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Critiche all'ideologia
Spettri IV: la merce è un tavolo ballerino
di Mario Cornarino
Merce come mistificazione, nel momento in cui in essa sorge un carattere mistico. Una delle "forme" della mistificazione è il denaro. La forma-denaro va spiegata come prodotto del "germe", ovvero la forma semplice della merce. Marx vuole «analizzare l'equivalente il cui enigma e il cui carattere mistico non fanno colpo sull'economista borghese.»
Se il valore d'uso di una merce è facilmente percepibile, si presenta nel sensibile non diversamente da come è realmente, potremmo dire come cosa in sé che coincide con la sua funzione di cosa per me, secondo me, l'arcano del valore di scambio va indagato ben oltre il sensibile immediato. La scena è occupata da un tavolo di lignea sostanza, si sa, lo sa chi ha letto Das Kapital, un tavolo che si rizza in piedi, che sa proporsi, che sa farsi propaganda, che assume un valore monetario che va oltre il suo uso e la sua utilità, che "svisa" il proprio valore d'uso - fin qui Derrida, perché qui ci metto del mio - che grazie alla "firma", al "marchio", ad ancora più arcane vicende, diventa un tavolo di valore smisurato, il cui possesso è tratto sociale distintivo, tanto quanto un titolo nobiliare o un alto grado dell'esercito. Nella società sia feudale che borghese, sia antica che moderna, l'individuo umano, tanto nella versione maschile, tanto in quella femminile, ama fregiarsi, adornarsi, mostrare titoli rari ed esclusivi, anche di tavoli e suppellettili, gadgets, orecchini e acconciature, è la logica dell'apparire, è l'apparenza come sostanza, è la forma che nasconde qualche altro contenuto, assai meno rispettabile, se si cerca di celarlo con una forma. Tavolo come status symbol, allora? Il legno storto dell'umanità, avrebbe detto Kant, e supponiamolo, si regge sulle gambe diritte di un bel lavoro svolto dal falegname ... ma in Marx la questione ha tutt'altro spessore. Marx non indaga il contributo soggettivo che ogni narciso ed ogni vanifemminilità apporta al valore-merce di un tavolo rendendolo non oggetto di un bisogno generico, frutto della selezione naturale e dell'evoluzione sociale, ma oggetto di un desiderio che trascende il bisogno nudo e crudo, che è desiderio di avere le cose che gli altri non hanno, uno status symbol significativo, qualcosa che irradia splendore e gloria, mettendo a tacere la concorrenza.
Così, Derrida, seguendo Marx, e insieme tradendolo, non arriva, forse, al cuore del problema di un'economia del superfluo, la nostra economia attuale, il cui maggiore interprete fu Oscar Wilde. Si ferma all'arcano di come si possa dare un'eccedenza di valore tra momento dell'utilità e momento dello scambio, del trapasso dal produttore al consumatore gravato da più di una tassa: l'oscuro profitto dell'intermediario + lo stipendio del garante della legge che garantisce il produttore e l'intermediario, assai meno il consumatore, e sempre meno quel consumatore che nella merce non vede uno status symbol, ma un bisogno fondamentale. Il mondo ha fame di patate, mutande e combustibile. La nostra è anche un'economia dell'imbroglio, ma secondo Marx, lo è sempre stata: l'economia è un colossale imbroglio che va sbrogliato. Sempre out of joint.
Fin dove arriva Derrida? Fino a che punto l'economia, anche l'economia, è per Marx una questione di spettri? Lo schema fantomale, dice Derrida, sembra indispensabile a partire dal fatto che la densità lignea e testona di un tavolo qualunque tratto da un pezzo di legno qualunque «si trasmuta in cosa soprannaturale, in cosa sensibile insensibile, sensibile ma insensibile, sensibilmente sovrasensibile.» Così, la merce diviene "cosa" senza fenomeno, una cosa in fuga che oltrepassa i sensi. «Marx non dice sensibile e insensibile, sensibile ma insensibile, dice piuttosto: sensibile insensibile, sensibilmente sovrasensibile. La trascendenza, il movimento in supra, il passo al di là (über, epékeina), si fa sensibile appunto nell'eccesso. Rende l'insensibile sensibile. Si tocca là dove non si tocca, si sente dove non si sente, si soffre addirittura lì dove la sofferenza non ha luogo, quando se non altro non ha luogo dove pure si soffre (è quel che si dice, non dimentichiamolo) di un arto fantasma, quel fenomeno che, per ogni fenomenologia della percezione, è contrassegnato da una croce). La merce perseguita (hante) la cosa, il suo spettro travaglia il valore d'uso. Questa hantise si sposta come la silohuette anonima o la figura di un figurante che potrebbe essere il personaggio capitale. Cambia luogo, non si sa più esattamente dov'è, si aggira, invade la scena secondo un certo movimento: un passo lì, e la sua andatura non appartiene che a questo mutante. Marx deve ricorrere al linguaggio teatrale e descrivere l'apparizione della merce come una entrata in scena (auftritt). E deve descrivere il tavolo divenuto merce come un tavolo che balla, certo, durante una seduta spiritica, ma anche come una silhouette fantomale, la raffigurazione di un attore o un ballerino.»

La scrittura pirotecnica di Derrida è qui quasi irresistibile, accende fuochi là dove meno te li aspetti, ma è prolissa in modo a volte insopportabile. In termini più concisi e prosaici, dobbiamo cercare il bandolo, ed esso sta nel rapporto tra i tavoli, il numero dei tavoli, in relazione al tempo che occorre per produrli, il tempo che Marx estrae come categoria economica. La temporalità è essenziale al processo di capitalizzazione. L'esistenza di individui che fanno i tavoli, che commerciano in mobili, che comprano tavoli e che siedono a tavola, anche per farla ballare, cioè individui inscritti nella formula del capitale, è temporale. E' una formula hegeliana. Hegel, nella Filosofia della natura descrive il tempo come astratto o ideale, essendo l'unità negativa dell'essere-fuori-di-sé. Rivolto ad altro. Rivolto al commercio. Con l'occhio ai prezzi, alle statistiche, all'inflazione e alle offerte speciali.
Fuori di sé, l'individuo va con l'occhio alla merce, è un incontro "fisico" tra tavoli e occhio. Ciò determina il valore d'uso del tavolo, ma non realizza il suo valore di scambio (se non leggendo il prezzo quando esposto). L'incontro tra occhio e tavolo, non riesce a produrre la visione spettrale necessaria. Osservando tavoli, gli individui non vi riconoscono il carattere sociale del proprio lavoro. Dice Derrida: «E' come se fantomalizzassero a loro volta. Il "proprio" degli spettri, come dei vampiri, è che sono privi di immagine speculare (ma chi non ne è privo?). Da cosa si riconosce un fantasma? Dal fatto che non si riconosce nello specchio. E questo accade con il commercio delle merci tra di loro. Questi fantasmi che sono le merci trasformano i produttori umani in fantasmi. E tutto questo processo teatrale (visuale, teoretico, ma anche oculare, ottico) mette in moto l'effetto di uno specchio misterioso: se questo non rivia il buon riflesso, se quindi fantomalizza, è anzitutto perché naturalizza. L'"arcano" della forma-merce come presunto riflesso della forma sociale è il modo incredibile con cui questo specchio rinvia l'immagine (zurück-spiegelt), quando si crede che rifletta per gli uomini l'immagine dei "caratteri sociali del proprio lavoro": una tale "immagine" oggettiva naturalizzando.» Ma nulla è meno "naturale" di quel che sembra così naturale. Perchè la determinazione del valore di scambio non ha a che vedere con ciò che vede l'occhio incontrando il tavolo. Bisogna, insomma, vedere il fantasma, cogliere ciò che avviene dietro le quinte e dietro le pareti, "vedere attraverso i muri". Il commercio tra merci presuppone una denaturalizzazione e dematerializzazione della cosa. Quando la cosa entra in scena come valore di scambio, il valore d'uso è subordinato. «L'autonomia prestata alle merci - dice Derrida - risponde ad una proiezione antropomorfica. Questa ispira le merci, vi soffia lo spirito, uno spirito umano, lo spirito di una parola e lo spirito di una volontà

Derrida prova a spiegarsi, spiegando Marx. Parola, una parola, quale? «Se le merci potessero parlare - aveva scritto Marx nel Capitale - direbbero: il nostro valore d'uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete. Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l'una all'altra soltanto come valori di scambio.»
Derrida definisce abissale l'artificio retorico di Marx. «Marx di lì a poco pretenderà che l'economista rifletta o riproduca ingenuamente questa parola fittizia o spettrale della merce e si lasci in qualche modo ventriloquare da essa: egli "parla" "dal fondo dell'anima della merce". Ma dicendo "se le merci potessero parlare", Marx sottintende che non possono parlare. Le fa parlare (come l'economista che accusa) ma per far loro dire, paradossalmente, che in quanto valori di scambio, parlano, e che parlano, o intrattengono un commercio tra di loro solo in quanto parlano... Parlare, prestare la parola ed essere valore di scambio sono qui la stessa cosa.»

Occorre ora spiegare la volontà che come spirito soffia nella merce. Le merci non vanno da sole, bisogna portarle al mercato. I loro possessori fingono di abitarle, o come scrive lo stesso Marx, «i tutori delle merci debbono comportarsi l'uno di fronte all'altro come persone la cui volontà risieda in quelle cose, cosicché l'uno si appropria la merce altrui, alienando la propria, soltanto col consenso dell'altro; quindi, ognuno dei due compie quell'azione soltanto mediante un atto di volontà comune ad entrambi.» Su questo negozio giuridico nasce il giuridico perché il negozio lo pretende. Non c'è negoziante che non pretenda una tutela, pagando meno tasse possibile. Tuttavia, questo non ci basta. Dobbiamo intendere la nascita della fantasmagoria. Essa è il parto del valore di scambio. Prima che il valore di scambio "invasasse" il valore d'uso (hanter, hantise), non c'era fantasma. Ma da dove viene questa certezza della purezza del valore d'uso? Anzi, del solo uso, senza valore? Non bisogna dubitare di questa "purezza"? «Se questa non fosse assicurata, bisognerebbe allora dire che la fantasmagoria è cominciata prima del cosiddetto valore di scambio, al limitare del valore di valore in generale, o che la forma-merce è iniziata prima della forma-merce, prima di se stessa. E' stato ben necessario che la sua stessa forma, la forma che informa la sua hýle, quantomeno predisponga il cosiddetto valore d'uso della cosiddetta cosa sensibile ordinaria, la semplice hýle, il legno del tavolo di legno di cui Marx suppone che non abbia ancora cominciato a "ballare", all'iterabilità, alla sostituzione, allo scambio, al valore, e che inneschi, seppure di poco, una idealizzazione che consenta di identificarlo come lo stesso attraverso ripetizioni possibili., ecc. Come non c'è uso puro, così non c'è alcun valore d'uso che la possibilità dello scambio e del commercio (comunque lo si chiami, senso, valore, cultura, spirito (!), significazione, mondo, rapporto all'altro e innanzitutto forma semplice e traccia dell'altro) non inscriva già in un fuori uso - significazione debordante che non si riduce all'inutile. Una cultura è iniziata prima della cultura - e dell'umanità. E così la capitalizzazione.»

Se "tutto comincia ancor prima di cominciare", Marx vuole, tuttavia far sapere in quale preciso momento il fantasma entra in scena. In questo, l'esorcismo. «Noi - dice Derrida - al contrario suggeriamo che, prima del colpo di scena di questo istante ... il fantasma aveva fatto la sua apparizione, senza apparire di persona, naturalmente e per apparizione, ma avendo già scavato nel valore d'uso, nella testardaggine di legno del tavolo testone, la ripetizione (e quindi la sostituzione, la scambiabilità, l'iterabilità, la perdita della singolarità come esperienza della stessa singolarità, la possibilità del capitale), senza di cui anche l'uso non si determinerebbe mai. Questa hantise non è un'ipotesi empirica. Senza di essa non si potrebbe neanche formare il concetto di valore d'uso, né quello di valore in generale, né informare una qualunque materia, né determinare alcuna tavola, né un tavolo di legno, che sia utile o vendibile, né alcuna tavola delle categorie. E neppure una Tavola dei comandamenti. Non si potrebbe nemmeno, come fa Marx, complicare a sufficienza, dividere o fratturare il concetto di valore d'uso, a voler ricordare per esempio questa evidenza: per il suo supposto primo proprietario, per l'uomo che lo porta al mercato, in quanto valore d'uso destinato agli altri, il primo valore d'uso è un valore di scambio. Dunque le merci debbono realizzarsi come valori, prima di potersi realizzare come valori d'uso.» E viceversa.
Questo "viceversa" porta Derrida ad affermare che la diacronia è circolare e questo trasforma la distinzione in una co-implicazione. Verrebbe da chiedersi quale differenza originaria abbia visto Derrida tra valore e valore d'uso, essendo abbastanza istintivo pensare alla prima forma e significato del valore come valore d'uso. Un terreno ha valore in quanto usato. Un albero ha valore in quanto fruttifica e il primo impatto che ha l'individuo con un albero è la sua utilità immediata: ombra, ristoro, cibo, possibilità di trovare un riparo, usarlo come torretta per vedere più lontano, tagliarlo e usarlo come combustibile, scavare il tronco e ricavarne una piroga. Persino usarlo come prigione alla quale legare un nemico.
Potrebbe, insomma, sembrare che Derrida manchi di senso pratico anche quando si sforza di assumere una visione pratica. Ma non è del tutto vero. Forse, Derrida ha solo un senso pratico molto diverso dal solito. Esso "vive" di un rapporto con la "densità" del pensiero; è talmente immerso nella densità da rendere difficile una sua estrazione indolore. Occorre un'anestesia che sappia distaccarci dal sensibile e trasferirci nel sovrasensibile mantenendo una necessaria, minima, sensibilità. Ma questo vale anche per Marx e le sue astrazioni. Vale per ambedue. Il legame tra i due, Marx e Derrida è persino più stringente di quanto sia apparso finora, proprio perché Derrida, come Marx, non è marxista e non sente alcun obbligo di difendere dottrine. Proprio in quanto non-marxista, ha saputo, a mio avviso trovare una sorta di bandolo nella matassa delle interpretazioni del "marxismo".
La domanda non è retorica: c'è un esorcismo nell'ouverture del Capitale? «Per quanto sembri potenziale, e preparatorio, virtuale, questo esorcismo di premessa, avrebbe sviluppato una potenza sufficiente per firmare e suggellare tutta la logica di questa grande opera? Una cerimonia congiuratoria avrebbe scandito lo svolgimento di un immenso critico? L'avrebbe accompagnato, seguito o preceduto come un'ombra, in segreto, quale indispensabile sopravvivenza, se si può ancora dire, vitale, richiesta già in anticipo? ... E questa sopravvivenza congiuratoria non fa parte, incancellabilmente, della promessa rivoluzionaria? Dell'ingiunzione o del giuramento che mette in movimento Il Capitale?
Non dimentichiamo che tutto quello che abbiamo appena letto - prosegue Derrida - era il punto di vista di Marx a proposito di un delirio finito. Era il suo discorso su una follia destinata, secondo lui, ad aver fine, su una incoprporazione generale del lavoro umano astratto che ancora è tradotto, ma per un tempo finito, nel linguaggio della follia, in un delirio, (Verrücktheit) dell'espressione. Bisognerà, dice Marx, e si potrà, si dovrà poter mettere fine a quel che appare "sotto questa forma delirante" (in dieser verrückten Form). Si vedrà (traduciamo: si vedrà venire) la fine di questo delirio e di questi fantasmi, pensa evidentemente Marx.»
MC - 30 marzo 2007