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Trasimaco
di Daniele Lo Giudice


Trasimaco nacque a Calcedone in Bitinia, una colonia di Megara e fu attivo soprattutto negli ultimi tre decenni del secolo V. La data di nascita potrebbe collocarsi intorno al 450, 460 a.C.
Giovenale diffuse la notizia che morì malamente, pentito e rammaricato per le dottrine che aveva insegnato ma, non si è trovata alcuna conferma di quanto affermato successivamente dallo scoliaste, ovvero che si impiccò.

Fu soprattutto un retore, un avvocato più che un sofista.

Essendo uno dei personaggi protagonisti del dialogo platonico Repubblica, dobbiamo credere che le dottrine morali e politiche quivi patrocinate corrispondano al pensiero di Trasimaco, anche se, come abbiamo visto nel caso di Ippia, non sempre Platone fu un testimone obiettivo del pensiero altrui.
Trasimaco è presentato come persona irruente, irriverente, antipatica, che nemmeno ama pardersi in chiacchiere. Dopo un primo passaggio, attacca frontalmente Socrate, sfidandolo a dire qualcosa di concreto anzichè perdersi in lunghi giri di parole sulla giustizia.
Trasimaco ha la sfrontatezza di chiedere del denaro per dare quella risposta che Socrate dichiara di ignorare, secondo il classico schema dell'unica cosa che so è di non sapere.
Trasimaco dichiara, al contrario, di sapere, ed afferma: " Io dico che la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte...O perchè non mi lodi? ... Ma non lo vorrai."
Socrate obbietta con ironia che se a Polidamante, il pancratiaste (un lottatore ndr), giova la carne di bue, questo potrebbe significare che essa giova anche a noi, meno forti di lui?
Trasimaco risponde in modo offensivo: -"Sei un buffone, Socrate. Tu fingi d'intendere la mia definizione in modo da falsarla addirittura."
- "Tutt'altro, eccellente uomo; ma di in modo più chiaro che cosa vuoi intendere."
- "E non sai che alcune città sono rette da tiranni, altre dal popolo, altre da ottimati?"
- "E come no?"
- " E in ogni città la forza non appartiene al governo costituito?"
- " Senza dubbio"
- " Orbene, ciascun governo si fa le leggi che meglio gli giovano: la democrazia se le fa democratiche, la tirannide tiranniche e gli altri al pari, e fattele i governanti dichiarano giusto per i sudditi quel che giova a se stessi e puniscono chi trasgredisce i loro ordini come violatori delle leggi e colpevole di ingiustizia. Questo è dunque, bravuomo, quello che tutte le città io dico essere ugualmente giusto: ciò che giova al governo costituito, che è poi il potere dominante; e però chi ben ragiona deve riconoscere che giusto è dappertutto egualmente questo: ciò che giova al più forte."

Socrate chiede a Trasimaco se qualche volta i governanti sbaglino, e questi lo ammette. Ma ciò porta ad un'incongruenza: se i governanti sbagliano significa che emanano disposizioni che non giovano a loro stessi.
Ciò porta Trasimaco a contraddirsi, ed ad affermare che i governanti non sbagliano mai, e che comunque il popolo deve obbedire.
Ciò, secondo Socrate, contraddice ciò che avviene nelle scienze, nessuna delle quali osserva ed ordina quel che giova al più forte, bensì quel che giova al più debole, come la medicina.

Trasimaco concede un assenso superficiale all'affermazione socratica, ma subito riprende da capo la sua teoria, asserendo che la giustizia è ciò che giova a chi comanda, mentre l'ingiustizia governa gli ingenui ed i giusti.
I giusti, secondo Trasimaco hanno sempre la peggio; dunque chi osserva le leggi è un infelice, mentre il vero ingiusto è sempre felice, soprattutto quando sa comportarsi in modo da non passare per ingiusto.

Dalla lettura e dalla riflessione conseguente su questa prima parte del dialogo, mi pare evidente, che tra Trasimaco e Socrate, oltre ad una buona dose di antipatia, si registri anche una mancata comprensione del senso delle rispettive affermazioni.
Quella di Trasimaco, infatti, non era una sorta di teorizzazzione dell'ingiustizia, ma una denuncia del carattere strumentale della cosiddetta giustizia. Gli uomini chiamano giustizia l'ipocrisia e la parvenza della legalità, che è dettata dal potere. Ma il potere fa sempre le leggi a sua misura. Trasimaco è dunque in linea con Antifonte ed Ippia, e riprende la loro denuncia del carattere di classe e di parte della legge civile.
Socrate, nel tentativo di definire, al contrario, il concetto stesso di giustizia, urta contro la parzialità delle leggi senza, tuttavia, dar loro un gran peso, almeno in questa prima fase. Per lui, infatti, era fondamentale pervenire in primo luogo alla concettualizzazione della giustizia stessa, per chiarire in primo luogo che cosa si andava cercando.

Messo a fuoco, spero proficuamente, il tipo e la qualità del contrasto tra Socrate e Trasimaco, viene in evidenza che il vero protagonista di questo primo spezzone del dialogo platonico è l'incomprensione.
Socrate e Trasimaco hanno due linguaggi diversi e nessuno dei due sembra particolarmente interessato a capire il motivo dell'altro, anche se, ovviamente, Socrate esce (più apparentemente che realmente) vincitore della contesa. Non è infatti accettabile che l'ingiustizia possa diventare in qualche caso virtù e che un uomo che viola leggi della propria città sia da definirsi virtuoso.
Trasimaco, dal canto suo, pur avendo una chiara e realistica visione di come vanno realmente le cose nel mondo civile, non sembra in grado di trarne delle conseguenze politiche. L'unico modo di salvarsi dalla giustizia delle città è l'ingiusto agire individuale di chi è abile a violare le leggi senza farsi scoprire.
Non vi è in Trasimaco alcuna speranza di una giustizia giusta, a differenza, ad esempio, di Ippia, per il quale, un giorno, la legge naturale diventerà la legge giusta.


DLG - 4 settembre 2002