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Disastro Russia
3: la crisi del '98, il salvataggio dei creditori e l'affossamento della Russia
di Guido Marenco
La Russia superproduttore di petrolio: non era manna dal cielo
Da quanto detto finora, è evidente che la crisi russa non dipendeva strettamente da quella dell'estremo oriente asiatico, ma aveva ragioni del tutto originali. Il paese, tuttavia ne risentì in modo esagerato, essendosi trasformato da grande colosso industriale in un paese esportatore di petrolio e materie prime, che rappresentavano ormai quote decisive delle esportazioni.
Che possedesse molto petrolio non era certo una novità: ma che la sua produzione fosse aumentata al punto da farla competere con quella dell'Arabia Saudita era invece cosa del tutto nuova. Non abbiamo dati circa i costi estrazione di quel tempo, ma è utile sapere che attualmente un barile saudita costa 1,5 dollari mentre un barile texano costa 13 dollari.
La storia insegna che quando una nazione priva di tradizioni democratiche ed una solida base produttiva diventa un superproduttore di petrolio, rischia di degenerare.
In proposito Moses Naim, direttore di Foreign Policy ha scritto: « Negli Stati Uniti o in Norvegia il petrolio non ha distorto o stravolto la realtà come è successo invece in Nigeria o in Venezuela. Il connubio petrolio-istituzioni pubbliche deboli crea un cocktail micidiale: favorisce la povertà, l'ineguaglianza e la corruzione. E mina la democrazia. Sono davvero pochi i paesi con Stati deboli che sono riusciti a trasformare il petrolio in prosperità per la maggioranza della popolazione.
Un paese, la cui economia è per lo più basata sul petrolio, adotta inevitabilmente un tasso di cambio che rende meno costose le importazioni e più care le esportazioni. Ciò inibisce lo sviluppo di altri settori. L'agricoltura, l'artigianato o il turismo diventano meno competitivi a livello internazionale e la loro crescita finisce per essere ostacolata. I petro-Stati offrono anche meno posti di lavoro e la loro crescita economica è piuttosto volubile. Il petrolio di per sé non crea molti posti di lavoro, ma produce per il governo introiti e tasse sulla merce di esportazione. In Russia l'industria del petrolio e della benzina incide sul 20 per cento dell'economia e rappresenta il 55 per cento delle esportazioni: tuttavia, offre lavoro a solo 2 milioni di persone (su una popolazione economicamente attiva di 70 milioni). Man mano che si svilupperà, l'industria del petrolio inciderà su una fetta sempre maggiore dell'economia pur non diventando un'importante fonte di occupazione. Inoltre il prezzo internazionale del petrolio è molto volubile e quindi tutti i petro-Stati subiscono cicli di boom economico seguiti da momenti di stasi e, prima o poi, discesa. Queste stasi economiche si lasciano dietro una montagna di debiti insoluti contratti in tempi migliori, progetti che rimangono incompiuti e tagli al pubblico bilancio che vanno a colpire i poveri, cioè coloro i quali maggiormente dipendono dai programmi sociali. Quando le entrate erariali diventano dipendenti dal petrolio, anche lo sviluppo di una maggiore e più estesa base fiscale viene tenuto a freno.
Le conseguenze politiche sono piuttosto negative. Poiché il business del petrolio tende a essere concentrato nelle mani di poche grandi società, i loro manager e proprietari acquistano un enorme prestigio e potere politico. Ovviamente anche la corruzione è parte di questo processo poiché a prendere decisioni milionarie a favore di tali società sono solo pochi politici e funzionari di governo.» (5)
Già nel 1994 la Russia aveva dovuto digerire un rospo indigesto quando gli Stati Uniti lo avevano accusato di dumping, cioè di vendere sottocosto l'alluminio. In realtà, non era la Russia a vendere sottocosto ma l'intero comparto dell'alluminio a soffrire di una caduta della domanda. In quell'occasione gli americani non ebbero remore a violare apertamente il loro credo dogmatico nel libero mercato, favorendo l'istituzione di un cartello monopolistico che penalizzò fortemente le esportazioni russe.
La storia si ripetè nella siderurgia e i provvedimenti protezionistici adottati dagli USA colpirono la Russia, ma soprattutto la piccola repubblica di Moldova, oltre che in generale l'Europa.
Comunque sia, le entrate fiscali della Russia derivanti dall'esportazione, già risibili in precedenza, crollarono a minimi storici. Lo stato era senza soldi, ed i GKO in scadenza.
La flessione delle importazioni di petrolio da parte della Thailandia, della Corea del Sud, delle Filippine e dell'Indonesia provocò un fortissimo ribasso dei prezzi, e questo ebbe effetti devastanti.
E' interessante vedere la dinamica della crisi per capirne gli effetti prima sulla Russia e poi sull'Occidente.
Il morbo thailandese
La crisi venne innescata da una svalutazione del baht thailandese. Scambiato per dieci anni in rapporto di 25:1 rispetto al dollaro, subì un deprezzamento del 25% dall'alba al tramonto del 2 luglio 1997.
Perché?
Un paese che accoglie grandi quantità di investimenti stranieri è più esposto agli umori variabili della finanza internazionale. E qui bisogna distinguere. Vi sono investitori diretti, ovvero piccole e medie imprese che aprono filiali o veri e propri stabilimenti, o multinazionali che decentrano la produzione dove la manodopera costa meno; vi sono poi investitori finanziari che acquistano titoli ed azioni di imprese locali; infine vi sono autorità finaziarie come il FMI o le banche centrali. Ognuno ha la sua parte di interesse, anche se pare assennato riconoscere che sia il FMI che le banche centrali guardano maggiormente all'interesse generale, che però è sempre un'espressione molto vaga ed ambigua.
Se per interesse generale si intende il particolare interesse degli Stati Uniti ed, in subordine, dell'Europa di Bruxelles, non si va molto lontano dalla realtà, con l'obbligo di ricordare che gli Stati Uniti sono l'unico paese ad avere il diritto di veto sulle scelte del FMI.
L'apertura di un mercato per i capitali in Thailandia fu dettata dal FMI. E quello che sembrava (e generalmente sembra) un provvedimento stimolante si rivelò un'overdose letale che produsse uno shock anafilattico.
Gli investitori diretti che avevano avviato attività in Thailandia non avrebbero avuto altro serio vantaggio dalla svalutazione del baht che condizioni più favorevoli alle esportazioni. Davvero troppo poco per provocare un disastro simile. Erano anche troppo deboli per avere una sostanziosa forza di condizionamento. Per trovare i responsabili, bisogna guardare agli investitori finanziari, ai gestori degli hedge funds. George Soros, nella sua disarmante sincerità, non ha avuto remore nel denunciare una responsabilità del proprio fondo: «Ad esempio, vendendo il baht thailandese allo scoperto nel gennaio 1997, i Quantum Funds gestiti dalla mia società d'investimenti hanno fatto capire che probabilmente era sopravvalutato. Se le autorità fossero state sensibili allo svuotamento delle loro riserve l'adeguamento sarebbe avvenuto prima, e sarebbe stato meno doloroso. Invece le autorità hanno puntato i piedi, esaurendo le riserve, e quando il crollo è arrivato è stato catastrofico.» (2)
In una parola: è vero che per gli speculatori come Soros danno un colpetto e la torre crolla: ma crolla perché è instabile da prima.
Non l'avesse fatto Soros, l'avrebbe fatto qualcun altro. Ma spieghiamo: vendere allo scoperto significa vendere cose che non si hanno, ad esempio alle 12 di un certo giorno al prezzo delle 12. Nel frattempo il prezzo scende; e siamo stati noi stessi a farlo scendere; alle 16 siamo in grado di acquistare la merce e consegnarla facendoci pagare la stessa con il prezzo pattuito alle 12. Si tratta di una manovra sul filo del rasoio. Che potrebbe anche andar male, visto che, per altri fattori, il prezzo delle 16 potrebbe essere anche risalito ai valori delle 11, ponendoci così nella condizione di comprare ad un prezzo più alto di quello di vendita.
Questo tipo di operazioni è però un gioco d'azzardo solo per gli speculatori di mezza tacca, quelli che vivono di soffiate e sono costretti ad affidarsi ad una sorta di fiuto.
Quando Soros, od un altro gestore di fondi di quel livello, si mette in moto, le cose vanno generalmente come da programma tanto è l'effetto provocata dalla notizia della vendita.
Tornando al nostro ragionamento iniziale: un paese completamento aperto alla libera circolazione dei capitali è più esposto di altri ai virus della speculazione. Se l'organismo non dispone di anticorpi sufficienti quali la riserva della banca centrale o, nel caso dell'Italia, anche di una moneta forte come l'euro, i rischi di speculazioni con effetti mortali sono sempre dietro l'angolo. Inoltre ciò produce tendenzialmente inflazione. E poichè il fatto, per quanto riguarda la Thailandia proprio no, non era imputabile agli alti salari, è evidente che le spinte inflattive furono generate dal troppo capitale straniero circolante.
Anche altri paesi dell'area estremo orientale erano in condizioni di sopravvalutazione, ma il virus attecchì in Thailandia perché il sistema consentiva un maggior numero di investimenti a breve e brevissimo termine. E così siamo ad una parziale spiegazione del problema, che ci avvicina anche alla soluzione completa.
Sì: è vero che la manovra di Soros diede solo il colpo di grazia ad un corpo già eroso dalla malattia, ma noi dovremmo chiederci quali furono i fattori che determinarono la debilitazione.
Una delle condizioni che FMI pose alla Thailandia fu quella di porre fine alla restrizione del credito per la costruzione e l'acquisto di immobili. Era una restrizione che aveva ovvie ragioni: così facendo, le banche avevano più soldi per finanziare le attività statali, in particolare sanità ed istruzione, ed anche più soldi per finanziare le attività produttive. In questo contesto, secondo Stiglitz (ma su questo piano mi permetto di coltivare qualche dubbio) la Thailandia non aveva nemmeno bisogno di grandissimi quantitativi di investimenti stranieri, potendo contare su un risparmio privato consistente realizzato negli anni.
La fine delle restrizioni creditizie sull'edilizia richiamò immediatamente l'attenzione dei Funds. In breve si ebbe un'invasione di capitali stranieri che portarono alla costruzione di uffici e centri commerciali destinati a rimanere vuoti ed inutilizzati. Ma anche residence ed alberghi che si riempirono di turisti, un po' straccioni, per la verità. Questo genere di attività, come sempre accade quando ci sono troppi soldi in circolazione, generò inflazione e l'inflazione indebolì in modo consistente il valore della moneta locale, anche se le autorità monetarie tennero duro, cercando di mascherare la situazione con incrementi delle riserve.
Furono tagliate le spese per sanità ed istruzione, come da ricetta FMI, ed anche alzati i tassi di interesse. Il risultato quasi automatico fu l'aumento della prostituzione minorile, peraltro già molto diffusa, e la propagazione dell'AIDS a livelli da panico.
Sommando questi fattori, si ha la spiegazione del perché la Thailandia si trovava già gravemente costipata all'inizio del 1997.
L'effetto domino si estese rapidamente ai paesi limitrofi. In gergo si dice beggar the neighborough, impoverisci il vicino. I capitali deflurirono dalla Thailandia, dalla Corea, dalle Filippine, dalla Malesia e dall'Indonesia con una rapidità superiore a quella con cui erano arrivati. Il FMI impose un immediato aumento dei tassi e questo provocò una seconda ondata di panico. Sul piano politico, ci sarebbe da osservare che questa zona del mondo non ha strutture interstatali paragonabili all'Europa unita, ma solo trattati commerciali. Fossero esistite strutture come in Europa, e magari una moneta unica, le cose sarebbero andate diversamente.
Le conseguenze si estesero rapidamente a tutto il pianeta. Mentre l'Occidente nel suo insieme trasse un certo vantaggio dalla crisi con la diminuzione della bolletta energetica, il rimanente dei paesi asiatici ed africani pagò un prezzo salato, ed il Brasile si trovò in un mare di difficoltà.
Il morbo arriva a Mosca
Tutto ciò portava guai seri anche per la Russia.
« Alla Banca mondiale - scrive Stiglitz - ci rendemmo conto del problema ai primi del 1998 quando i prezzi sembravano pronti a scendere addirittura al di sotto dei costi di estrazione e trasporto sostenuti dalla Russia... Era ancora chiaro che il rublo era sopravvalutato. La Russia era invasa dalle importazioni e i produttori nazionali incontravano grandi difficoltà a rendersi competitivi. Il passaggio a un'economia di mercato e il calo progressivo della produzione militare avrebbero dovuto portare ad una redistribuzione di beni di consumo e macchinari per fabbricarli. » (1)
Ma questo avvenne molto lentamente, mentre la logica della globalizzazione marciava a ben altra velocità.
A questo punto il FMI decise che sarebbe stata necessaria una manovra straordinaria contro la svalutazione del rublo e fece affluire in Russia miliardi di dollari.
Si arrivò così al giugno 1998, quando ormai la fiducia dei mercati nella Russia era completamente erosa dalle pessime notizie che continuavano a giungere. Ormai si vendevano rubli in cambio di dollari anche agli angoli delle strade, mentre il governo arrivava a pagare il 60% sui GKO, i famigerati buoni del tesoro russi.
«Come da programma - scrive Stiglitz - il FMI venne in soccorso del paese con 4,8 milioni di dollari nel luglio 1998. Nelle settimane che precedettero la crisi, il FMI insistè per attuare politiche che finirono per aggravare la situazione. Il Fondo spinse la Russia a contrarre prestiti più in valuta estera che in rubli. L'argomentazione era semplice, il tasso d'interesse sul rublo era molto più alto di quello sul dollaro. Contraendo prestiti in dollari, il governo poteva risparmiare. Ma questo ragionamento era viziato in partenza. La teoria economica di base suggerisce che la differenza di tasso d'interesse tra le obbligazioni in dollari e quelle in rubli doveva riflettere l'aspettativa di una svalutazione. I mercati si equilibrano in modo che il costo del credito commisurato al rischio (o il rendimento dell'attività creditizia) sia lo stesso. Io nutro molta meno fiducia nei mercati di quanto non faccia il FMI e, di conseguenza, non sono affatto certo che il costo del credito corretto per il rischio sia lo stesso, quale che sia la valuta. Ma nutro anche molto meno fiducia del Fondo nel fatto che i suoi burocrati possano essere in grado di prevedere i movimenti dei tassi di cambio meglio del mercato. Nel caso della Russia, i burocrati del FMI ritenevano di essere più scaltri del mercato ed erano disposti a scommettere con i soldi della Russia che il mercato si sbagliava.» (1)
Il progetto del FMI era di supportare il debito russo impegnando anche la Banca mondiale ed il governo giapponese rispettivamente esponendosi per 11,2 miliardi dollari, 6 miliardi e 4,4 miliardi.
Ma dentro la Banca mondiale ci fu un dibattito e molti, tra cui lo stesso Stiglitz, si dichiararono contrari.
Stiglitz racconta: «Molti ritennero che il FMI stesse fornendo al governo l'alibi necessario per rimandare l'attuazione di riforme importanti, come quella di riscuotere le imposte dalle compagnie petrolifere. La corruzione che pervadeva la Russia era evidente e, a questo proposito, la Banca mondiale aveva condotto uno studio che aveva identificato questa regione come un delle più corrotte del mondo.» (1)
Ma sullo staff della Banca mondiale venne esercitata una forte pressione a favore del prestito da parte dell'amministrazione Clinton. Per lui e per i suoi consiglieri, salvare la Russia significava salvare la democrazia.
I responsabili convennero sulla possibilità di erogazione sminuzzando l'importo in diverse rate. Furono resi disponibili nell'immediato solo 300 milioni di dollari, subordinando il rimanente all'andamento delle riforme.
Solo tre settimane dopo, il governo russo annunciò la sospensione unilaterale dei pagamenti e la svalutazione del rublo. Nel gennaio del 1999 esso valeva il 45% in meno rispetto al luglio '98.
Effetti della crisi russa sull'economia mondiale
«L'annuncio del 17 agosto fece precipitare una crisi finanziaria globale. I tassi d'interesse richiesti ai paesi emergenti andarono a livelli addirittura più alti di quelli raggiunti durante il picco della crisi dell'Est asiatico. Persino i paesi in via di sviluppo che avevano cercato di proseguire politiche economiche rigorose si trovarono nell'impossibilità di ottenere finanziamenti. La recessione in Brasile si aggravò e anche questo paese finì per dover affrontare una crisi valutaria. L'Argentina e altri paesi latino-americani che si stavano riprendendo dalle rispettive crisi furono spinti sull'orlo del baratro.» (1)
Neppure gli Stati Uniti furono risparmiati e la Federal Reserve Bank di New York dovette organizzare il salvataggio privato di uno dei principali hedge fund della nazione: il Long Term Capital Management. Si temeva che un fallimento avrebbe potuto accellerare una crisi finanziaria globale. E dagli torto!
La riflessione di Stiglitz, che rispecchia il dibattito ai vertici della Banca mondiale, è interessante: «La sorpresa del crollo non è stato il crollo in sé, ma il fatto che davvero abbia potuto cogliere alla sprovvista certi funzionari del FMI dotati di grande esperienza e con una lunga anzianità di servizio al loro attivo. Erano talmente convinti della validità del loro programma che mai e poi mai avrebbero dubitato della sua riuscita.
Le nostre previsioni si dimostrarono giuste solo in parte: pensavamo che il denaro potesse sostenere il tasso di cambio per tre mesi e invece bastò solo per tre settimane. Pensavamo che gli oligarchi avrebbero impiegato giorni o addirittura settimane a far uscire il denaro dal paese e invece si sbrigarono molto più alla svelta; questione di poche ore, massimo qualche giorno.» (1)
Che fine hanno fatto i prestiti del FMI?
Domanda più che legittima.
«Quando il FMI fu messo di fronte ai fatti - scrive ancora Stiglitz - e cioè dopo appena qualche giorno, i miliardi di dollari che aveva dato (in prestito) alla Russia stavano già sbucando qua e là sui conti correnti bancari a Cipro ed in Svizzera, la risposta fu che quelli non erano i loro dollari. Un'argomentazione di questo genere dimostrava una totale ignoranza dell'economia o un livello di ingenuità pari solo a quello di Gerascenko (allora governatore della Banca centrale russa), o entrambe le cose. Quando un paese riceve un finanziamento, non gli arrivano certo banconote segnate. Quindi nessuno può dire i "miei" soldi sono andati qui o là. Il FMI ha prestato dollari alla Russia che, a sua volta, ha potuto dare ai suoi oligarchi la possibilità di esportare dollari. Per fare una battuta, qualcuno di noi disse che per il FMI sarebbe stato più semplice emettere direttamente degli ordini di bonifico sui conti delle banche cipriote o svizzere.»
Stiglitz voleva dire, in sostanza, che il tentativo di salvataggio operato dal FMI salvò i creditori forti, ma non servì affatto la Russia. I prestiti consentirono al governo di pagare i GKO in scadenza sia agli oligarchi che alle banche d'investimento di Wall Street, le quali portarono subito fuori dal paese tutto quello che potevano.
Questo tentativo di salvataggio (ingenuo o telecomandato) rappresentò così il colpo di grazia ai piccoli risparmiatori che avevano pensato di salvare i loro gruzzoletti comprando buoni di stato.
Immaginate un oligarca tipo nella sua villa sulla Costa Azzura. Si accende un sigaro mentre guarda il mare con occhio struggente e sorseggia un long drink, tira una lunga boccata, poi sul suo volto si disegna un ghigno e nella sua mente si forma un pensiero cinico e risentito: "Avete voluto la libertà, compagni? Si? Allora, ve lo do io il capitalismo! Alla vostra!"
(continua)
Libri e siti utilizzati:
1) Joseph Stiglitz - La globalizzazzione ed i suoi oppositori di Joseph Stiglitz - Einaudi 2002
2) George Soros - La società aperta - Ponte alle grazie 2001
3) Robert Service - Storia della Russia nel XX secolo - Editori Riuniti 1999
4) http://www.bisnis.doc.gov/bisnis/bisnis.cfm,
5) Moses Naim - Putin e la piovra nera - http://www.espressonline.it