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Disastro Russia
1: La fine dell'Unione Sovietica

di Guido Marenco
Il 31 dicembre 1991 l'Unione Sovietica cessò di esistere. Nacquero numerose repubbliche indipendenti e la più importante di esse si chiamava Russia, un paese immenso che arriva a bagnarsi nell'Oceano Pacifico ed il cui estremo confine orietale tocca l'Alaska ed il Giappone. Per avere un'aggiornata rappresentazione della geografia politica dell'Europa e dell'Asia, fummo costretti a comprare nuovi Atlanti. Poco dopo anche alcune città cambiarono nome: Leningrado tornò ad essere San Pietroburgo.
Non era solo la fine di uno stato e di una potenza militare ed economica, ma la liquidazione, per certi aspetti ingloriosa, di un sistema di vivere, di lavorare, di partecipare alla vita civile del tutto diverso da quelli conosciuti in occidente.
La condanna di quel regime e dei suoi odiosi sistemi da parte della quasi totalità degli intellettuali e dei politici occidentali, comunisti compresi, creò una retorica dell'antitotalitarismo, una sorta di cantilena noiosa e per molti aspetti inutile alla comprensione storica di cosa accadde dopo la fine del comunismo, che non è meno preoccupante di quello che era accaduto prima.
La lettura di alcuni libri, tra cui l'ottimo La globalizzazzione ed i suoi oppositori di Joseph Stiglitz (1), mi ha indotto ad una ricerca più approfondita.

Il comunismo cosiddetto reale altro non era che un capitalismo di stato incapace di creare benessere perché impegnato in spese folli per gli armamenti, lo spionaggio, il controllo delle idee e delle persone, la burocrazia, il finanziamento del Partito Comunista Sovietico ed il pagamento di lauti stipendi sia ai funzionari statali che ai funzionari di partito.
La transizione da questa caricatura del comunismo ad un'economia di mercato avrebbe dovuto portare ad un rapido aumento del benessere dei cittadini russi ed a grandi sviluppi, muovendo ovviamento da uno snellimento delle spese per mantenere i parassiti della burocrazia. Cosa che non accadde. Alcuni dei parassiti, infatti, furono abbastanza abili da trasformarsi in squali e guadagnare molto più di prima, a danno, ovviamente, della maggioranza della popolazione.
Le attese erano fervide, ma le disillusioni maturate nell'ultimo quindicennio sono ancora più grandi.
In realtà, se rimaniamo ai soli dati economici, la Russia si trova oggi distanziata di molte lunghezze rispetto alla Cina. Nel 1997, la produzione era diminuita, rispetto al 1990, del 41%. Dati disastrosi che testimoniavano il bilancio fallimentare del primo periodo di privatizzazioni e liberalizzazioni, cui seguì la gravissima crisi del 1997-98.
Nel 2000, dopo che la svalutazione del rublo aveva comunque prodotto un effetto positivo, incentivando la competività delle piccole e medie imprese soprattutto sul piano interno, il PIL era solo i 2/3 di quello del 1990.
Oggi, si dice che le cose vadano un po' meglio, ma la vicenda Yukos induce a riaprire la riflessione, tanto più se si pensa che la Russia non è ancora una democrazia compiuta ed uno stato diritto. E nulla lascia pensare che lo diventerà in breve tempo, stando a quanto bolle in pentola attualmente, a partire dalla questione cecena.

I responsabili della catastrofe hanno un nome: si va da Boris Eltsin ad Anatolij Chubais, da Egon Gajdar all'oligarca e gran burattinaio Berezovskij, allo stesso Fondo monetario internazionale, per non parlare del dipartimento del Tesoro statunitense ai tempi dell'amministrazione Clinton, e persino dell'Europa di Bruxelles; ma lo storico si deve sforzare di distribuire obiettivamente le colpe, senza esagerare le responsabilità individuali in una situazione obiettivamente difficile ed intricata.
Sostanzialmente, le tesi che si confrontano sono due: da una parte c'è chi sostiene che la politica della terapia d'urto voluta dal FMI e sostenuta da Eltsin, Gajdar e Chubais non ebbe successo perché incontrò troppe opposizioni e resistenze. Non fu possibile attuare riforme efficaci per l'ostilità di personaggi come il vice-presidente Ruckoj, il presidente del parlamento Chasbulatov e persino il primo ministro Cernomyrdin. Inoltre, chiama in causa le responsabilità dell'Occidente che non avrebbe aiutato la Russia a sufficienza.
La tesi opposta accusa di Eltsin e compagnia di frettolosità, approssimazione e corruzione. E trascina in giudizio anche il FMI, che avrebbe imposto alla Russia una miscela devastante di liberalizzazione, decentralizzazione e privatizzazione, contribuendo ad alimentare un'inflazione galoppante.
E', in particolare, la posizione di Stiglitz, per il quale è stato molto facile dimostrare che i paesi ex-comunisti che se la sono cavata meglio sono quelli che, come la Polonia, non hanno seguito le direttive del FMI, ma hanno fatto di testa propria. Al contrario, la Repubblica Ceca, che seguì la linea del Washington Consensus, si trovò inguaiata, come del resto l'Ungheria, penalizzata dalla sua subordinazione alla Germania.
Anche nell'ambito della critica di sinistra le valutazioni non sono concordi. Il finanziere George Soros (2), ad esempio, rimprovera il FMI per ragioni esattamente opposte a quelle di Stiglitz. Per Soros, il FMI (e gi Stati Uniti) fecero troppo poco per soccorrere la Russia, specie durante la crisi gravissima dell'Est asiatico, che portò alla caduta dei prezzi petroliferi colpendo in particolare l'esportazione russa nel 1997-98.
Per Stiglitz, il FMI fece troppo e ciò costituì un alibi per i dirigenti russi, che continuarono disinvoltamente a non riaggiustare i conti e far pagare le tasse agli oligarchi supermiliardari. Era questo il vero problema della Russia e continua ad esserlo. Un paese con tutte quelle risorse naturali, suggerisce Stiglitz, e con lui lo staff della Banca mondiale all'opera durante la crisi, aveva tutte le possibilità di cavarsela quasi da solo. Non fu così perché i profitti derivanti dalla vendita delle materie prime finirono sui conti privati di Berezovskij e soci invece che nelle casse dello stato. Tutti i contribuenti occidentali, italiani compresi, a causa di una strategia di aiuti del tutto sbagliata, hanno versato la loro quota di sangue e denaro agli oligarchi russi. Incredibile?
Cercherò di spiegare il perché. Ma prima occorre un passo indietro.

Gli ultimi mesi del regime
Già nel 1990, quando si svolse il XXVIII Congresso del PCUS, l'economia pianificata era in gravissime difficoltà e gli standard di vita della popolazione in deciso ribasso, se confrontati con quelli del periodo precedente. Molti rimpiangevano gli anni di Breznev e di Andropov.
Gorbacev aveva peggiorato le cose, mantenendo il peggio del "vecchio" e prendendo il peggio del "nuovo" con un piano di riforme che non riuscì mai a decollare. Questo dato era confortato anche dalle stime ufficiali del regime.
Quindi, già la stessa Unione Sovietica aveva acceso ingenti prestiti presso banche occidentali; era stata costretta ad importare grano dal Canada, dagli USA e dall'Australia ed aveva dovuto aprire all'importazione di prodotti di consumo per far fronte alle richieste di una società e di una cultura comunque in evoluzione.
Mentre ancora in Occidente tutti esaltavano Gorbacev come il grande riformatore, in Russia la stragrande maggioranza lo considerava il massimo responsabile della crisi., dimentica del grande sforzo che era stato compiuto per la distensione internazionale e per ridurre la spesa per gli armamenti, che era poi la condizione indispensabile per creare più benessere, specie in un'economia pianificata.
Il primo ministro Ryzkov fece del suo meglio per impedire i grandiosi progetti di denazionalizzazione delle imprese coltivati dall'ala radicale dei riformatori e si oppose alla riforma monetaria. In più, annunciò che avrebbe introdotto un aumento dei prezzi dei generi alimentari, per correggere gli squilibri del bilancio, senza peraltro arrivare a comprendere l'utilità di un doppio mercato degli alimentari, come proposto dal finanziere americano George Soros. Questi aveva pensato che un primo passo significativo verso un'economia di mercato avrebbe potuto essere la nascita di unità agricole che lavoravano per il profitto anziché per il piano e che quindi seguivano una logica di prezzi di mercato (internazionale) anziché subire il paniere imposto dagli organi di piano.
Pare che la proposta, presa comunque in considerazione, a sentire Soros, fu bocciata dallo stesso Gorbacev, che nell'occasione non ebbe molto coraggio. Per la verità, indipendentemente da Soros, la Cina aveva già introdotto una riforma simile. Ma essa poteva contare sul fatto che la riforma dell'agricoltura era già in stato avanzato e che i contadini erano stati i primi cinesi a vedere un po' di soldi sulle rive del Fiume Giallo. Cosa che invece non era accaduta in Unione Sovietica.

Per porre rimedio all'impasse, Gorbacev azzardò un'altra mossa, affidando a Stanislav Satalin la stesura del "piano dei 500 giorni", che avrebbe dovuto essere una cura da cavallo per l'economia. Ad esso Ryzkov era decisamente ostile, insieme alla gran parte dei ministri e del membri del Politburo. Le posizioni contrastanti vennero mediate da Abel Agabendjan, che dovette affaticarsi non poco tra i "niet" incrociati di Ryzkov e Satalin.
In ogni caso, in ottobre il piano fu approvato dal Soviet Supremo, nonostante la violenta opposizione di Soyuz, un conglomerato ibrido di conservatori sotto il quale si raccoglievano gli individui più impensabili: comunisti tecnocrati di formazione brezneviana, stalinisti, cristiani ortodossi di destra, intellettuali nazionalisti, e persino monarchici che vedevano nell'Unione Sovietica una continuità col regime zarista.
Più preoccupato ed impressionato dalle posizioni di Soyuz che dalle razionali proposte dei riformatori che ancora lo seguivano (o meglio: lo appoggiavano) Gorbacev perse per strada i pezzi pregiati del suo entourage: Alexandr Jakovlev, il ministro degli esteri Shervardnaze, i fratelli Medvedev, lo stesso Ryzkov, giustificato da un certifcato medico.
Pavlov sostituì Ryzkov come Presidente del Consiglio dei Ministri ed agli interni andò Boris Pugo, un duro del KGB, molto portato alle politiche repressive. Era un'involuzione gravissima e Gorbacev fu giustamente sospettato di complottare per tornare indietro. O forse, cercava di salvare il salvabile; ma era troppo tardi.
Il 13 gennaio 1991 reparti speciali assaltarono la sede della televisione di Vilnius, in Lituania. Ci furono quindici morti e sembrava di essere tornati ai tempi bui. Diedero la colpa ai generali russi di stanza in Lituania, ma la vera responsabilità stava a Mosca. Dove solo qualche mese dopo Pugo fece affluire 50.000 teste di cuoio del reparti antisommossa del ministero degli interni per prevenire una manifestazione a favore di Eltsin. Nonostante la minaccia di una repressione nel sangue, oltre 200.000 moscoviti scesero comunque nelle strade, e questo elemento fu decisivo per far cambiare opinione a Gorbacev l'ennesima volta. Ma non ebbe il tempo per invertire la rotta.
Furono le elezioni presidenziali della Russia del 12 giugno a decretare la svolta. Eltsin le vinse, legittimandosi come nuovo capo al confronto di un Gorbacev che le avrebbe sicuramente perse se avesse avuto il coraggio di presentarsi al confronto popolare. Nasceva di fatto un'entità politica autonoma su basi relativamente democratiche in grado di smarcarsi dallo stato sovietico, e persino contrapporsi. Eltsin voleva dar vita ad un governo russo, e cominciare una politica nazionalista di riforme radicali. Notare bene che durante la campagna elettorale aveva battuto le strade di tutte le autonomie etniche, Cecenia compresa, per promettere libertà ed indipendenza non solo dall'URSS, ma anche dalla Russia: i cittadini delle repubbliche autonome della Carelia, di Tuva, del Tatarstan e della Cecenia gli credettero.

Il golpe
Non erano passati che 12 giorni dalla folgorante vittoria di Eltsin che il quotidiano Sovietskaja Rossija pubblicò a sorpresa un messaggio intitolato "Una parola al popolo", firmato da dodici personaggi di un certo rilievo pubblico. Intendiamoci: era gente da seconda fila nel palco delle sfilate dell'Armata Rossa per il Primo Maggio. Ma si trattava di pezzi grossi, comunque.
Boris Grumov era il vice di Pugo; Valentin Vedennikov era il comandante dell'Armata Rossa; Jurij Blochin era il leader di Soyuz; Jurji Bondarev era un regista cinematografico nazionalista; Aleksandr Prochanov e Valentin Rasputin erano due scrittori dissidenti dal gorbaciovismo ma consenzianti col resto del mondo, compreso il marciume. Poi comparivano i nomi di Gennadi Zjuganov, del Politiburo del neonato partito comunista russo (da non confondere con il PCUS), il capo dell'associazione dei contadini sovietici Starodubeev e Aleksandr Tizjakov, presidente dell'associazione delle imprese statali.
Era un appello improntato all'emergenza nazionale che invitava i cittadini alla mobilitazione per salvare l'Unione Sovietica dalla catastrofe. Stranamente, ma non troppo, nel testo non compariva alcun riferimento a Lenin, al comunismo ed alla rivoluzione d'ottobre. Gli argomenti erano il patriottismo e l'orgoglio nazionale. Vi si poteva cogliere un vago ed indiretto riferimento a Gorbacev, che aveva "mendicato" gli aiuti americani e svenduto la potenza nucleare. Ma questo era stato un argomento usato anche da Eltsin in campagna elettorale. L'identità nazionale offesa è sempre stata un buon tema di propaganda per i demagoghi. Qui se ne faceva largo uso, visto che l'appello dava smalto alle grande tradizioni dell'esercito, autore della vittoriosa impresa contro la Germania nazista.
Molti compresero che questo era il manifesto per un colpo di stato. Lo storico Robert Service così commenta: «E' impensabile che abbiano potuto diffondere a mezzo stampa i loro sentimenti senza che altre figure di governo ne fossero a conoscenza. Il rifiuto di Gorbacev di arrendersi all'evidenza era sorprendente: l'unica precauzione che prese nell'estate del 1991 fu di chiedere informalmente a Eltsin di rimanere a Mosca mentre la famiglia Gorbacev era in vacanza in Crimea. Eltsin doveva, per così dire, "sorvegliare il negozio" in assenza del proprietario. Tale leggerezza in seguito diede adito a voci secondo cui Gorbacev avesse segretamente programmato di costituire il pretesto per rompere l'intesa con Eltsin. Forse egli addirittura desiderava che si tentasse il colpo di stato per poter tornare in qualità di mediatore tra tutte le forze contendenti. E' un'ipotesi molto azzardata. La spiegazione più plausibile è da ricercarsi nell'arroganza di Gorbacev. Egli si fidava dei suoi ministri perché era stato lui a designarli. Li aveva manovrati anno dopo anno: semplicemente non poteva credere che si sarebbero presi gioco di lui.» (1)
Al di là di tutte le illazioni possibili, la sensazione che si ricava dalla visione alla moviola del putsch è quella di un gruppo di "sciamannati" privi di determinazione e timorosi di far vittime. Non è che non fecero sul serio. Si fermarono a metà, spaventati dalle conseguenze dei loro stessi atti e dalla mal calcolata ostilità della popolazione moscovita. Poi, si trovarono contro anche l'esercito.
Avevano deciso di attaccare la Casa bianca russa, dove Eltsin si era asserragliato insieme ai fedelissimi, ma non ebbero il coraggio di passare all'azione subito. Attesero troppo e così Eltsin ebbe il tempo di manovrare le sue pedine, promettendo qualcosa ai comandanti delle divisioni radunate a Mosca e dintorni.
Un ruolo determinante fu assolto dal comandante delle forze aviotrasportate, il generale Pavel Gracev. Si schierò con Eltsin quasi subito e la sua protezione consentì al presidente della Russia di non venire arrestato e, probabilmente, ucciso.
«L'istinto suggerì ad Eltsin la mossa successiva. Alto ed imponente, uscì a passo svelto dalla Casa bianca all'una in punto e si arrampicò su uno dei carri armati della divisione Tamanskaja stazionati sul ciglio della strada. Da questa posizione esposta il presidente russo lanciò la sua sfida al Comitato di Stato.» (1)

Fu l'episodio che fece saltare i nervi ai più fragili tra i golpisti, tra i quali c'erano dei vecchi ubriaconi privi di testa e di coraggio. Ma tra il 20 ed il 21 agosto del 1991, alcuni di loro, in particolare Pugo, ordinarono alle truppe di passare all'attacco. Una catena umana composta prevalentemente di giovani cercò di bloccarle per le vie di Mosca. Ci furono tre morti. Nel frattempo alla Casa bianca si radunavano i principali esponenti della glasnost ed i più accesi riformisti. C'erano l'ex ministro degli esteri Eduard Shervardnaze ed Alexandr Jakovlev. Adessi si erano aggiunti numerosi intellettuali, tra i quali il violocellista Mitislav Rostropovich.
Gente disposta a morire per la libertà.
Ed allora accadde il miracolo. Uno dopo l'altro, i comandanti militari rifiutarono di proseguire. Era finita. Quando tutto sembrava congiurare per un bagno di sangue, qualcosa scattò nelle coscienze dei generali dell'Armata Rossa.

A mezzanotte del 22 agosto, Gorbacev rientrò a Mosca. Non era più la stessa città. Qualcosa si era spezzato. Era finita l'Unione Sovietica, era finita l'Armata Rossa, era finita la "dittatura del proletariato".

L'ultimo respiro: da Samarcanda a Minsk è indipendenza
Il 23 agosto Eltsin sospese lo status legale del partito comunista dell'Unione Sovietica in tutta la Russia, come se tutto il partito, compreso il suo segretario generale, fosse responsabile del colpo di stato. Era uno schiaffo, e tutto sommato anche un sopruso istituzionale. Gorbacev protestò dando le dimissioni. Fu un gesto patetico che testimoniava della sua impotenza. Venne convinto a ritirarle. Ma ormai il corso degli eventi era completamente dalla parte di Eltsin, deciso a diventare il solo padrone di Mosca, ed a liberarsi anche di quell'intralcio istituzionale che ormai era diventata l'Unione Sovietica. Di fatto era legittimato dal voto popolare; le istituzioni sovietiche e chi le occupava non lo erano.
Il 6 novembre emanò un decreto in cui si metteva al bando il partito comunista sovietico e oppose il veto a qualunque nomina di ministri dell'Unione Sovietica senza la sua approvazione. Era un'ulteriore prova di forza che mise definitivamente Gorbacev alle corde.
Infine, l'8 novembre, annunciò la composizione del governo russo. Lui stesso sarebbe stato anche primo ministro, ed Egon Gajdar il ministro delle finanze.
Gorbacev consumò le sue residue energie per dar luogo ad una nuova "Unione di stati sovrani", qualcosa di diverso dall'Unione Sovietica, di cui manteneva formalmente solo un comando militare unificato ed un unico mercato economico, oltre che la moneta. Probabilmente godette dell'appoggio delle potenze occidentali, che erano molto preoccupate dal destino degli arsenali nucleari e dalla dispersione del patrimonio tecnico militare in repubbliche incontrollabile ed inaffidabili, specie quelle asiatiche a maggioranza mussulmana. Ma il tentativo, avviato ad una riunione dei presidenti delle repubbliche a Novo Ogorovo, era chiaramente destinato a fallire. Le repubbliche baltiche ormai fuori. Eltsin contrario. Questi rifiutò persino di approvare il principio di un presidente federale in posizione non dominante.
Il colpo mortale all'ultimo progetto gorbacioviano arrivò però dai più inaspettati: i comunisti ucraini di Leonid Kravchuk.
Questi fu molto abile a pilotare e manipolare i sommovimenti sociali e politici nella sua repubblica, indicendo un referendum per il 1 dicembre.
La stragrande maggioranza dei votanti, compresi quelli di nazionalità russa residenti in Ucraina, votarono per l'indipendenza totale. Per Kravchuk era un modo per continuare ad esercitare il potere travestendosi da nazionalista. Per il fronte composito dei suoi sostenitori c'erano un'infinità di motivazioni che confluivano in una sola: indipendenza da Mosca. Sostenevano Kravchuk sia i pochi liberal che volevano la più ampia libertà, sia i vecchi comunisti che volevano salvare il sistema dalle riforme in senso capitalistico, sia gli ambientalisti antinucleari (cresciuti in numero enorme dopo il disastro di Cernobyl), sia i nazionalisti cattolici, antisemiti ed antiortodossi.
Senza l'Ucraina, l'Unione proposta da Gorbacev era un non senso.

Dopo questo colpo mortale, Eltsin organizzò un ultimo tentativo di tener in piedi quantomeno una comunità federale di stati indipendenti basata sull'economia e la difesa. Convinse Kravchuk e il presidente bielorusso Suskevic ad avere un abboccamento, che si tenne a Belovozskaja nei pressi di Minsk, l'8 dicembre.
L'obiettivo era quello di mantenere una parvenza di forze militari strategiche congiunte ed una comunità di cooperazione economica. Gli uffici centrali della Comunità si sarebbero trasferiti da Mosca a Minsk, per segnare la discontinuità col vecchio regime.
Ne uscì un comunicato generico che venne inviato alle altre repubbliche. Al progetto della Csi (Comunità degli stati indipendenti) aderirono otto repubbliche: Armenia, Azerbajgian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tajkistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Rimasero fuori le repubbliche baltiche e la Georgia.

(continua)


Libri e siti utilizzati:
1) Joseph Stiglitz - La globalizzazzione ed i suoi oppositori di Joseph Stiglitz - Einaudi 2002
2) George Soros - La società aperta - Ponte alle grazie 2001
3) Robert Service - Storia della Russia nel XX secolo - Editori Riuniti 1999
4) http://www.bisnis.doc.gov/bisnis/bisnis.cfm,