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Times out of joint
Gli spettri di Marx e la nuova Internazionale in Derrida
di Mario Cornarino
Son passati tredici anni dalla pubblicazione in Italia di Spettri di Marx con il sottotitolo Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale. Provo ad interpretare un ruolo che non è il mio, quello del filosofo serio che studia l'evoluzione delle posizioni filosofiche e tenta di stendere bilanci tra il teoretico e lo storiografico. Mi hanno detto che ho una carriera davanti.
Dunque, inquadriamo i tempi, il comunismo è crollato. Escono libri che annunciano la fine della storia, la buona novella di un evento che abbiamo alle spalle e che preannuncia un roseo futuro demoliberalcapitalistico. Il più importante di questi libri è firmato Francis Fukuyama. Derrida se la prende con questo libro. E' una buona novella fasulla. I tempi sono comunque "fuori squadra", gli argomenti di Fukuyama scricchiolano vistosamente, sia davanti ai "fatti", sia davanti ad una logica più sottile e meno rabberciata. Scriveva Fukuyama: «[...] ci siamo talmente abituati ad aspettarci in futuro cattive notizie circa l'efficienza e la solidità dei governi democratico-liberali, che anche quando capitano buone notizie stentiamo a crederci. E tuttavia la buona novella è arrivata.» (1)
Derrida critica e decostruisce il libro di Fukuyama, e non è solo un pretesto per riparlare di Marx. Tutto il ragionamento di Fukuyama "è fuori squadra". «Tuttavia - scrive Derrida - questo libro non è poi così brutto o così ingenuo come lascerebbe credere uno sfruttamento sfrenato che lo esibisce come la più bella vetrina ideologica del capitalismo vincitore, in una democrazia liberale giunta finalmente alla pienezza del suo ideale, se non della sua realtà. Infatti, benché l'essenziale resti, nella tradizione di Léo Strauss, rimpiazzato da Allan Bloom, l'esercizio scolastico di un giovane lettore, diligente ma tardivo, di Kojève (e di qualcun altro), questo libro, bisogna riconoscerlo, è qui o là più che sfumato: talvolta sospensivo fino all'indecisione. Gli capita di aggiungere ingenuamente, alle questioni che a suo modo elabora, per non essere colto in fallo, quel che chiama una "risposta di sinistra" a una "risposta di destra".» Beh, il libro è un vangelo, in esso parla direttamente il Verbo. Formula neotestamentaria. Ecco la motivazione di Derrida: «Questo libro pretende di addurre una "risposta positiva" a una domanda, le cui formazioni e formulazioni non sono mai interrogate per se stesse. E' il problema di sapere se una "storia dell'umanità coerente e orientata" "finirà per condurre", ciò che l'autore chiama tranquillamente, enigmaticamente, in maniera insieme pudica e impudente, "la maggior parte dell'umanità" verso la "democrazia liberale".» Il ragionamento di Fukuyama incontra un mare di ostacoli e quindi si inerpica: le evidenze empiriche (leggi i disastri della storia contemporanea) non smentiscono l'orientamento ideale della maggior parte dell'umanità verso la democrazia liberale. Ma, osserva Derrida, anche se si volesse riconoscere la validità della distinzione tra un fatto empirico, un qualsiasi totalitarismo macellaio, e la finalità ideale, «resterebbe ancora da sapere come tale orientamento assoluto, questo télos anastorico della storia dia luogo, e precisamente ai nostri giorni, di questi tempi, nel nostro tempo, a un evento di cui Fukuyama parla come di "buona novella", e molto esplicitamente come della svolta "più notevole di quest'ultimo quarto del XX secolo".» Pur ammettendo che al crollo di una dittatura è spesso seguito qualcosa di peggio, Fukuyama non ha dubbi., «la democrazia liberale rimane la sola aspirazione politica coerente per regioni e culture diverse dell'intero pianeta.»
Dicevo che l'attacco a Fukuyama, e al ben più importante Alexandre Kojève, non è il pretesto per riparlare di Marx. Un pretesto c'era già, lo si trova nell'Amleto di Shakespeare e nella passione di Marx per Shakespeare. Marx non è altro che Shakespeare realizzato in filosofia. Parole chiave: ossessione, non credere agli spettri, lottare contro gli spettri, sentire che il mondo è dissestato e spettrale, che molto si gioca sulla paura, sentirsi chiamati a mettere ordine analizzando il disordine, trattenendolo nella propria testa, scomponendolo e ricomponendolo. Ma se Amleto dice: perché proprio io? Marx dice: sì, proprio io, perché no?
«I tempi sono fuori di sesto [out of joint]; brutta sorte,
che io debba essere nato a mettere ordine.
Venite, rientriamo insieme [escono].» (Amleto)
Amleto, tutti gli spettri di Marx. Perché questo plurale? Se l'era chiesto Derrida. Ce ne sarebbe più d'uno? Una folla? Un'orda? «E poi, se è sempre uno spirito ad animare lo spettro, ci si chiede chi mai oserà parlare di uno spirito di Marx, o peggio ancora di uno spirito del marxismo.»
«Come nell'Amleto, principe di uno stato marcio, tutto comincia con l'apparizione dello spettro. Più precisamente, con l'attesa di questa apparizione.» Comunismo, qualcosa di spettrale, una paura diffusa, costruita, inventata, gonfiata, che gira nella testa, che sta nella testa, che paralizza aggirandosi. Ma che non è ancora. Si parla del '48, ma presumo si parli anche di ieri e di oggi. Anche oggi, ancora oggi si desidera scongiurare il comunismo. Ed è oggi che i comunisti si sono auto-scongiurati.
Di fronte al comunismo reale, opera di un principe marcio convinto di esser stato chiamato dalla storia a metter ordine, sta il suo spettro, che il comunista deluso ritiene più reale del reale, appunto perché sta nella testa, e ci stava come un progetto della storia, perché la storia aveva suonato la tromba e sembrava fosse quella del giudizio mentre era un falso allarme ed una devastante illusione. Una spettrale illusione: il comunismo non è mai stato reale, e con questa idea che liquida l'illusione di un secolo e più come apparenza e fantasma, come ossessione, ci si può anche consolare. Alcuni comunisti dicono: abbiamo sbagliato tutto. Altri dicono di non essere più comunisti. Altri ancora ricominciano da capo, interrogano la filosofia e prendono a chiedersi in che mondo siamo capitati, cos'è l'uomo e se disponga di una natura e su questa si possa fondare qualcosa, o sia solo una prosecuzione dell'antenato comune con lo scimpanzè casualmente dotato di linguaggio. Così andando, si rischia di inciampare in tanti cadaveri; Derrida sceglie i residui di Valéry, "un altro discendente". Non dell'antenato comune, si badi, lo scimpanzè è una mia forzatura, no, "discendente" da un padre fantasma, che vaga «su un'immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Colonia, che tocca le sabbie di Newport, le paludi della Somme, i gessi di Champagne, i graniti di Alsazia - l'Amleto europeo guarda migliaia di spettri. Ma è un Amleto intellettuale. Medita sulla vita e sulla morte della verità. Ha per fantasma tutti gli oggetti delle nostre controversie; per rimorso tutti i titoli della nostra gloria [...] Se tocca un teschio, è un teschio illustre.» Trovi Leonardo, Leibniz e Kant. E trovi, questo il senso degli Spettri, più di un Marx, più d'uno. «Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx. E insieme a lui, tanti altri - anche al di là della "lettura" o della "discussione" di scuola. Sarà sempre un errore, un venir meno della responsabilità teorica, filosofica, politica. Da quando la macchina per far dogmi e gli apparecchi ideologici "marxisti" (Stato, partito, cellule, sindacati e altri luoghi di produzione dottrinale) sono in via d'estinzione, non abbiamo più scuse, solo alibi, per distoglierci da questa responsabilità. Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l'eredità di Marx, e comunque di un certo Marx, del suo genio, di uno almeno dei suoi spiriti. Perché sarà questa la nostra ipotesi, o piuttosto il nostro partito preso: ce n'è più d'uno, deve essercene più d'uno.»
E' uno sconcertante paradosso rivolgersi al déjà vu e non guardare al futuro? Non illudiamoci, non si può a prescindere, anche dicendolo con Totò. Appartengo ad una generazione, dice Derrida, che ha rifiutato il comunismo da sinistra. Mai condiviso un discorso con la destra americana, mai avuto a che fare con motivazioni conservatrici. «Quanti giovani d'oggi (tipo "lettori-consumatori di Fukuyama" o "Fukuyama" stesso) lo ignorano completamente: i temi escatologici della "fine della storia", della "fine del marxismo", della "fine della filosofia", delle (dei) "fini dell'uomo", dell'"ultimo uomo", ecc., erano, negli anni Cinquanta, quarant'anni fa, il nostro pane quotidiano. Questo pane d'apocalisse noi lo avevamo naturalmente in bocca, insieme a quello che in seguito, nel 1980, ho chiamato il "tono apocalittico della filosofia".»
Erano "i classici della fine"che formavano il canone dell'apocalisse moderna. Stretti in tale morsa, tra Nietzsche-Heidegger e le catastrofi della burocrazia sovietica ecco il senso e lo spazio per la cosiddetta decostruzione. Non se ne capisce nulla, se si dice: a prescindere. Da Marx, da Breznev, dai classici della fine. «Perciò oserei dire che il più delle volte la parata mediatica dei discorsi attuali sulla fine della storia e l'ultimo uomo sembra a noi, cioè a me e a quelli con cui ho condiviso quel periodo del tutto particolare, quell'esperienza doppia e unica (insieme filosofica e politica), solo un noioso anacronismo. Fino ad un certo punto, almeno, che più tardi dovremo precisare. Qualcosa di questa noia traspira, del resto, dal corpo della cultura più fenomenica oggi: quel che si intende, si legge o si vede, che più si mediatizza nelle capitali occidentali.»
Chi si aspetta che Derrida chiarisca perché i progetti non riescono o perché alla storia non appartenga alcun disegno, a meno che non si spacci per progetto il fallimento di tutti i progetti, andrà in parte deluso e in parte soddisfatto. Noi crediamo che la storia offre solo opportunità, si tratta di coglierle, se ci piacciono, si tratta di rassegnarsi ad un'attesa, se non ci piacciono. Domani è sempre un altro giorno. Ma questo non è "marxismo", e nemmeno è del tutto riconducibile a "un" marxismo particolare, una deviazione. Per Marx la storia ha una direzione e i processi la seguono come un treno sui binari. Il treno può essere solo in ritardo, quindi l'attesa è giustificata. Per me si tratta di attendere anche se non crediamo che la storia percorra dei binari. Attendiamo Godot, che non è un treno e spesso fa l'autostop con lo zainetto seguendo piste mai battute. Il problema, allora, è dove aspettarlo. Derrida, inoltre, potrebbe obiettare, in questo è maestro, che ricorrere all'opportunità senza costruire il suo concetto e poi decostruirlo, non significa granché. E poi direbbe che invece anche questo è marxismo, i processi devono compiersi, le situazioni devono maturare. Abbiamo avuto a che fare con un Marx "scienziato sociale", non un velleitario ribelle. Certo, questo è il Marx più probabile, ma in effetti ci sono stati molteplici Marx, tanti quanti sono i suoi spettri. Per dire ciò, Derrida ricorre a Maurice Blanchot, ad uno scritto compilato attorno al '68, periodo in cui gli spettri di Marx si erano impossessati di molti cuori e di qualche roccaforte del pensiero.
Blanchot è prima introdotto da Derrida, poi ripreso al termine di una discussione serrata su Heidegger, Dike e adikìa. Le tre parole di Marx di Blanchot, «sobria chiarezza di una incomparabile densità» non sono una risposta piena ad una domanda, «quanto ... un tentativo di misurarsi con ciò di cui oggi dobbiamo rispondere, eredi quali siamo di più di una parola, come una ingiunzione disgiunta da se stessa.»
Non abbiamo un'eredità unita e coerente, ma se fosse unita non potrebbe consistere nell'ingiunzione di riaffermare scegliendo. Occorre filtrare, setacciare, discernere e criticare. «Se fosse data, naturale, trasparente, univoca, se la leggibilità di un mandato non richiedesse e a un tempo non sviasse l'interpretazione, non ci sarebbe mai nulla da ereditare... Si eredita sempre a partire da un segreto - che dice "leggimi, ne sarai mai capace?"»
Quel segreto è forse il legame segreto tra Marx e Shakespeare? Blanchot, si badi, non nomina Shakespeare. E' Derrida che balza sull'idea di "quel che tiene unito il disparato" in Marx. «Quel che a partire da Marx viene enuciandosi può promettere o ricordare soltanto di tener assieme, in una parola che differisce, differente non ciò che afferma, ma differente giusto per affermare, per affermare in modo giusto, per poter (potere senza potere) affermare la venuta dell'evento, il suo stesso a-venire.» Io sarei portato a distinguere l'analisi dalla diagnosi, e la prognosi dalla terapia e tutte questi passaggi come distinti momenti, ciascuno dei quali è dialettico rispetto agli altri. In tal modo ci starebbero anche le contraddizioni, ma contraddizioni riassorbili. Diversamente, Derrida, seguendo Blanchot, riconosce le contraddizioni ma le interpreta come espressione delle "giunture negate". La prima citazione di Blanchot parla chiaro: «In Marx, e sempre proveniente da Marx, vediamo prender forza e forma tre tipi di parole, tutte e tre necessarie, ma separate e più che opposte come giustapposte. Il disparato che le tiene assieme designa una pluralità di esigenze cui ognuno, a partire da Marx, parlando, scrivendo, non manca di sentirsi sottomesso, salvo sentirsi mancanti di tutto.» (il corsivo è di Derrida).
Così possiamo lasciare temporaneamente Blanchot, e visitare Amleto e con Amleto arriviamo a Heidegger. Il nesso c'è, è il diritto lontano dalla giustizia, il diritto che deve ricorrere alla vendetta per avere giustizia. E se non alla vendetta, a qualche scorciatoia "illegale".
L'idea che sembra emergere è che la giustiza si colloca sempre al di là del diritto, per realizzare giustizia, il diritto deve incurvarsi, assumere traiettorie che incontrino la vita, piegarsi, oppure rischia di vedersi saltato, aggirato, dribblato. Se il diritto non si sforza di essere giustizia, noi abbiamo diritto ad un altro diritto. E questo è uno spirito di Marx, quello che ha sempre soffiato molto forte. Heidegger ha però introdotto una dissimmetria a favore di quel che interpreta come la possibità dello stesso favore. «Una volta riconosciuta la forza e la necessità di pensare la giustizia a partire dal dono, cioè al di là del diritto, del calcolo e del commercio, e dunque la necessità (senza forza, giustamente, forse senza necessità e senza legge) di pensare il dono all'altro come il dono di ciò che non si ha e che, pertanto, paradossalmente, non può che rivenire all'altro, non si corre forse il rischio a riscrivere tutto questo movimento della giustizia sotto il segno della presenza, sia pure della presenza nel senso dell'Anwesen, dell'evento come venuto alla presenza, dell'essere come presenza ben assestata, del proprio dell'altro come presenza? Come la presenza del presente ricevuto, certo, ma pur sempre appropriabile come lo stesso, e così raccolto? Al contrario la giustizia come rapporto all'altro, al di là del diritto, e ancor più del giuridicismo, al di là della morale, e ancor di più del moralismo, non suppone l'irriducibile eccesso di una disgiuntura o di una anacronia, una qualche Un-Fuge, una dislocazione "out of joint" nell'essere e nel tempo stesso, una disgiuntura che, per rischiare sempre e comunque il male, l'espropriazione e l'ingiustizia (adikìa), contro cui non c'è assicurazione calcolabile, potrebbe solo fare giustizia o rendere giustizia all'altro in quanto altro? Un fare che non si consumerebbe nell'azione e un rendere che non tornerebbe a restituire? Per dirla con troppa brevità e per formalizzare all'estremo i termini in gioco: qui, in questa interpretazione dell'Un-Fug (a partire o meno dall'essere come presenza e dalla proprietà del proprio), si giocherebbe il rapporto della decostruzione con la possibilità della giustizia, il rapporto della decostruzione (in quanto procede dall'irriducibile possibilità dell'Un-Fug e della disgiuntura anacronica, in quanto vi attinge la risorsa stessa e l'ingiunzione della sua affermazione riaffermata) con quel che deve (senza debito e senza dovere) darsi alla singolarità dell'altro, alla sua precedenza o alla sua premurosità assoluta, all'eterogeneità di un pre- che significa certo quel che viene prima di me, prima di ogni presente, dunque prima di ogni presente passato, ma anche quel che, perciò stesso, viene dall'avvenire o come avvenire: come la venuta stessa dell'evento.» La risposta di Heidegger è che il donare riposa solo sulla presenza. Quindi donare non è solo dar via, ma accordare. L'offerta consiste nel lasciare all'altro e ciò assesta, rimette in quadro. «Se, con questa parola - continua Derrida - "giustizia", si traduce ancora Dike, e se, come Heidegger fa, si pensa Dike a partire dall'essere come presenza, si confermerebbe che la "giustizia" è innanzitutto, e finalmente, e soprattutto propriamente, l'assestamento dell'accordo: l'assestamento proprio dell'altro, donato da chi non l'ha. Ingiustizia sarebbe la disgiuntura o il dissesto...»
Molti di noi lo sapevano ancor prima di aver letto Heidegger! Ma il punto in questione era un altro: cosa tiene unito il disparato? Se non è il disparato stesso, allora è Marx. Il quale congiunge le disgiunzioni e vede dove sta il male, nel fatto che l'uomo è condizionato dal suo appartenere a un modo di produzione dei mezzi di sussistenza che gli nega l'umanità integrale e lo espropria di gran parte di ciò che ha prodotto. Ciò che a noi pare disgiunto, l'individuo nella sua peculiarità-identità, a Marx pare congiunto in una condizione comune ad una classe particolare, la quale, tuttavia ha un carattere universale e può realizzarsi come umanità abolendo tutte le classi. L'idea non è fantasmagorica o spettrale, spettrale è il movimento che realizza l'idea attraverso la realizzazione dell'individuo e del sociale, spettrale perché non si vede ancora, eppur minaccia di farsi vedere. Blanchot coglie la faccenda, ma ritiene indeterminate o indecise le domande alle quali risponde la ricetta marxiana. Abbiamo a che fare con un "vuoto", un'assenza di domande. Derrida balza con ferocia sull'assenza. Il vuoto di domande diventa gli spettri che attraversano i muri, li costruiscono (e poi li fanno crollare), questi revenants, giorno e notte, aggirano la coscienza e saltano le generazioni.
«Inutile precisarlo qui, ancor meno insistervi troppo pesantemente: non c'è alcun gusto per il vuoto o per la distruzione in chi concede un diritto alla necessità di "svuotare" sempre più e di decostruire delle risposte filosofiche, che consistono nel totalizzare, nel colmare lo spazio della domanda o nel negarne la possibilità, nel fuggire appunto ciò che essa avrà permesso di intravvedere. Si tratta al contrario, di un imperativo etico e politico, di un appello tanto incondizionato quanto quello del pensiero da cui non si separa. Si tratta dell'ingiunzione stessa - se ce n'è una.»
Le tre parole di Marx individuate da Blanchot sono incoerenti. Inutile cercare di fondarle su un sistema. L'essenza di una filosofia che voglia essere la propria realizzazione non può irrigidirsi in una coerenza, tra una parola e l'altra c'è il vuoto lasciato dalle domande. E allora? Allora lasciamo che le incoerenze si facciano strada, anche se, annota Derrida, Marx viveva male l'assenza di sistema, o meglio, la disgiunzione delle ingiunzioni in lui, la loro intraducubilità le une nelle altre. Ma questo che vuol dire? Che importanza ha? «La traducibilità garantita, l'omogeneità data, la coerenza sistematica, assoluta, sono ciò che rende sicuramente (certamente, a priori e non probabilmente) l'ingiunzione, l'eredità e l'avvenire, in una parola l'altro, impossibili. Sono necessari la disgiunzione, l'interruzione, l'eterogeneo se almeno è necessario, se è necessario, dare la sua chance a un qualsiasi "è necessario", per quanto al di là del dovere.»
Se l'imperativo è scongiurare Marx, non lo si può spettralizzare all'infinito. In fondo non conviene vivere in un clima di terrore continuando a gridare ai fantasmi. Tanto più che il comunismo non è un fantasma. Se letto correttamente, ho qualche dubbio che Blanchot abbia afferrato il nocciolo della questione, esso sarebbe il movimento reale che cambia il presente. Definizione generica, ma anche tendenza oggettiva, andare ad una crescente contraddizione tra rapporti sociali obsoleti e incancreniti e lo sviluppo delle forze produttive. Anche Bush e Berlusconi lavorano per il comunismo facendo movimento, o meglio: contro-movimento. Il loro contro-movimento lavora per il movimento, lo reclama cercando di esorcizzarlo, lo aizza proprio attraverso le dosi di morfina che elargisce qui, e la valanga di bombe che butta là. Non fanno che evocare il loro nemico, lo spirito di Marx, e non in uno dei tanti spiriti. Lo spirito di Marx, e anche dell'umanità, è dividere la torta in fette sempre più uguali. in un tempo di pace. E' unire il mondo, finalmente, abbattere frontiere, eliminare lo "Stato" dissolvendolo come non più necessario. Unire il mondo, e non i padroni del mondo.
L'idea di Derrida è che sia ineludibile l'avvento di una nuova Internazionale, assai diversa da quelle precedenti, una Internazionale anonima, quindi nemmeno no-global, se ho ben capito. Ma scriveva all'inizio degli anni '90, in una scenario in cui il terrorismo c'era, ma non aveva ancora colpito il cuore dell'America. Se le istituzioni internazionali sono sempre più squalificate, dobbiamo constatare che si deve render loro, ad alcune di esse, un minimo di riconoscimento. Dobbiamo provare ad emanciparle. I segnali sono deboli e confusi, ma dobbiamo «salutare con favore quel che oggi si annuncia: la riflessione sul diritto di ingerenza o l'intervento, in nome di ciò che oscuramente è chiamato, talvolta con ipocrisia, umanitarsmo, che limita, a certe condizioni, la sovranità dello Stato. Salutiamo questi segni, per quanto vigilmente diffidenti delle manipolazioni e delle appropriazioni di cui queste novità possono essere oggetto.» Ma questa apertura alle istituzioni, evidentemente non basta, su esse bisogna vigilare, lavorare. La nuova Internazionale non è solo la capacità di riversare nelle istituzioni un nuovo diritto, ma un legame di affinità, di sofferenza e di speranza. Intempestivo, senza statuto, senza titolo e senza nome, appena pubblico, senza statuto, out of joint, perfino senza appartenenza ad una classe, transnazionale, trancontinentale, povero di ideologia. «Quel che qui si chiama con il nome di nuova Internazionale chiama all'amicizia di una alleanza senza istituzione tra coloro che, anche ormai non credono o non hanno mai creduto all'Internazionale socialista-marxista, alla dittatura del proletariato, al ruolo messianico escatologico dell'unione universale dei produttori di tutto il mondo, continuano a ispirarsi almeno ad uno degli spiriti di Marx ... per allearsi, in modo nuovo, concreto reale, anche se questa alleanza non prende più la forma del partito o dell'Internazionale operaia, ma quella di una sorta di contro-congiura, nella critica (teorica e pratica) dello stato del diritto internazionale, dei concetti di Stato e nazione, ecc.: per rinnovare questa critica e soprattutto per radicalizzarla.»
Nella nuova Internazionale possono convivere più di una linea, e anche più di uno spirito. Una di esse, la più paradossale, starebbe nella logica idealista di Fukuyama. Ma per trarne altre conseguenze. «Accettiamo provvisoriamente l'ipotesi che tutto ciò che va male nel mondo oggi non fa che misurare lo scarto tra una realtà empirica e un ideale regolatore, sia che si definisca quest'ultimo come fa Fukuyama, sia che se ne affini e trasformi il concetto. Il valore e l'evidenza dell'ideale non sarebbero compromessi, intrinsecamente, dall'inadeguatezza storica delle realtà empiriche. Ebbene, anche all'interno di questa ipotesi idealista, il ricorso a un certo spirito della critica marxista resta urgente e dovrà restare indefinitamente necessasrio, per denunciare e ridurre quanto possibile lo scarto, per aggiustare "la realtà" all'"ideale" nel corso di un processo necessariamente infinito. Se si sa adattarla a nuove condizioni, questa critica marxista può restare feconda, si tratti per esempio di nuove forme di produzione, dell'appropriazione di poteri e saperi economici e tecno-scientifici, della formalità giuridica nel discorso e nelle pratiche del diritto nazionale o internazionale ...»
Si dà però una seconda interpretazione, e quindi una seconda chance. Al di là dei contrasti tra "fatti" e "ideale", bisogna rimettere in questione l'ideale. E ciò impone di rimettere in questione tutto, economia, diritti, donne, bambini, uguaglianza, fraternità, libertà, diritto. Così andremmo a toccare il concetto di uomo e animale, un determinato concetto di democratico che lo suppone, non in questa democrazia, ma in quella a venire.
Sono due prospettive che devono intrecciarsi. «Altrimenti non ci sarà alcuna ri-politicizzazione, non ci sarà più il politico. Senza questa strategia, ciascuna delle due ragioni potrebbe portare al peggio, al peggio del male, se si può dire, cioè a una sorta di idealismo fatalista o di escatologia astratta e dogmatica davanti al male del mondo.»
Derrida non esita ad invocare un certo spirito dei Lumi, ed a connetterlo ad uno spirito di Marx. Questo spirito, per quanto fantomale, ingiunge e disgiunge. Ci ingiunge di raccoglierne l'eredità, ci disgiunge da quelli che credono di essere i suoi eredi. Non si tratta di versare lacrime, elevare lamenti greci alla fatalità del destino che vuole l'eterna scissione tra socialisti e comunisti, riformisti e rivoluzionari, integrati ed apocalittici. «Il gesto di fedeltà a un certo spirito del marxismo è una responsabilità che in linea di principio incombe su chiunque. La nuova Internazionale, meritando appena il nome di comunità, non appartiene che all'anonimato. Ma questa responsabilità sembra oggi, almeno entro i limiti di un campo intellettuale ed accademico, sopraggiungere più imperativamente, e diciamolo per non escludere nessuno, prioritariamente, urgentemente, a coloro che, negli ultimi decenni, hanno saputo resistere a una certa egemonia del dogma, anzi, della metafisica marxista, nelle sue forme politiche e teoriche. E più particolarmente ancora a coloro che hanno cercato di concepire e praticare questa resistenza senza accondiscere a tentazioni reazionarie, conservatrici, antiscientifiche o oscurantiste., a coloro che al contrario non hanno smesso di procedere in maniera ipercritica, oserei dire decostruttiva, in nome dei nuovi Lumi per il secolo a venire. E senza rinunciare a un ideale di democrazia e di emancipazione, cercando piuttosto di pensarlo e di metterlo in atto altrimenti.»
La nuova Internazionale, allora, sarebbe più di una "sinistra", potrebbe essere un "centro-sinistra", od una "sinistra centro", insomma, una sinistra consapevole che per ereditare uno degli spiriti di Marx, quello che spaventa veramente i reazionari, bisogna smettere di essere "marxisti".
La vicenda attuale narra di questa esigenza. Saranno i non marxisti, gli eredi di Marx, eterni oppositori di chi vuole il mondo "fuori squadra".
(1) Francis Fukuyama - La fine della storia e l'ultimo uomo - Rizzoli 1992
MC - 30 marzo 2007