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La filosofia di Emanuele Severino
Fuori dalla metafisica? Solo apparentemente
Dario Smizer
La "coscienza" non è la causa della vita, così come la vita non è la causa della coscienza. Contestando idealismo e marxismo (e insieme al marxismo anche Nietzsche e Freud, uniti al marxismo da una comune radice materialistica), Severino suggerisce di ripensare il rapporto tra causa ed effetto in un senso molto più maturo dell'opposizione comunemente accettata tra spirito e materia nel'ambito del pensiero metafisico. «Il principio di causalità è infatti uno dei modi con cui l'epistéme interpreta il divenire. Noi diciamo che il senso greco del divenire "sta alla base" dell'intera storia dell'Occidente, in modo simile a quello in cui si dice che uno spazio libero sta alla base di tutte le azioni che vengono compiute all'interno di esso. Lo spazio non è le azioni e non le produce, e tuttavia esse devono tener conto della conformazione e dell'ampiezza dello spazio, delle sue ubicazione, del periodo in cui esso è disponibile ecc.» (1)
Per comprendere tale indicazione, è necessario riflettere su come Marx ha affermato che la vita è il lavoro e il lavoro è la vita in tutte le epoche della storia dell'uomo. Le idee di Marx sono comprensibili solo all'interno della "fede greca nel divenire", una fede che la filosofia occidentale considera non discutibile data la sua evidenza. «Eppure, questa fede appare solo ad un certo punto della storia dell'uomo.» ... «Anche quando rifiuta le categorie del pensiero greco, la cultura occidentale è incapace di pensare l'esistenza pre-greca indipendentemente da quelle categorie; e tuttavia, dato il modo in cui viene interpretato lo sviluppo storico, si deve dire che il senso greco del divenire non appare sin dall'inizio di tale sviluppo.» (2)
In realtà, dice Severino, solo alcuni secoli prima di Cristo si è cominciato a pensare l'opposizione tra essere e divenire, quindi tra essere e nulla. Va compreso che noi ci troviamo dunque ad agire e pensare su "uno sfondo" completamente costruito con le categorie del pensiero greco. Marx, cercando di cogliere la condizione umana nella sua apparente concretezza, non ha fatto che portare alle estreme conseguenze ciò che era stato detto da Platone ed Aristotele. In Marx il "nesso immediato" è la condizione in cui si trovano le cose prima che l'attività umana le strappi al loro essere. «Il taglialegna, dice Marx, scioglie l'albero dal suo nesso immediato col bosco; il pescatore scioglie il pesce dal suo nesso immediato con l'acqua. L'albero e il pesce sono cose, essenti. La separabilità della cosa dal suo nesso immediato è il divenire della cosa. Il lavoro, che così la separa, è la produzione - la poìesis - che fa passare dal non essere all'essere la cosa in quanto "valore d'uso", cioè in quanto "bene" che può essere usato dall'uomo.» (3)
In questa luce appare evidente che ogni essente è ridotto a "cosa", materia manipolabile. «Questo progressivo estendersi della presenza dell'"essente" nella cultura occidentale è qualcosa di "constatabile" (si tratta della "constatabilità" che si forma all'interno e sulla base del modo in cui l'Occidente interpreta sè stesso. Ma man mano che lungo la storia dell'Occidente, l'essente diventa lo sfondo delle differenze che costituiscono tale storia - man mano che l'essente diventa lo sfondo di una dimensione sempre più ampia di cose -, va crescendo anche l'insieme di azioni che lungo la storia dell'Occidente sono orientate e costituite dall'esser essente, cioè dal senso greco dell'esser cosa.» (4)
Ma che significa pensare il "niente" e pensare le cose in opposizione al niente? Platone nel Libro V della Repubblica aveva ben detto che il niente è inconoscibile. E lo aveva già visto Parmenide. Il "niente" non offre alcuna presa al nostro pensiero. Questa antica osservazione rimane alla base del pensiero filosofico. Proprio questa acquisizione basilare costringe la filosofia, dai Greci ad Hegel, a ragionare in termini antinomici. Se da un lato afferma che il "niente" è inconoscibile, dall'altro esso rivendica il suo carattere epistemico, cioè pretende di prevedere cosa uscirà dal niente. La coesistenza di questi due atteggiamenti sarebbe da considerare impossibile, eppure è il dato costante della filosofia occidentale. «Se il niente è niente, non può doversi adeguare alla Legge dell'epistéme, ma è libero da ogni legge perché è libero da ogni positività. Ma la Legge dell'epistéme richiede che anche l'ancor niente, diventando essente, si adegui ad essa, sì che il niente diventa un ascoltatore dell'essere, e cioè esso stesso un essere.» (5)
Secondo Severino, la filosofia contemporanea ha finalmente compreso che si tratta di superare questa antinomia accettando il carattere illusorio della previsione epistemica, e che, quindi, la presunta verità dell'epistéme è l'errore da cui occorre liberarsi perché rimanendo nell'illusione si trasforma il niente in essente. «Per restare fedele a questa evidenza - cioè all'affermazione platonica dell'inconoscibilità del niente, e quindi del niente da cui, nel divenire, gli essenti provengono -, la filosofia contemporanea distrugge ogni "platonismo", cioè ogni forma di epistéme.» (6)
Seguendo tale linea di ragionamento, anche la "filosofia della storia" sviluppata in primo luogo da Hegel viene ad essere messa in discussione quale «forma più radicale e consapevole di previsione epistemica del futuro.» Infatti, secondo Hegel, l'essenza del futuro è totalmente disvelata e presente nell'autocoscienza dell'idea. L'imprevisto è solo accidentale. «Ma nel concetto di di realizzazione dell'accidentale è presente il senso originariamente greco del divenire.Anche per Hegel, cioè, nell'accadimento dell'accidentale il futuro è l'ancor niente da cui gli enti provengono.
Questo significa che, dal punto di vista dell'essenza (cioé dell'Idea), la storia non ha futuro, e che il futuro riguarda soltanto, come ogni forma di epistéme , gli aspetti accidentali del futuro.
Anche l'epistéme hegeliana sopprime la nientità dell'ancor niente, che tuttavia vien tenuta insieme ferma nel riconoscimento che il divenire, come vicenda che coinvolge l'accidentale, esiste e che il futuro dell'accidentale è imprevedibile.» (7)
Per queste ragioni la filosofia contemporanea rifiuta la filosofia della storia, specialmente quella di matrice hegeliana.
Ma la rinuncia all'epistéme non riguarda solo la filosofia. Essa coivolge anche la scienza, la quale è a sua volta consapevole che negare che il niente sia essente diventa indispensabile. «L'abbandono del determinismo, da parte della scienza, è un aspetto dell'abbandono dell'epistéme. E così l'affermazione, da parte della scienza, del carattere statistico-probabilistico, e non assoluto, delle proprie leggi. Per Heisenberg e Bohr, il principio di indeterminazione non riguarda semplicemente la conoscenza (secondo quanto afferma invece l'interpretazione soggettivistica di tale principio), ma la realtà: la realtà è indeterminata: la realtà è oggettivamente imprevedibile. E questa affermazione mostra il proprio significato più radicale solo se ci si rende conto che è la nientità del futuro a rendere impossibile la sua previsione incontrovertibile.» (8)
Il crollo dell'epistéme nella pratica scientifica corrisponde alla crisi del meccanicismo. «Il "meccanicismo" è appunto l'estensione delle leggi della meccanica a tutta la natura; e il "determinismo" è l'affermazione del carattere assolutamente necessario col quale i fenomeni e gli eventi sono determinati dalle loro cause.» (9) Ma la scienza non è, e non eguaglierà mai, l'intelligenza onnisciente del demone di Laplace. La scienza riesce solo a conoscere un parte della macchina gigantesca rappresentata come mondo nel meccanicismo. Il tramonto del meccanicismo coincide con il successo della relatività di Einstein e della quantistica. Paradossalmente si tratta di un tramonto che avviene proprio quando il modello meccanicistico comincia ad essere applicato con successo nella biologia e nella medicina con Claude Bernard, nonché nella psicologia sperimentale e fisiologica. Se la teoria della relatività trasforma profondamente la meccanica classica, è però con la microfisica quantistica che l'intero impianto epistemico viene sfondato alla radice. Infatti, la non osservabilità contemporanea di velocità e posizione di una particella, secondo Severino (e non solo), "esprime l'inesistenza di ciò che non può essere osservato". «Non si tratta semplicemente del fatto che non è possibile misurare uno stato del mondo (cioè il rapporto tra velocità e posizione delle particelle in un certo istante) che peraltro sia in se stesso completamente determinato: è lo stesso stato del mondo ad essere in sé stesso indeterminato (relativamente alla velocità o alla posizione delle particelle).» (10)
Il tramonto dell' epistéme non riguarda solo le scienze fisiche, ma anche quelle della matematica pura e della logica. Severino legge con estrema attenzione le disavventure di Frege e Russell, per arrivare, attraverso Wittgenstein e Hilbert, a Kurt Gödel, il quale dimostra che all'interno dei sistemi funzionali, come quello di Hilbert, non è possibile stabilire se essi contengano o no una contraddizione. La scoperta di Gödel segna così l'apogeo della crisi dell'epistéme anche come modello formale.
Certamente è vero che si può leggere la vicenda dell'intera impresa logico-scientifica come semplice crisi della ragione classica e illuministica, come è stato fatto non più di un trentennio fa dalle correnti più inquiete della filosofia italiana. (11) Tuttavia, a mio avviso, l'interpretazione proposta da Severino contiene caratteri di maggiore profondità perché non si limita a considerare la crisi della scienza come semplice espressione della crisi della ragione meccanica da Cartesio in poi, ma appunto come crisi complessiva dell'atteggiamento epistemico. Per Severino, infatti, continua a sussistere nella filosofia un'epistéme metafisica che non rinuncia a presentarsi armata di tutto punto come Pallade Athena. Si allude evidentemente alla neoscolastica, dalla quale Severino è polemicamente fuoriuscito, ma non dobbiamo credere che la metafisica si concluda con essa. La metafisica resiste, infatti, in una molteplicità di filosofie, anche quelle che apparentemente credono di essere riuscite nell'impresa di aver demolito l'epistéme una volta per tutte. Emblematico è il caso di Heidegger, ed altrettanto emblematico è il caso di Popper. Sono due facce della stessa medaglia. Heidegger 'crede' di aver demolito il pensiero metafisico; Popper invita esplicitamente a reintrodursi nella mentalità metafisica per congetturare nuove ipotesi fisiche.
E' vero che Heidegger denuncia la pianificazione tecnologica come forma compiuta del progetto di dominio metafisico avviato da Platone e sviluppato da Aristotele, ma proprio Heidegger, secondo Severino, «non tiene presente l'opposizione di fondo tra l'epistéme metafisica e la scienza moderna: l'opposizione tra l'incontrovertibilità, che l'epistéme intende stabilire, e l'ipoteticità della conoscenza scientifica che sta alla base dell'agire tecnologico. Metafisica e tecnologie sono certamente due forme di pianificazione. Ma la pianificazione metafisica è epistéme, intende essere cioè il "piano" definitivo e immodificabile, al quale tutto deve essere ricondotto perché la sua verità è assoluta. Il "piano" è il Senso incontrovertibile della totalità dell'essente. La pianficazione scientifico-tecnologica delle totalità dell'essente ha invece un carattere ipotetico sperimentale, ossia è disposta a farsi modificare e correggere dal modo in cui va via via presentandosi.
Certo, essa immette nel processo produttivo-distruttivo la totalità dell'essente, perché esclude di avere di fronte a sé limiti aassolutamente insuperabili, a priori inviolabili, ma essa non è ancora onnipotenza e si trova di fronte a limiti di fatto insuperati. E, oltre al limite consistente nell'incapacità della tecnica di realizzare certi scopi, c'è anche il limite costituito dalle smentite che la pianificazione scientifico-tecnologica riceve dall'accadimento del mondo.» (12)
Al contrario, la pianificazione metafisica non ammette il fallibilismo. Nessun evento può smentirla, cioè falsificare qualche sua affermazione. Può stupire che Severino adotti una terminologia "popperiana", e finisca con il condividere una parte della critica di Popper alle ideologie metafisiche, ma questa "mossa" serve a mostrare quanto dell'antico senso greco del divenire si sia trasferito, trasformandosi, nell'impresa scientifica: anche «l'essenza della specializzazzione scientifica non è presente soltanto all'interno delle varie discipline scientifiche; essa caratterizza il modo stesso in cui vive l'uomo nelle società moderne. Nel venir meno del senso della comunità, nello spezzarsi degli antichi vincoli che uniscono gli uomini nella comunità sociale, nella sostituzione di tale comunità con la molteplicità degli individui umani isolati gli uni dagli altri, in questi eventi dell'Europa moderna è presente l'essenza stessa della specializzazione scientifica.» (13) La "società aperta" difesa ed enfatizzata da Popper non è altro che la molteplicità degli individui "isolati", liberi e "responsabili". Essa è"aperta" nel senso che il legame sociale è spezzato.
In tale dimensione si spiega il tramonto della filosofia di fronte alla scienza. Ma questo tramonto non avviene in contrapposizione ad un modo di pensare realmente alternativo alla filosofia. «Si tratta di comprendere che il tramonto della visione unitaria ed organica, che è proprio dell'epistéme, nella visione isolante e specialistica della scienza moderna è la conseguenza inevitabile del senso dell'essente e del divenire che è l'epistéme stessa a portare per la prima volta alla luce.» (14)
La fuoriuscita della scienza dal modo di pensare metafisico è quindi illusoria. La scienza eredita dalla filosofia l'antica contrapposizione tra essere e niente, e continua a pensare che le cose escono dal niente e nel niente ritornano. Il tramonto dell'epistéme e l'affermazione del fallibilismo non hanno sostanzialmente intaccato il carattere fondamentale della scienza, la quale continua ad agire infinitamente sugli essenti, «facendo loro percorrere l'infinita distanza tra l'essere e il niente.» Scienza e tecnica sono le forme più radicali dell'azione infinita che vuole continuare a pianificare, pur rinunciando all'infallibilità ed all'onnipotenza. Alla pianficazione epistemica segue dunque la pianificazione ipotetica, la quale si limita alla previsone probabilistica. Il probabilismo non impone il proprio dominio al divenire, prende atto che può accadere qualcosa in grado di smentire le leggi naturali. Ma il "pianificare" rimane. Anche e soprattutto come produzione. Essa, come vide Marx, è l'essenza dell'uomo occidentale. Pertanto, anche privata dell'onnipotenza, la scienza occidentale è la forma di dominio per eccellenza. «La potenza della previsione scientifica non è dovuta all'incontrovertibilità del prevedere, ma al fatto che la convinzione di dominare il mondo mediante le procedure ipotetiche della scienza moderna è accompagnata da configurazioni del mondo che si lasciano interpretare come dominio reale della scienza sul mondo. La scienza prevede ed ha potenza sul mondo; ma non esiste alcuna garanzia assoluta che tale previsione non possa essere smentita e che il mondo non possa sottrarsi alle leggi via via formulate dal sapere scientifico.» (15) La scienza, dunque è strumento per il dominio del mondo e l'unica garanzia della sua validità è che funziona. Attraverso il suo funzionamento, riesce a convincere che anche attraverso un modello ipotetico si può dominare il divenire, prevenendo o curando le disfunzioni. Eppure, non esiste alcuna garanzia assoluta che la potenza dell'apparato tecnico scientifico sia dovuta al modo in cui la scienza costruisce i propri concetti.
(1) E.Severino - La filosofia futura - RCS Rizzoli 1989
(2) idem
(3) idem
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem
(8) idem
(9) E.Severino - La filosofia dai Greci al nostro tempo / La filosofia contemporanea - RCS 1996
(10) idem
(11) si vedano ad esempio i lavori di Aldo G. Gargani e quelli di Massimo Cacciari.
(12) E.Severino - La filosofia futura - cit.
(13) idem
(14) idem
(15) idem
DS - 9 novembre 2006