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Si fa presto a dire terrorismo
Dedicato alla memoria di Enzo Baldoni, Ilaria Alpi e Guido Rossa, vittime della loro passione peril dovere d'informazione, la giustizia e la libertà
di Carlo Fracasso

Evitiamo le banalità... se si può... non si può, ma si dovrebbe, almeno un po'

Si fa presto a dire terrorismo e sparare quattro banalità sull'argomento. Cosa che serve a ben poco. Purtroppo le banalità sono in agguato, premono da ogni parte. Poiché l'autore di uno scritto sul terrorismo sente di assumersi immediatamente una responsabilità pubblica, dovrebbe dire che nessun fine, nemmeno il più nobile e sacrosanto, giustifica il mezzo terroristico, specie quando si colpiscono i civili, si fanno stragi. Una volta fatta l'affermazione, l'autore potrebbe sentirsi più leggero. Non è il mio caso. Mi sento più leggero solo se avanzo una ipotesi diversa, solo se dico: anche nel fine ci deve essere qualcosa che non va. Un fine che reclama una strage, non può essere un buon fine.
In effetti, se andiamo a vedere le vicende piuttosto complicate del terrorismo, ci potremmo accorgere che nessuno degli obiettivi dichiarati esplicitamente dai leaders delle organizzazioni terroristiche fu, o è, in qualche modo realistico, accettabile, raggiungibile politicamente con forme di lotta e di impegno alla luce del sole. Il fine di un'organizzazione terroristica si situa spesso talmente fuori dal corso reale della storia, è talmente contro di esso, che trova subito tali e tante resistenze da far concludere in senso negativo.
Ciò è evidente nel caso di Al Qaeda, il cui scopo dichiarato è la restaurazione del califfato, di un ordine divino contrapposto al disordine mondano provocato dalle ideologie liberali, socialiste, femministe e materialiste dell'Occidente. Al Qaeda, in sostanza, propugna un'inversione della storia ed un ritorno al medioevo.
Ma anche guardando in "casa nostra", incontriamo la stessa mancanza di realismo politico. Le Brigate Rosse si proponevano qualcosa di assolutamente impossibile, oltre che dannoso alla stessa causa dei lavoratori. Una rivoluzione proletaria armata in Italia era totalmente impraticabile e inattuale. Non esisteva alcuna condizione ed alcuna necessità di dichiarare una guerra allo stato democratico, nemmeno se interpretato con forzature ideologistiche come stato borghese, espressione di una dittatura di classe. Le organizzazioni della sinistra, anche le più estreme, disponevano della più ampia libertà di organizzazione e di propaganda. Il movimento operaio in quegli anni era all'attacco, era riuscito a conquistare importanti contratti che valorizzavano il lavoro, la fatica e la professionalità. Ora si proponeva di conquistare, anche attraverso una difficile ma non impossibile unità sindacale, decisive riforme nel campo della sanità, dell'istruzione, della previdenza e dell'assistenza. Molti comuni erano governati dalle sinistre. Emilia e Toscana erano esempi di buon governo. Quando apparvero le Brigate Rosse, i dirigenti e molti militanti della sinistra si sentirono colpiti alle spalle, pugnalati alla schiena. Purtroppo, fu solo con l'assassinio dell'operaio comunista Guido Rossa e con la drammatica vicenda del rapimento di Aldo Moro che quel sentire aria di tradimento e di mistificazione si tradusse realmente in una condanna generale e in una scelta politica perfino estrema: "con i terroristi non si tratta". Eppure, nonostante l'evidenza, ci fu ancora spazio per sacche di individui che consideravano i terroristi "compagni che sbagliano". Solo chi ha militato nelle organizzazioni della sinistra, quelle più esposte al rapporto con le aree della marginalizzazione sociale (lasciamo stare la Confesercenti, l'Unione Artigiani e la Lega della Cooperative, dove si era capito da un pezzo che benessere e socialismo non sono un'antitesi) può comprendere il livello di tensione che il dibattito generava tra chi si muoveva in un ambito democratico e gruppi intellettuali che si ostinavano in analisi alternative.

Analizzare, senza fare sconti, nemmeno ad Arafat
Allo stesso modo, potremmo guardare al terrorismo europeo di impronta nazionalistica, quello basco e quello irlandese, non ignorando l'avvertenza che il terrorismo dei baschi aveva una relativa forma di legittimazione nell'antifascismo. L'ETA infatti operava nella Spagna franchista, in un regime dittatoriale. Ma, osservato che esso contribuì assai poco alla caduta del regime e alla trasformazione democratica della Spagna, semmai, le ritardò, legittimando il permanere di istituzioni e leggi repressive data l'emergenza provocata dalle attività terroristiche, si deve notare che i terroristi baschi non cambiarano il loro punto di vista dopo la caduta del regime. Continuarono ad operare come se nulla fosse accaduto.
Il terrorismo di sinistra in alcuni paesi dell'America Latina richiederebbe un discorso diverso. Nasceva in condizioni politiche e sociali, se possibile, ancora peggiori di quelle spagnole. E molte volte si presentava come reazione ed elementare forma di autodifesa dal terrorismo dei regimi dittatoriali, come risposta alle nefaste imprese degli squadroni della morte. Bisognerebbe poi distinguere tra guerriglia e terrorismo vero e proprio, guerriglia rurale e guerriglia urbana.
Ancor di più, il capitolo Yasser Arafat e la lotta per l'indipendenza e l'autodeterminazione palestinese richiede ormai a riflessioni che vadano oltre una passiva solidarietà con la causa palestinese. Siamo di fronte ad un sostanziale fallimento della strategia politico-militare, e le colpe di Arafat sono prossime ad una resa dei conti con il tribunale della storia. I palestinesi non possono imputare all'odiato nemico sionista responsabilità oggettive e soggettive. La realtà è che i loro leader, in particolare Arafat, da un lato non hanno mai realmente rinunciato a ricorrere allo strumento terroristico, e la protezione fornita dall'autorità palestinese ai gruppi terroristici di Al Fatah (e non solo) ne è la prova lampante; essi hanno malamente utilizzato l'autonomia amministrativa, costruendo un odioso e spregiudicato sistema di potere basato sulla corruzione e le clientele, sul sottogoverno e le protezioni in stile mafioso. L'ingente quantità di sovvenzioni ricevute dalla comunità internazionale, in particolare dall'Europa, anziché favorire lo sviluppo economico palestinese, è finito in gran parte nelle mani di ladroni. Tutto ciò che di buono è stato fatto in Palestina è in gran parte il risultato del lavoro indefesso di volontari e organizzazioni umanitarie, in particolare di cattolici, o di organizzazioni di tipo analogo, non governativo, di matrice islamica.
Non costa nulla riconoscere la doppia natura e la sostanziale ambiguità di Hamas, che da un lato recluta e addestra kamikaze, e dall'altro organizza interventi umanitari e denuncia la corruzione del regime. La vittoria alle recenti elezioni in Palestina, del resto, non si comprenderebbe. Non è che i palestinesi siano diventati di colpo fondamentalisti. Sono semplicemente esasperati. Non ne potevano più del regime di Arafat e dei suoi accoliti e non avevano alternative.
Il fallimento di Arafat, in termini più generali, è riconducibile all'attuale debolezza, e quindi alla crisi, dei regimi nazionalistici, delle forze cosiddette "moderate", della sostanziale impotenza e caduta di prestigio delle forze laiche. Non si capisce granché del mondo islamico oggi, se non si guarda al fallimento o alla totale inadeguatezza delle borghesie nazionali. La credibilità delle forze politiche democratiche si basa sui loro successi in campo economico, non sui loro insuccessi. E il successo si misura in termini di istruzione, case, servizi di base, posti di lavoro, emancipazione femminile, redistribuzione del reddito, ordine pubblico e diritti civili. Cose che non sono venute o sono state negate.
Il quadro generale della situazione nel Medio Oriente, ed in generale, nel mondo islamico, non è solo preoccupante: è gravissimo. Richiede un'estrema attenzione ed una grande cautela diplomatica. Impone di leggere il fenomeno terroristico in modo adeguato, come parte di uno scenario più complesso e non come semplice espressione di un fanatismo intrinseco alla razza o alla religione.
I consensi che riscuote oggi la strategia terroristica, e che sono testimoniate dalle immagini televisive di grandi manifestazioni di massa in cui si maneggiano kalashinikov, si sparano colpi a raffica e si gridano slogans di morte, sono direttamente proporzionali alla mancanza di un'alternativa politica razionale, di tipo socialista o di tipo democratico-moderato. Segnalano la mancanza di una dialettica politico-sindacale, ingrediente indispensabile di una qualsiasi fondazione democratica del potere e dello stato. In questi paesi, evidentemente, manca il tessuto e mancano i filatori della tela della convivenza civile.

Il mancato riconoscimento di Israele, l'antisemitismo di tipo nazista e il fondamentalismo ebraico
Nel mondo arabo si sconta un altro errore dovuto alla mancanza di realismo politico. Il mancato riconoscimento al diritto all'esistenza dello stato di Israele. L'obiettivo conclamato di stati e movimenti è per anni ruotato attorno alla mitologia della distruzione dello stato sionista. Da un lato, le organizzazioni più laiche, "a sinistra", hanno rivendicato la nascita di uno stato multietnico, criticando l'apartheid di tipo sudafricano cui erano costretti arabi e palestinesi nello stato dei sionisti. Dall'altro, le formazioni islamiche hanno invece teso semplicemente ad agitare l'obiettivo della distruzione dello "stato di satana", e sostituirlo tout court con uno stato islamico.
In ambito islamico sono sorte forme di antisemitismo più o meno riconducibili direttamente al nazismo. Ciò ha provocato non poco sconcerto in alcuni studiosi occidentali, del tutto ignari delle tradizioni culturali e filosofiche islamiche, e quindi sorpresi dal fatto che un teorico dell'islamismo come Al Qûtb avesse pescato a piene mani dai libri di Hitler e di Rosenberg. Ma quando queste verità vengono a galla, si preferisce spesso nascondere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.

Questa radicalizzazione, unitamente alla feroce testardaggine con cui molti dirigenti israeliani, peraltro sostenuti dalle masse, hanno perseguito una politica di apartheid e hanno continuato a favorire insediamenti di nuove ondate di immigrati ebrei, specie dalla Russia, ha impedito che si sviluppasse un dialogo per la pace. Sottolineare che da parte ebraica si è teso sistematicamente a ridurre il movimento palestinese per l'autodeterminazione ad un problema di terrorismo, e quindi di ordine pubblico, invece che di ordine politico, è quindi mettere il dito su una grande mistificazione della questione palestinese, facendo volutamente confusione tra la questione oggettiva e il comportamento soggettivo di alcune organizzazioni palestinesi. D'altra parte, non si capisce l'odio delle popolazioni palestinesi nei confronti degli israeliani se non si guarda al fatto che al terrorismo dei palestinesi i capi dello stato d'Israele hanno sempre risposto con rappresaglie grossolane, con bombardamenti che colpivano civili ed innocenti non diversamente dagli stessi terroristi palestinesi o islamici. Tutto questo ha alimentato un circuito di violenza e di odio che sembra non avere fine.
Quando si critica genericamente l'Occidente e l'Europa per non avere fatto abbastanza, si dimentica che tutto quanto è stato fatto è stato regolarmente sabotato dalle ali estreme degli schieramenti palestinese ed israeliano. E quando si criticano unicamente i palestinesi per la loro debolezza, o la loro complicità oggettiva, nei confronti del terrorismo, si dimentica la debolezza o la complicità oggettiva di Israele nei confronti del proprio terrorismo, quello che ha portato alla strage di Hebron e all'assassinio del primo ministro Itzhak Rabin.

Due date, due eventi traumatici: il cielo d'Irlanda e le rovine di Oklahoma City
Il terrorismo è diventato il problema numero uno del mondo globale. Non solo perché vivere sotto la costante minaccia di aggressioni da parte di forze invisibili determinate ad uccidere e fare stragi rende la vita civile difficile ed angosciosa, ma soprattutto perché il terrorismo stesso ha introdotto una distorsione nello spazio-tempo della politica, dell'economia e della vita sociale. Quello che sembrava un problema in più, una sorta di fastidioso ospite indesiderato, iniziato con gli agguati ai "servitori dello stato" e coi dirottamenti aerei, è venuto occupando nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso uno spazio ed un tempo sempre più ampi, ha inquinato la vita politica, ha reso plumbei i nostri anni, ha complicato le relazioni internazionali, ed ora, minaccia addirittura di trascendere in uno scontro di civiltà.
Credo sia almeno dal 1985, quando un aereo dell'Air India esplose al largo delle coste irlandesi con 329 passeggeri a bordo, che il problema ha assunto i contorni di una sfida globale. Autori della strage, che non fu mai ufficialmente firmata, furono probabilmente schegge impazzite del movimento di liberazione nazionale dei sikh. Fu il segno di un cambiamento radicale che portava a far esplodere, nel cuore stesso dell'Occidente, tutte le contraddizioni che la politica di colonizzazione aveva prodotto nel corso dei secoli. Il resto del mondo presentava il conto ai dominatori del mondo. E lo faceva nel modo più terrificante possibile, annunciando che "nessuno può sentirsi sicuro", in nessun luogo.
E' importante notare che i sikh non sono islamici, e non sono nemmeno "arabi" in senso razziale.

Nemmeno gli autori del grande attentato al Murrah Building di Oklahoma City, che provocò la morte di 168 persone, erano islamici. Timothy Mc Veigh e il suo sciagurato complice Terry Nichols erano cristiani, fanatici seguaci di una setta che aveva radici ideologiche nel Ku Klux Khan e nel movimento della Christian Identity. Era il 19 aprile del 1995. Tra le vittime, numerosi bambini che frequentavano l'asilo nido situato nell'edificio. Mc Veigh e Nichols non erano "nazisti" e razzisti in senso stretto, anche se molte delle loro credenze potevano sembrare di tipo schiettamente reazionario. In realtà, come è stato dimostrato, Mc Veigh era stato influenzato in massimo grado da una subcultura cristiana molto diffusa negli Stati Uniti, con tratti irriducibilmente americani, e , in senso lato, anglossassoni. Essa presenta tratti inquietanti, e va vista sia nella sua particolarità, per gli effetti psicologici che determina negli individui, generalmente privi di istruzione - anche religiosa - che entrano in contatto con essa, ma anche per caratteri generali che la riportano ad una visione manichea del mondo, con elementi di sorprendente vicinanza al fondamentalismo islamico. Se c'è qualcosa che accomuna i terrorismi a sfondo religioso, questo va cercato nel manicheismo. Gli individui vengono attirati perché una supposta illuminazione sembra finalmente istradarli su una via di luce e di martirio dopo un lungo e travagliato periodo nel quale non sapevano bene perché erano venuti al mondo e che senso potesse mai avere la vita.

La crudeltà, cosa a che fare con Dio la crudeltà? I macellai di Shankhill
Sorprende chiunque si accosti alla fenomenologia del terrorismo, specie quello di matrice religiosa, la crudeltà e la ferocia di molti terroristi. Elementi che non trovano una reale spiegazione nel fanatismo, visto che si può essere fanatici e allo stesso tempo limitare le violenze gratuite. Ciò che voglio evidenziare si può capire meglio se facciamo almeno un esempio. I deboli di stomaco potrebbero anche saltare le righe seguenti e passare al paragrafo successivo. Ma con ciò salterebbero un pezzo della verità che vorrei ricostruire. La scena è quella dell'Irlanda del Nord, un angolo di Europa nel civilissimo Regno Unito. La vittima una guardia giurata, cattolico, che non aveva mai fatto attività politica o sindacale, e nemmeno si era distinto per particolare fervore religioso. I terroristi protestanti del gruppo Shankhill Butchers lo catturarono mentre si recava al lavoro, lo spogliarono nudo e incisero il suo corpo con rasoi e coltelli come farebbe uno scultore con il legno. Ancora vivo dopo aver ricevuto 147 ferite (qualcuno si prese la briga di contarle), venne appeso ad una trave con un cappio che si stringeva lentamente, ed alla fine morì per strangolamento. La salma venne mutilata e poi esposta secondo il rituale ordinato da Kenny Mc Clinton, che teorizzava la decapitazione dei cattolici, per poi infilzare le loro teste sulle sbarre della ringhiera del parco di Shankhill, un quartiere di Belfast. Questi infami "cacciatori di teste" si resero responsabili di una trentina di omicidi rituali di sapore satanico, ma dichiaravano di combattere in nome di Dio, seguendo dottrine ed ispirazioni di alcune chiese protestanti, in particolare quella del reverendo Ian Paisley. Paisley, a sua volta, sembrava influenzato da teologie provenienti dall'altra sponda dell'Atlantico, le stesse che avevano ispirato Mc Veigh.

Non credo si possano teorizzare e praticare atti del genere senza una predisposizione alla perversione. Si è detto che se uno degli scopi del terrorismo è terrorizzare il nemico e le popolazioni civili, tali atti rientrano nella logica del terrorismo. Può darsi, ma, a mio avviso, di fronte ad una simile ferocia, dobbiamo prendere atto che in essa si manifesta qualcosa di ancora più terribile, qualcosa che la pratica terroristica incoraggia, ma che fondamentalmente non è riconducibile ad essa. Gli orrori dei macellai di Shankhill, non sono, purtroppo, un caso isolato. Quello che hanno fatto gli squadroni della morte in America Latina non ha uguali nemmeno in Irlanda. Si parla di villaggi dati alle fiamme insieme ai loro abitanti, di donne violentate ripetutamente, di uomini scorticati vivi, di bambini fatti a pezzi per impadronirsi dei loro organi da vendere sul mercato clandestini dei trapianti. In realtà, a me sembra, che il terrorismo abbia finito col fornire un'opportunità ulteriore, una sorta di giustificazione politico-ideologica, alla follia criminale di alcuni individui assolutamente inqualificabili.

Sono bestie, ma si possono trattare come bestie?
Un terrorista che fa stragi non può evidentemente essere assimilato alla figura del partigiano combattente per la libertà. In molti terroristi fanatici, come si è visto, esistono elementi di perversione, di sadismo e di masochismo, di odio viscerale per tutto ciò che è altro da loro. In essi viene alla luce una sorta di gioia per la violenza e la crudeltà, di insano piacere per il sangue. L'imperativo è di combatterli, stanarli ovunque si trovino, e metterli in condizione di non nuocere. Questo aspetto è stato spesso sottovalutato dalle forze di sinistra in nome di un umanitarismo tanto bello quanto utopico e privo di realismo bellico. La guerra è guerra, non se mai visto una guerra senza feroci combattimenti e degenerazioni umane esecrabili. Tuttavia, ad ogni cosa c'è un limite ed è evidente che non c'è persona di buon senso che non veda nella tortura o nelle inumane condizioni del carcere di Guantanamo un'arma a doppio taglio, oltre che qualcosa di moralmente esecrabile. Se siamo migliori di loro, lo dobbiamo dimostrare anche nel trattamento dei prigionieri. I quali hanno diritto ad un processo secondo i principi del diritto occidentale. Ma, e qui sono molto convinto di quello che dico, la tattica di terrorizzare i terroristi, è un'arma a doppio taglio perché porta argomenti al nemico. Anzi, lo sostiene, consentendogli di mostrare quanto il mondo civile "del grande satana" sia sostanzialmente inumano e crudele, quindi da combattere con rinnovata energia.
Tutto ciò porta, ovviamente, a riflettere molto seriamente sugli errori dell'Occidente, in particolare su quelli riconducibili all'amministrazione Bush ed a chi l'ha sostenuta in Europa. Ne riparleremo.

CF - 26 giugno 2006