del giovane Wittgenstein. Cerchiamo di comprenderla meglio. «Sebbene il mondo non contenga fatti causali - scrive Alberto Voltolini - l'impalcatura logica che sostiene ogni mondo possibile/pensabile, cioè la forma logica del mondo o del nostro linguaggio/pensiero, è strutturata causalmente. La cosiddetta legge di causalità non è una legge, ma "la forma di una legge" (TLP 6.32), ossia la forma per costruire un sistema di descrizione del mondo articolato in una serie di leggi naturali, quello dato dalle proposizioni della fisica (TLP 6.321. 6.34, 6.341). Nell'essere tale forma , la legge di causalità è a sua volta una forma logica del linguaggio/pensiero o del mondo; se è superstizione la credenza in tale legge, non così è la sua conoscenza in quanto conoscenza a priori di una forma logica (TLP 6.33). Questo comporta che, sebbene ciascuna specifica descrizione legiforme del mondo possa essere falsa, nel senso che potrebbe tranquillamente darsi un mondo possibile alternativo a quello reale in cui le cose non si comportano secondo la descrizione generale espressa da una certa legge naturale, tuttavia non possiamo pensare alcun mondo possibile in cui le cose non si comportino secondo una qualche descrizione legiforme.» (6)

In realtà, dunque la visione di Wittgenstein è molto più vicina a quella di Kant che a quella di Hume, perché questi aveva fondato tutte le possibilità della conoscenza su esperienze sensoriali, senza ammettere alcuna forma a priori decisiva nel determinare le forme della conoscenza stessa. Pur senza nominare l'a priori, Wittgenstein riconosce però che esiste un modo di costruire le leggi naturali.
C'è ancora da dire che sull'esistenza di una causalità reale, Wittgenstein tornerà con un testo, Causa ed effetto, probabilmente scritto in reazione ad un lavoro di Bertrand Russell, I limiti dell'empirismo, elaborato nel periodo 1935-36. Russell sostenne che Hume non aveva impostato correttamente il problema dichiarando che è solo grazie all'abitudine che riconosciamo una relazionedi causa ed effetto. Secondo Russell, noi esperiamo direttamente quella stessa relazione tra eventi.
Sulle posizioni di Wittgenstein in risposta a Russell, appuntamento ad un prossimo file.


(1) P.Odifreddi - Le menzogne di Ulisse - Longanesi 2004
(2) F. D'Agostini - Breve storia della filosofia nel Novecento - Einaudi 1999
(3) R.Bodei - La filosofia del Novecento - Donzelli 1997 / 2006
(4) P.Odifreddi - Le menzogne di Ulisse - Longanesi 2004
(5) M. Di Francesco - Aspetti logico-linguistici dell'impresa scientifica - in G. Giorello - Introduzione alla filosofia della scienza - Bompiani
(6) A. Voltolini - Wittgenstein tra causalità e libertà - in L. Wittgenstein Causa ed effetto / seguito da Lezioni sulla libertà del volere- Einaudi 2006
LB - ottobre 2006