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La rivoluzione industriale

capitolo 9: La mano visibile: lo stato è flebile, però fa di tutto per farsi notare
di Guido Marenco

Lo stato e l'economia pre-industriale: linee di quella che potremmo chiamare "politica economica"
Una delle migliori riflessioni su questa materia è contenuta nello studio, di Carlo M. Cipolla, Storia economica dell'Europa pre-industriale. (Cipolla,cit)
Se l'assillo degli attuali governi è il controllo del ciclo economico e la lotta alla disoccupazione - scrive Cipolla - ci fu un tempo, che durò molto a lungo, e che risale all'antichità, nel quale i sovrani erano fondamentalmente preoccupati dalle carestie. Rispetto a ciò, vennero seguite generalmente due strade, quella dei provvedimenti in situazioni di emergenza e quella dei provvedimenti cautelativi in situazioni normali o di prosperità.
La difficoltà fondamentale era costituita dai trasporti e grossi quantitativi di merce potevano essere mossi solo per via d'acqua. Un certo progresso fu quindi conseguito con il miglioramento delle tecniche di navigazione e la costruzione di velieri moderni, l'apertura di canali navigabili e la costruzione di magazzini in grado di custodire tonnellate di grano, di olio, di vino, di legname, di cera per le candele e di materiale da costruzione.
Quando ci si trovava in un'annata di cattivi raccolti, in genere, i governi procedevano ad acquisti di grano all'estero, ricorrendo a prestiti forzosi imposti ai sudditi benestanti, oppure elargendo premi ed incentivi agli importatori privati affinché mantenessero bassi i prezzi.
Ma, in condizioni normali, l'obiettivo più o meno dichiarato era in generale quello di raggiungere l'autosufficienza agricola. Gli esportatori di grano non erano ben visti ed, in qualche caso, persino perseguiti. Il che rendeva problematico l'approvvigionamento proprio in tempi di vacche magre.

Una seconda linea generale di condotta fu quella che si proponeva la stabilità dei prezzi, in particolare quelli dei generi alimentari di più largo consumo. L'obiettivo venne raggiunto (qui si parla di una media europea e non dell'Inghilterra) attraverso il classico strumento del calmiere. Ma, oltre ai prezzi, in molti casi si vollero calmierare anche i salari dei lavoratori impiegati in settori strategici. Scrive Cipolla:« Gli organi di governo ebbero cura di applicare il calmiere direttamente ai salari che più influivano sul costo della vita per la massa della popolazione, come ad esempio i salari di coloro che macinavano il grano e cuocevano il pane, dei lavoratori addetti ai traghetti pubblici, al trasporto del vino e della macellazione degli animali da carne.» (Cipolla, cit)
Anche il settore dei prestiti venne considerato da calmierare. Fin dai tempi di Federico II di Svevia, re di Sicilia, venne imposto un tetto all'interesse pari al 10%. Ma già a Genova, nel XIII secolo, il tetto fu portato al 20%, segno di un'inflazione galoppante, mentre in Lombardia, nel 1390, il tasso era stato riportato al 10%.
Sempre su questa linea, secondo Cipolla, si può interpretare un certo impegno antimonopolistico, essendo il monopolio sinonimo di prezzi esagerati per definizione.
Il curioso di questa vicenda è che i governi in generale non promossero la libera concorrenza (forse fiutando la possibilità di accordi di cartelli) ed adottarono, al contrario, una politica filo-monopolistica controllata, ricorrendo ad un espediente che ben descrive ancora Cipolla: « Il diritto di vendere generi di largo consumo veniva messo pubblicamente all'asta. Colui che si impegnava a vendere i prodotti al prezzo più basso otteneva il monopolio per un certo numero di anni, e in cambio, durante quel periodo, si assumeva l'obbligo di vendere la merce sempre ed in tutti i casi, sia che il mercato ne fosse saturo sia che ne fosse sprovvisto, al prezzo convenuto per contratto. Di fronte alle fluttuazioni drastiche, improvvise e spesso funeste, provocate di continuo dall'imperfezione e dall'insicurezza del mercato, la società di allora aveva in fatto di prezzi un unico grande sogno: la stabilità.» (Cipolla, cit)
Un altro elemento distintivo delle politiche economiche pre-industriali fu l'affermazione della libertà del lavoro e della professione. Anch'essa era volta a calmierare il mercato ed a stabilizzare i prezzi; risultò particolarmente negativa contro le pretese delle corporazioni di arti e mestieri, le quali svolgevano la funzione opposta: ovvero si proponevano di valorizzare sempre più il lavoro degli appartenenti alle corporazioni, limitando il numero delle persone autorizzate a svolgere una determinata professione. Da Firenze a Cremona, da Erfurt a Pavia ed Alessandria, da Genova alla Francia, l'elenco delle municipalità e dei governi che presero misure per la libertà del lavoro (e dell'immigrazione) è lungo come un elenco telefonico e si dipana attraverso i secoli, fermandosi però, non troppo stranamente proprio all'Inghilterra di Elisabetta II Tudor ed alla legge sull'apprendistato. La verità è che il modello inglese di politica economica, proprio a partire dai Tudor, aveva preso a seguire strade un tantino diverse da quella della media europea descritta da Cipolla. Media che, forse, è più una specie di sintesi ideale che una realtà storica di politiche coerenti. Ma prima di arrivare all'Inghilterra, occorre sostare in breve contemplazione davanti ad un'icona storica della politica economica: quella del ministro delle finanze del Re Sole in Francia: Jean Baptiste Colbert.

Il modello mercantilista di Colbert
Di fronte alla penuria di liquidità del tesoro francese, Colbert fece un semplice ragionamento: era inutile continuare a spremere con le tasse un'economia esausta ed un'agricoltura piena di problemi, afflitta, specie nelle zone meridionali e mediterranea da un istituto antieconomico e tendenzialmente ingiusto come la mezzadria. Occorreva migliorare la produzione agricola ed industriale (cioè manifatturiera), incrementare le esportazioni e ridurre le importazioni. Tesaurizzando, si sarebbe migliorata la situazione generale, sarebbe entrata in Francia una gran massa di denaro, di oro ed argento, ed anche lo stato ne avrebbe tratto beneficio. Colbert governò dal 1661 al 1683, anno della morte, e furono anni decisivi per la modernizzazzione della Francia. E tutto sarebbe andato ancora meglio se il re Sole non avesse seguito una linea di intolleranza religiosa nei confronti degli ugonotti, costringendoli ad emigrare. Colbert cercò di porvi rimedio incentivando l'immigrazione di operai specializzati, tecnici, mercanti e perfino imprenditori "protestanti" ma non troppo, provenienti dal Belgio e dall'Olanda. Uno dei più clamorosi aiuti di stato dato a privati in tutta la storia dell'economia moderna fu quello reso ai Van Robais, mercanti imprenditori tessili di Middelburg, nel 1665. Colbert offrì loro la tolleranza religiosa, la stessa negata ai francesi, 20.000 livres in dono, e un prestito di 80.000 livres da restituire con molto comodo e senza interessi. Col senno di poi, si può dire che fu un buon investimento perché nel secolo successivo la ditta Abbeville di Van Robais sarebbe arrivata ad impiegare 1.800 operai nei laboratori centralizzati ed ed oltre 10.000 lavoratori a domicilio.
Colbert, in sostanza, incentivò lo sviluppo del sistema proto-industriale francese con un sistema di finanziamenti diretti ed indiretti, l'imposizione di dazi sulle merci importate ed un articolato sistema di esenzioni e privilegi fiscali per mercanti esportatori. Nel periodo del suo mandato, piuttosto lungo, riuscì a far uscire dalle casse reali oltre 3 milioni di livres in sussidi diretti che portarono alla rigenerazione di Gobelins, una vecchia impresa artigiana decotta, alla nascita della cristalleria Saint Gobin, alla fioritura di oltre 400 imprese laniere basate sul lavoro a domicilio in varie parti della Francia ed alla fondazione di un'importante fabbrica di armi a Saint-Etienne. Vetrai veneziani, tessitori belgi ed olandesi si installarono a Caen, Carcassone, Septes, Guise, oltre che a Parigi.
A Rochefort e La Rochelle sorsero due cantieri navali organizzati sul modello olandese, e quindi estremamente efficienti.
La ditta Bourdon et De La Rue, nel 1690, quando Colbert era ormai morto, ricevette una privativa per la produzione di panno "olandese" ed "inglese", ulteriore scoraggiamento per le importazioni di questi beni di ormai largo consumo.
Quella di Colbert fu quindi un tipo di politica economica che, forse per la prima volta, incorporava fortissimi elementi descrivibili come interesse nazionale. E fu, quindi, anche un esempio di invasività da parte dello stato che, d'altra parte, suppliva ad una carenza di iniziativa privata e di capitali finanziari.
Grosso modo, anche l'Austria e la Prussia ( e molti staterelli tedeschi) seguiranno una linea colbertiana, ma ciò avverrà nel Settecento e con risultati molto più discutibili sotto il profilo del successo duraturo perché le condizioni storiche erano cambiate. Un solo Colbert basta ed avanza da qui all'eternità.

Terra d'Albione
Occorre aver presente che per moltissimo tempo tra bilancio dello stato e bilancio della famiglia reale inglese non ci fu alcuna differenza. I reali usavano le rendite delle loro terre per finanziare attività propriamente statali, quali le guerre, ed impiegarono più volte i proventi delle imposte per pagare i comfort della corte, le residenze estive, i costosi viaggi della graziosa famiglia, ed i divertimenti più sfrenati. Tutto questo generò una mostruosa confusione e fu all'origine di diversi conflitti, mai completamente risolti, dapprima tra regali e nobiltà, in seguito tra tutte le classi sociali.
In rapporto alle altre potenze europee, l'Inghilterra non fu mai, fino all'Ottocento, uno stato forte, organizzato e centralizzato, anche se i sovrani, a volte d'accordo con il Parlamento, altre contro, cercarono in ogni modo di rafforzarlo aumentando in primo luogo le imposte. Intanto chiariamo: quando si parla di Parlamento, non si indicano i rappresentanti del popolo liberamente eletti, ma generalmente i nobili di due categorie: la fascia alta e ristretta dei Pari d'Inghilterra, ovvero i duchi concentrati nella Camera dei Lord, e la fascia più estesa della piccola nobiltà, la cosiddetta gentry, che componeva la Camera dei Comuni. Il Parlamento non sedeva in sessioni permanenti, ma veniva convocato qualche volta, riunendosi per non più di qualche giorno.
Lo scontro tra la volontà assolutistica dei sovrani ed i diritti del Parlamento fu aspro e condusse alla guerra civile nel ventennio centrale del 1600.
Stabilire chi fosse progressista e chi conservatore nel conflitto non è facile, e non ha nemmeno molto senso, visto che nessuno tra i due contendenti puntava apertamente a favorire il benessere ed il miglioramento dei ceti poveri. I nobili difendevano la loro orgogliosa autonomia, la quale non va intesa come moderna espressione di democrazia e partecipazione, ma come volontà di mantenere il vecchio potere feudale di cui ancora erano detentori. I sovrani miravano a diventare signori assoluti del paese, come il Re Sole in Francia. E questo obiettivo veniva a coincidere, non del tutto casualmente, con l'esigenza di unificare la nazione e costruire uno stato centrale. Questa era una necessità dettata, tra l'altro, dalla situazione internazionale, dallo sviluppo dei commerci e dall'esistenza di colonie che andavano difese, oltre che dalla brama di nuove terre.
Se assumiamo il punto di vista delle classi subalterne e dell'insieme della popolazione, è molto probabile che si finisca col ritrovarsi dalla parte dei sovrani, salvo immediatamente indietreggiare inorriditi di fronte ad argomenti quali il diritto divino a governare. I nobili contestavano tale assurdità, ma potremmo forse considerarli più a "sinistra", quando, nei fatti, se non nelle parole, essi si arrogavano il diritto divino a governare localmente?
Ora, a prescindere da queste considerazioni, il dato più evidente è che lo stato di cui stiamo parlando non dava servizi ai sudditi, né centralmente, né localmente. Piuttosto li esigeva. In cambio ne offriva uno solo: difendeva dai nemici esterni ed interni, fossero essi possibili invasori, od anche banditi e briganti, i quali erano spesso processati sommariamente ed impiccati all'albero più alto senza troppe preoccupazioni sulla presunta innocenza. Proprio l'amministrazione della giustizia, ovvero il cardine dello stato, era carente, parziale e discutibile, forte con i deboli e debole con i potenti.

Dopo la repubblica
Alla fine del periodo repubblicano solo una parte dei problemi erano stati risolti, mentre ne montavano di nuovi, ancora più grandi. Finalmente, la gente era disposta a pagare i tributi, a condizione che fosse il Parlamento ad imporli, a controllare i flussi di spesa e quindi a limitare gli sprechi, i fasti della corte ed il numero dei "mantenuti di lusso". Una non piccola complicazione stava nel fatto che tra questi ultimi si contavano non pochi parlamentari beneficiari dei cosiddetti patronati, ovvero elargizioni, prebende, assegnazioni di nuove terre e persino gestione dei monopoli di stato, che la Corona assegnava in cambio di particolari servizi e l'alta fedeltà dimostrata. Non c'erano gare d'asta, come altrove. L'assegnazione rispondeva a criteri soggettivi e clientelari.
Tutto questo ritardò la costituzione di una burocrazia, cioè di uno stato presente e visibile sul territorio, con tanto di ufficio reclami e ricorsi. L'amministrazione era in gran parte garantita dai giudici di pace, non funzionari pagati, ma nobili e cavalieri, spesso sonnacchiosi e poco perspicaci, irrimediabilmente conservatori, più che mai distratti dalle proprie occupazioni e "deviati" in molti casi dai propri interessi. Il potere reale sul territorio era quindi esercitato dalla gentry, la piccola nobiltà terriera che eleggeva la Camera dei Comuni, e dai duchi.
Quando cominciò ad essere percepito che esisteva un impero coloniale le cui risorse erano sfruttate per creare grandi ricchezze personali ma, non a vantaggio dell'insieme, e soprattutto dello stato, la resistenza alla tassazione si fece ancora più ampia. Tanto più che tutti avevano sotto gli occhi un sistema esattoriale a dir poco discutibile.
«In assenza di un apparato burocratico centrale - scrive Sidney Pollard - le imposte sulla proprietà venivano accertate e raccolte da funzionari locali e uomini d'affari che, grazie ad abili operazioni sui pagamenti e sui trasferimenti a Londra, potevano accumulare notevoli fondi locali da utilizzare a proprio beneficio per vari periodi. L'imposta fondiaria, d'altra parte, dato il particolare modo in cui era stata fissata in termini di distribuzione regionale e locale sulla base approssimativamente dei valori del tardo XVII secolo, favorì i distretti industriali del nord che non videro aumentare la loro quota impositiva in proporzione all'aumento del valore della loro proprietà.» (S. Pollard, cit)

L'Inghilterra rimase a lungo un corpo istituzionale privo di spina dorsale. Soffriva le limitazioni paralizzanti di tutte le democrazie senza essere una democrazia, ma solo una gestione collegiale oligarchica piuttosto litigiosa. Non godeva di alcuno dei vantaggi che una monarchia assoluta poteva portare alla formazione di uno stato nazionale efficiente. Anzi, non era nemmeno una nazione, ma tre (Inghilterra, Scozia e Irlanda) più un quarto di minoranza gallese, che era cresciuta d'influenza al tempo dei Tudor - perché Enrico VII era gallese, imparentato coi Lancaster per parte di madre.
Ufficialmente, a partire da Enrico VIII Tudor, il regno aveva una sola religione ed una sola chiesa, quella anglicana, sottoposta alla Corona. Di fatto era un crogiolo di minoranze, da quella cattolica che in Irlanda faceva sentire il suo peso ed ordiva complotti e sommosse in combutta con le potenze cattoliche, a quella presbiteriana a quella congregazionista, per non dire dei quaccheri e dei battisti, innocui ma, mai del tutto innocenti. I quaccheri, come gli ebrei del resto, avevano presto acquistato un ruolo di rilievo nelle attività finaziarie della City. Tra questi ultimi erano autentiche potenze i Salvador ed i Gideon, famiglie ebree sefardite. I cattolici erano discriminati; dal 1793 la minoranza nobile poteva votare ma non poteva candidarsi al Parlamento. Gli Irlandesi non andavano a votare perchè rifiutavano di scegliere i loro rappresentanti tra gli avversari religiosi. I sentimenti di odio e disprezzo coinvolgevano, inutile dirlo, soprattutto le classi inferiori, da sempre tenute nell'ignoranza, allevate nel pregiudizio ed educate ad un razzismo pidocchioso. Le percentuali di analfabetismo erano elevate, dal 50% di alcune zone rurali al 25% di aree privilegiate, e comunque il vocabolario era ristretto e diretto, farcito di arcaismi dialettali e modi di dire non sempre comprensibili persino da villaggio a villaggio.
La persistente debolezza degli apparati pubblici facilitava la corruzione dei pochi funzionari statali, favoriva il pressapochismo di chi doveva far rispettare le leggi e le leggi stesse finivano con l'affastellarsi l'una sull'altra, producendo un diritto contraddittorio ed ambiguo, un insieme di norme al quale ci si poteva appellare praticamente per dimostrare tutto ed il contrario di tutto. Quando entravano in vigore nuove leggi, nessuno si preoccupava di abrogare quelle vecchie, che spesso affermavano regole e principi del tutto opposti. Dopo il 1707, Scozia ed Inghilterra erano governate da un solo Parlamento, ma applicavano una legislazione differente. Era un ginepraio. Hegel non avrà tutti i torti a denunciare il diritto inglese come pessimo modello da non imitatare. Cosa si potrebbe dire, del resto, di un paese costituzionale che non aveva una costituzione scritta?

Eppure, proprio tale modello approssimativo riuscì a garantire le condizioni per uno sviluppo economico e sociale senza eguali in Europa. Lo stato "tollerava" le manovre finanziarie e mercantili più ardite, ed i "sudditi" più evoluti (degli altri non si sa che dire) tolleravano uno stato che non tassava i redditi da interessi (lo farà solo una volta, durante le guerre napoleoniche).
Mentre il Portogallo di Giuseppe I e del marchese di Pombal cercava di imporre una modernizzazione dall'alto con fortissime tensioni e dubbi risultati, e la Prussia procedeva ad uno sviluppo degli apparati burocratici, industriali-militari, l'Inghilterra si barcamenava tra una politica di continuo contenimento della spesa pubblica, un'affannosa gestione delle entrate fiscali ed una politica di potenza che non aveva un sufficiente retroterra economico-militare. La bandiera del Regno Unito di Gran Bretagna sventolava sulla rocca di Gibilterra, sulle torri delle città indiane della costa orientale, sui fortini della Virginia e del Massachusets, in Australia come in Nuova Zelanda, ma le guarnigioni permanenti che le difendevano erano spesso milizie mercenarie al soldo delle Compagnie commerciali. Questo era il sintomo di qualcosa di più profondo: alle carenze dello stato, suppliva l'iniziativa privata, ma in termini che avrebbero presentato non pochi problemi ad esperti di diritto internazionale, se fosse esistito un diritto internazionale.
Fu grazie all'iniziativa privata e non a progetti dirigistici ispirati da principi e ministri, che la Gran Bretagna riuscì a sviluppare un tipo di trasformazione, sostanzialmente imitato dalle principali potenze europee nei primi anni del 1800. Lo stato la permise, a volte la incentivò, altre la ostacolò, ma se ne servì in modo molto spregiudicato. Non diversamente, i privati che avevano potere ed influenza usarono gli apparati pubblici ed i governi.
Nonostante ciò, lo stato ebbe la sua importanza ed è pura leggenda pensare che esso si astenne del tutto dall'intervenire, sia direttamente, con una sua politica economica, ed una sua politica estera fortemente motivata da questioni economiche, sia indirettamente, con misure di tipo restrittivo che impedivano la libera circolazione di merci e di capitali, nonchè la mobilità del lavoro. Poi, si verificò una svolta significativa: quantomeno a partire dalla metà degli anni '80 del XVIII secolo, i governi e la maggioranza parlamentare si schierarono apertamente da una parte sola, quella degli imprenditori più schiavisti e meno rispettosi della dignità dei lavoratori salariati. Cercarono di impedire le associazioni tra operai, la contrattazione collettiva del salario e dell'orario di lavoro.
E questo, senza fare poi molto per liberare l'iniziativa industriale da lacci e lacciuoli di altro genere.
Nel 1760 era ancora in vigore la legge sull'apprendistato varata da Elisabetta I. Praticamente non era fatta rispettare, se non nei distretti in cui conveniva applicarla, ma chiunque poteva appellarsi ad essa sia per ridurre i salari ai lavoratori non qualificati, sia per impedire che altri lavoratori trovassero impiego. Le leggi sull'usura limitavano il ricorso al prestito; il Bubble Act imponeva il decreto parlamentare di autorizzazione per la costituzione di società per azioni a responsabilità limitata (con relative spese procedurali di grande entità), il Navigations Act proibiva l'importazioni di merci da diversi paesi se il trasporto non veniva effettuato da navi battenti bandiera inglese. Era un monopolio dei trasporti che in un primo tempo aveva favorito lo sviluppo della marina mercantile britannica, ma che ora pesava grandemente in termini di costi.
La legge sul pane fissava il prezzo e determinava perfino il formato della pagnotta. Solo il colore della crosta era a piacere. Nel 1784 si arriverà ad una riduzione dal 119% al 12,5% del dazio sul té, che ormai era diventata una bevanda di larghissimo consumo popolare, ma era troppo poco.

Corruzione, malaffare, ricorso alla pirateria... poi alle banche
Uno stato, anche quando i governanti vorrebbero assumesse una posizione neutrale e super partes nei conflitti tra interessi contrapposti, interviene direttamente in economia già con la tassazione, la quale dovrebbe fornire la principale fonte di finanziamento per la spesa pubblica. In Inghilterra, né la Corona né il Parlamento riuscirono mai a trovare una via maestra, equa e moderna per finanziare le spese statali. La storia di come i sovrani inglesi cercarono di mettere una pezza alla loro assoluta incapacità di imporre tasse sfiora il ridicolo, il romanzesco ed il grottesco. Vendettero cariche e funzioni, smerciarono titoli nobiliari, multarono e perseguitarono chi non voleva saperne di acquistare sangue blu un tanto al chilo. Offrirono le terre della Corona a prezzi da capogiro e ne comprarono altre a prezzi di liquidazione con atti di prepotenza. Le affittarono in cambio di consenso politico, e gli intermediari erano molti e ben ripagati. Fruirono di ogni sorta di agevolazione per le forniture di merci per la Corte (non è escluso che comprassero il té di contrabbando) e cercarono in ogni modo di arrivare al controllo di qualche monopolio, come aveva fatto la Francia per il sale. Ma subito appaltavano e svendevano il monopolio stesso a cortigiani e "favoriti". C'erano Lord che controllavano la gabella sui vini dolci d'importazione e altri che godevano delle accise sul tabacco. Istituirono riserve di caccia e di pesca. Aggredirono la proprietà privata ed i beni ecclesiatici, espropriarono a forza ricorrendo a milizie private e banditi. Elisabetta I incoraggiò la pirateria. In un viaggio di solo 15 mesi, sembra che Francis Drake riuscì a tornare in patria con un bottino di 100.000 sterline. E fu un buon esempio per altri sovrani "cristiani". All'inizio del 1600, l'Austria cattolica scatenò la ferocia e l'avidità dei pirati uscocchi contro la flotta mercantile veneziana nell'Adriatico.
Quelli che dovevano essere i garanti della legge, dell'ordine e delle tradizioni, furono i principali facitori di disordini e illegalità. La nobiltà inglese del periodo di Carlo I Stuart era semplicemente disgustata dal fatto che così tanti pezzenti e cialtroni semianalfabeti, sovente arricchitisi con la rapina a mano armata, potessero vantare un blasone nobiliare. Dimenticavano come i loro antenati avevano acquisito il loro. In ogni caso, tale orgoglio di classe e di stirpe costituì uno dei motivi per i quali i nobili scesero in campo contro il re Carlo I Stuart: lo contestarono perché vendere nobiltà significava vendere potere, posti in Parlamento, possibilità di svolgere funzioni pubbliche, ed a loro tutto questo non piaceva. Purtroppo per i nobili, essi non avevano i titoli per dirsi fuori del sistema. Nemmeno l'ultimo conte della landa più putrida e sperduta. L'Inghilterra non era più un'aristocrazia, ma una plutocrazia, cioè un potere fondato esclusivamente o quasi sul denaro. Chi non aveva soldi o proprietà, fosse nobile o fosse zotico, era tagliato fuori.
Il primo escluso, tuttavia, sembrava lo stato stesso, una sorta di paralitico ingessato, capace solo di cavarsela nei modi più stiracchiati quando doveva combattere qualche guerra, ricorrendo a milizie private e mercenarie, a bande di esaltati, oppure alla coscrizione forzata. Più della metà degli equipaggi era reclutata a caso con un colpo in testa dopo una serata alla staw house. Trevelyan cita casi nei quali il reclutamento avveniva sulla porta di una chiesa, dopo un matrimonio. Le famiglie venivano sfasciate appena nate, e lo sposo si ritrovava maritato non già ad una pulzella ma ad una nave da guerra.

Non avendo liquidi, lo stato doveva ricorrere a prestiti, ed erano gli stessi controllori dello stato che prestavano, a tassi di usura formalmente proibiti. Come s'è visto nel capitolo precedente, la Banca d'Inghilterra nacque per razionalizzare il sistema e ridurre i tassi, ma non è che gli azionisti ci avessero rimesso rispetto a prima. Prestavano più soldi allo stato a tassi più bassi, ma erano depositi, cioè soldi degli altri. A volte capitali stranieri, ad esempio olandesi, francesi, persino italiani.
L'Inghilterra fu forse il primo paese al mondo a finanziare le proprie guerre con i soldi del nemico. Oggi è tradizione consolidata.
Ma, al di là delle battute, sarebbe interessante approfondire quest'aspetto: se arrivavano depositi dall'estero, significava che il sistema finanziario dava garanzia. In effetti, la City aveva superato da tempo Amsterdam ed Anversa quali centri finanziari e commerciali ed il porto di Londra era il più importante del mondo, senza contare che quello di Liverpool si era particolarmente sviluppato nel traffico con le colonie d'oltre oceano. La fama dei banchieri britannici era legata ad una buona reputazione, appena scalfita dal crack finanziario della Compagnia dei Mari del Sud.
Alcune osservazioni di Barron Baskin e Miranti sono utili: «Contrariamente agli assunti sui quali si fonda la teoria moderna, i mercati finanziari del XVIII secolo non erano né perfetti né privi di frizioni. Assai più che i mercati attuali essi dovevano combattere con il problema del rischio elevato e della scarsa informazione negli affari economici. Queste imperfette circostanze ebbero una grande influenza sui tipi di titoli fondamentali nella creazione di mercati ampi e impersonali. In questi contesto di incertezza, le obbligazioni dello Stato offrivano la base più significativa per lo sviluppo del mercato. » (J.Barron Baskin - P. J.Miranti jr. , cit)
Ciò significa che agli occhi degli investitori internazionali, Londra appariva il rifugio più sicuro, o se si preferisce, il meno rischioso, data l'esposizione olandese ai venti delle guerre europee e della politica delle potenze continentali, per non parlare delle banche italiane. I titoli di stato inglesi garantivano il pagamento di interessi fissi e questo, oltre tutto, ne facilitava la determinazione dei prezzi e l'eventuale rivendita.
Come osservano ulteriormente Barron Baskin e Miranti: «Gli importi e le altre condizioni dei pagamenti in contanti erano predeterminati, e ciò consentiva agli investitori di determinare il valore del proprio portafoglio al variare delle condizioni del mercato monetario. Ciò, assieme al basso rischio, alla facilità dei trasferimenti e alla quantità crescente di emissioni in circolazione determinò le condizioni per tutto il XVIII secolo, perché Londra divenisse il principale mercato di questo tipo di titoli per molti anni.» (J.Barron Baskin - P. J.Miranti jr. , cit)

Adam Smith e la spesa pubblica
Adam Smith, analizzando il problema della spesa pubblica, compilò un dettagliato elenco dei capitoli indispensabili al bilancio della Corona, soffermandosi in particolare sui problemi della difesa, dell'amministrazione della giustizia, delle opere pubbliche, dell'istruzione e della "protezione del commercio". Manca nell'elenco la sanità e non è cosa di poco conto. Ma a quei tempi era concepibile, e nessuno reclamava altro che lo sgombero dei cadaveri in caso di epidemia..
Smith aveva una visione "minima" del ruolo dello stato, ma le argomentazioni non mancavano di sottigliezza, buon senso comune ed anche di qualche altra qualche vistosa dimenticanza.
Il capitolo sulla giustizia non prendeva in considerazione la necessità di un corpo di polizia e si limitava ad una considerazione sui giudici. «L'ufficio di giudice è in se stesso così onorevole che gli uomini sono disposti ad accettarlo anche se a esso si accompagnano emolumenti molto bassi. L'ufficio inferiore del giudice di pace, benchè implichi molti fastidi e nella maggior parte del dei casi non dia affatto emolumenti, è tuttavia un ufficio ambito dalla maggioranza dei nostri gentiluomini di campagna.» (Adam Smith, cit.)
Secondo Smith, la spesa pubblica per la giustizia sarebbe stata comunque insignificante, ed avrebbe potuto essere coperta in buona parte con le spese di giudizio, in linea generale più eque che una tassa imposta a tutti i sudditi del regno., come se proprio la generalità dei sudditi non ne avesse particolare bisogno.
Pur difendendo l'autonomia completa del potere giudiziario dal potere politico, posizione di rilevante modernità, Smith dimostrava tuttavia di avere una nozione molto vaga e del tutto empirica dell'amministrazione della giustizia. Non si rendeva conto, ad esempio, che quel sistema giudiziario era espressione del nuovo potere economico e di vecchi privilegi feudali. Continuando a riconoscere che era del tutto naturale che gli uffici di giudice di pace fossero svolti senza la corresponsione di emolumenti, veniva a riproporre un modello nel quale l'accesso alla funzione era di fatto inibito, non dico ai poveri, ci mancherebbe, ma almeno ad avvocati, intellettuali, mercanti, piccoli manifatturieri ed artigiani. Già Pericle, nell'antica Atene, aveva compreso che solo fornendo a tutti la possibilità di esercitare funzioni di magistratura, pagando il disturbo, si perviene ad un'eguaglianza dei diritti.
Ma il limite più vistoso del ragionamento smithiano stava nel mancato riconoscimento della necessità di una magistratura in grado di procedere d'ufficio e non su semplice denuncia di parte. Da buon economista, aveva affrontato il problema con l'occhio del risparmiatore e non con quello di un politico preoccupato dal fatto che buona parte dei delitti, dei furti, delle illegalità e delle prepotenze rimanevano impuniti, perché non esistevano agenti investigativi professionali in grado di inchiodare i colpevoli con delle prove o con delle confessioni. Le quali si potevano ancora estorcere con la tortura. Purtroppo più spesso agli innocenti che ai colpevoli.
Anche incarichi di polizia locale, come quello di sceriffo, erano svolti come una sorta di "servizio civile" su basi volontarie, una funzione che dava prestigio, ma non funzionava che in rare occasioni.
Che il problema giustizia avesse uno spessore molto superiore a quello denunciato da Smith lo si può capire dalla storia di Jonathan Wild.

Il caso Jonathan Wild
Come tutte le grandi città d'Europa, Londra aveva un quartiere malfamato, l'Alsazia, sede di malandrini, ladri che agivano in proprio, bande organizzate, case di piacere ed esperti di ricettazione. I capi della città ebbero la brillante idea di farlo chiudere e la criminalità si diffuse così a macchia d'olio per tutta Londra.
Così la racconta George Macauley Trevelyan: «... la stretta consociazione di ladri, banditi di strada e prostitute era stata dispersa da quel covo col solo effetto di sparpagliarla, numerosa e violenta, per tutta l'area metropolitana. Il loro segreto organizzatore, il gran Jonathan Wild, fioriva in questo periodo, ostensibilmente preso dal suo ufficio di magistrato zelante, in realtà come manutengolo di refurtive su vastissima scala. Alcuni dei metodi coi quali serbava la disciplina tra i suoi subordinati sono quelli attribuiti a Peachum nella scena iniziale del Beggars's Opera [L'opera dei mendicanti], che fu scritta subito dopo il tardivo scandalo, processo e impiccagione di Wild nel 1725. La storia della sua vita denuncia la inefficienza dei magistrati e della pubblica sicurezza...[...] » (Trevelyan, cit)
Lo stesso Trevelyan ha visto, tuttavia, un lato positivo nella singolarità inglese: l'autonomia dei poteri locali. Proprio a proposito di Londra, ha esaltato l'autonomia municipale dalla corona, non mancando di elogiare le contee che si distinsero nell'autoconduzione. E' facile obiettare che se l'autonomia non incorpora efficienza e, possibilmente, democrazia e partecipazione, non ha un gran valore in sé. Piuttosto, finisce col limitare quel poco di azione modernizzatrice ed ordinatrice che anche uno stato da operetta, prima o poi, riesce a produrre. In Inghilterra, quando andava bene, l'autonomia era paternalistica; nei casi peggiori, tirannica.

Come perdere la parte migliore dell'impero coloniale: la rivoluzione americana
Il colpo più duro, la sconfitta più bruciante allo stato britannico dai tempi della seconda guerra olandese del 1665-1667, fu costituito dalla rivoluzione americana.
Thomas Jefferson, incaricato di scrivere un documento per conto del Congresso continentale riunitosi nel maggio del 1775, aveva messo in chiaro con sintetica efficacia il punto di vista dei coloni americani: « Siamo persuasi che il governo britannico non ha alcun diritto di intervenire nei nostri provvedimenti per l'esercizio del governo civile o nell'amministrazione della giustizia. Le istituzioni che ci siamo date corrispondono alle nostre esigenze e sono consone alla nostra situazione: rispondono ai fini sostanziali del governo e della giustizia e non debbono servire ad alcun altro scopo. Non intendiamo che il nostro popolo sia gravato di tasse eccessive, per offrire delle sinecure agli oziosi ed ai viziosi.» Non erano solo parole.
Il problema dei coloni americani era che l'Inghilterra pretendeva sempre più ed offriva sempre meno, anche perchè non era in grado di fare di più. E quel poco che era in grado di offrire, veniva frainteso. La presenza di un contingente militare a difesa della minaccia indiana veniva visto come un pretesto per mantenere un esercito d'occupazione, rivolto più che altro a controllare e minacciare i coloni stessi.
Uno dei problemi più scottanti era il diritto al commercio con l'estero. Considerando le colonie come una semplice appendice da sfruttare all'interno di una visione mercantilistica, il governo aveva posto gravi restrizioni al commercio delle colonie, stabilendo che gran parte di quello che veniva esportato doveva, non solo passare per l'Inghilterra, ma anche essere trasportato da naviglio inglese con equipaggio a maggioranza britannico. Oggetto delle restrizioni erano in particolare prodotti pregiati, quali zucchero, cotone, tabacco, zenzero, indaco, legni tintori.
Poichè queste restrizioni erano venute dopo un periodo di relativo laisser-faire e disinteresse al problema coloniale dovuto alle lotte civili del Seicento, i coloni cominciarono ad essere insofferenti. Del resto, i rappresentanti del governo inglese si rivelarono presto corruttibili, facendo applicare la legge con una certa elasticità. Ma questo comportamento, anzichè suscitare sentimenti positivi, accentuò quelli negativi; la gente si chiedeva: perchè oltre a pagare le tasse, dobbiamo anche pagare tangenti a questi funzionari corrotti? Non è forse nostro diritto vendere i nostri prodotti a chi ci pare?
«Per gran parte degli inglesi, l'unico concetto valido di impero era quello antico, mercantilistico; le colonie che si rifiutavano di accettare la piena portata della supremazia parlamentare erano non soltanto immeritevoli, ma concretamente pericolose; e, di contro all'opinione che un impero sfuggito al controllo fosse peggiore della mancanza di un impero, poco potevano menti più aperte... [...] in fin dei conti gli americani difendevano i diritti degli inglesi seicenteschi; per loro, la resistenza alla legge sul bollo era l'equivalente della lotta di Hampden contro la tassa per armare le navi della marina da guerra; era inconcepibile una sovranità che calpestasse le assemblee provinciali ed i diritti locali.»
Fatto sta che gli inglesi pretendevano di imporre in America un concetto di stato che non erano nemmeno stati capaci di imporre nella parte europea del Regno Unito. «Il conflitto si trasformò, da insurrezione coloniale, in guerra a oltranza contro le monarchie borboniche, comportando inoltre l'ostilità degli olandesi ed uno stato di "neutralità armata" con altre potenze. In sede di negoziati di pace (1782-1783), qualcosa fu salvato dal naufragio. E, sebbene le tredici colonie fossero irrimediabilmente perdute, una brillante vittoria navale dell'Ammiraglio Rodney nel 1782 conservò alla Gran Bretagna le Indie Occidentali e soprattutto risparmiò a Giorgio III l'umiliazione di cedere ciò che Cromwell aveva acquisito un secolo prima, il "preziosissimo gioiello della Corona" costituito dalla Giamaica. Nel Meditarraneo venne respinto il tentativo della Spagna di riconquistare Gibilterra. In India, la disperata difesa delle conquiste di Clive da parte di Warren Hastings scongiurò sia la revanche francese sia la ribellione dei sovrani locali.» Aveva da passà a nuttata e a nuttata passò.

Le conseguenze interne...
... disastrose: recessione, caduta del valore delle terre e delle azioni delle compagnie commerciali, rapido incremento del debito pubblico, nuove tasse del tipo "facciamo una manovra per coprire questi buchi di bilancio". L'opinione pubblica, che ormai cominciava ad esistere da quando si stampavano libri e riviste, persino quotidiani, mise in questione governo, Parlamento, il sistema politico stesso. Molte famiglie piangevano i caduti "per niente", il malcontento cresceva soprattutto tra i ceti medi e le classi inferiori. Anche forze sostanzialmente conservatrici, come la gentry di campagna, aderirono al "movimento delle associazioni" capeggiato da Christopher Wyville, un ecclesiastico dello Yorkshire, che pretendeva di eliminare le circoscrizioni "corrotte", cioè prive di popolazione, estendere il diritto di voto e introdurre lo scrutinio segreto. «Inoltre, nelle "associazioni" c'era la tendenza, che sulla bocca di agitatori londinesi come John Webb e Major Cartwright diveniva esplicita affermazione, a ritenere che il Parlamento, qualora si fosse opposto alla riforma, avrebbe dovuto essere sostituito dai delegati delle contee.» Quella delle "associazioni" sembrava una marea montante ed invece si risolse in una bolla di sapone, in un'atmosfera gelatinosa e comunque prudente, tendente a raffredddarsi. Forse, era ancora forte il ricordo dell'orgia di violenza scatenata a Londra durante i Gordon riots, anche se tra i seguaci di Wyville e quelli di Lord George Gordon non c'era alcun punto di contatto.
Nell'anno 1780, una banda di fanatici protestanti guidata da Gordon si era scatenata per le strade con la scusa di manifestare contro l'abolizione di tutte le misure discriminatorie verso i cattolici. Era già accaduto nel 1754 che i più bassi istinti della plebaglia fossero aizzati, quella volta perché erano cadute le restrizioni contro gli ebrei. I seguaci di Gordon diedero la caccia all'irlandese in ogni angolo di Londra, abbandondosi a saccheggi e violenze mostruose.
Era un movimento reazionario ma, godendo di consenso popolare ed essendo "protestante", appariva di sinistra. Difendeva il privilegio di essere inglese ed attaccava gli immigrati irlandesi che venivano a rubare lavoro e pane. Storia già vista e che rivedremo regolarmente anche nel terzo millennio.
Accadde, comunque che la crisi ebbe uno sbocco che avrebbe voluto significare un rinnovamento del circolo politico che aveva portato l'Inghilterra al disastro americano. Si confrontarono, all'ombra della Corona, due personalità: William Pitt, figlio di William Pitt il vecchio, e Charles James Fox, figlio di Henry Fox, a sua volta avversario del vecchio Pitt. Entrambi erano di matrice whig, ma Pitt tendeva a ragionare più con la sua testa che con quella della nomenklatura parlamentare. Fox era intrallazzato con Lord North, un ferrovecchio inviso persino al sovrano. L'alleanza lo portò al governo per un breve periodo, ma il suo gabinetto cadde per la stessa ostilità del re. Fox si rifarà vivo, leggermente spostato a sinistra, come vedremo, improbabile alfiere delle richieste operaie.

William Pitt
Nel 1783, re Giorgio chiamò William Pitt, il giovane, a ricoprire l'incarico di primo ministro. Il ragazzo aveva allora 24 anni ed un indubbio talento di animale politico. Avrebbe conservato in vario modo il potere fino alla morte. Per intanto, l'anno dopo, vinse le elezioni, battendo un'innaturale alleanza di whigs e tories (grosso modo centro moderato e destra conservatrice) guidata da Fox. Era di sinistra ed innovatore Pitt? Non scherziamo. Era un opportunista, molto abile a girarsi come tirava il vento ed ad ingraziarsi la gente. Diceva quello che gli interlocutori preferivano sentirsi dire, di volta in volta.
Mancavano sei anni alla rivoluzione francese, ma allora nessuno sapeva che sarebbe scoppiata.
Nel paese, da più di dieci anni si agitava un certo John Wilkes, di idee moderne e radicali. Faceva parte dell'establishment, era parlamentare, godeva dell'immunità ed aveva diritto di parola. Agitava i cuori dei più entusiasti con una versione radicale delle idee di Wyville. Pretedendeva che i resoconti dei dibattiti parlamentari fossero di pubblico dominio. La sinistra era quella, ma aveva il fiato corto, anche perché Wilkes era un dandy non moralmente irreprensibile, non un politico e nemmeno un filosofo della politica.
Pitt non sposò completamente la causa dei capitalisti col cuore di pietra che volevano spremere i lavoratori come agrumi, imponendo orari impossibili e pagandoli sempre meno. Però fece del suo meglio per apparire brillante e gradevole nel lungo flirt che intrattenne con gli industriali. Evitò in ogni modo che passasse il principio della contrattazione collettiva, principio che peraltro non era nemmeno ben delineato nei capi delle associazioni operaie. E quando i disordini (non solo scioperi, ma violenze, assedi, minacce, incendi ecc...) si fecero più frequenti ed estesi, non esitò a far approvare la legge, il Workmen's Combination Bill, che proibiva le associazioni dei lavoratori. La richiesta veniva dall'associazione dei costruttori di mulini, cioè da una coalizione di padroni e fu subito raccolta da Wilberforce, un vecchio reazionario.
Si era nel 1799, cioè nel pieno della guerra con la Francia rivoluzionaria, ed è questa l'unica parziale scusante ad un provvedimento tra i più illiberali di tutta la storia inglese.

Guerra: economie di guerra e guerra di economie
Il 1 febbraio 1793 la Francia rivoluzionaria aveva dichiarato guerra all'Inghilterra. Brutta faccenda; l'inizio di un periodo buio che mise in grave difficoltà la vita degli inglesi e la relativa prosperità dell'economia, anche se, come vedremo, gli effetti non furono tutti negativi.
L'Inghilterra era impreparata. Disponeva di un esercito di soli 45.000 unità, mentre i nove decimi della flotta non erano in grado di prendere il mare, vecchie bagnarole male armate, o addirittura senza equipaggio.
I francesi provarono ad invadere l'Inghilterra tre volte: la prima in Galles, la seconda e la terza attraverso l'Irlanda. «Uno sbarco nel Permbrokeshire nel 1797 non trovò sostegno presso la popolazione locale, ma nell'autunno del 1798 forze al comando del generale Humbert presero terra a Kiliala nel Mayo e,con alcuni alleati locali, combatterono per due settimane prima di essere sconfitte. Il governo concepì l'idea di difendere il territorio inglese munendo le coste di forti circolari, organizzando la milizia (la forza di defesa terrirtoriale) e istituendola, con i Militis Acts, anche in Scozia ed in Irlanda, provvedimenti questi, che furono fonte di incessanti difficoltà per i funzionari locali incaricati della bisogna e che prestavano la propria opera a tempo ridotto e senza retribuzione.» (Christopher Harvie, in K.O. Morgan, cit)
In compenso, la Corona non badava a spese quanto a sussidi agli alleati. Decine di milioni di sterline, raccolte con un'imposizione che tassava due scellini per ogni sterlina di reddito, furono inviati in Europa per finanziare gli eserciti di altri paesi e, probabilmente, risparmiare sul proprio, mentre nobilastri francesi in fuga trovavano ampia ospitalità e cospicui appoggi in Inghilterra.
Pitt instaurò il cosiddetto "regno del terrore", durante il biennio 1793-94, nei confronti di tutti i gruppi che auspicavano la pace con la Francia e mostravano simpatia per le idee rivoluzionarie. La repressione fu particolarmente dura in Scozia, dove Lord Braxfield non andò troppo per il sottile, incarcerando e torturando, usando il patibolo come deterrente. Quando una delle sue vittime gli fece notare che Gesù Cristo era stato un riformatore, non ebbe scrupolo a rispondere: "Merda! Avrebbero dovuto impiccarlo!"
In Irlanda, Pitt seguì una tattica diversa. Cercò di ottenere l'appoggio della popolazione, esercitando una forte pressione sui parlamentari per la concessione del diritto di voto ai cattolici. Naturalmente, fu altrettanto avversato dagli orangisti protestanti dell'Ulster, mentre i cattolici assumevano posizioni radicali e filorivoluzionarie.
Non mancarono sommosse, che ebbero però il difetto della mancata sincronizzazione con le attività militari francesi. A Wicklow era scoppiata una rivolta poche settimane prima dello sbarco di Humbert, ma quando questi arrivò, era già stata domata nel sangue.

Lo stato si schiera: divieto di associazione, protezione dell'ingegno e dell'industria britannici
Fu dunque in questo clima che si arrivò all'approvazione del Workmen's Combination Bill. La legge trattava le organizzazioni operaie come associazioni sovversive e si poteva far scudo della guerra e del superiore interesse nazionale per una repressione che mirava a tenere bassi i salari ed imporre la dura disciplina di fabbrica ovunque.
Scrive Mantoux: «L'agitazione, che sembrava propagarsi progressivamente a tutta la classe operaia, non poteva non inquietare il governo. Essa non minacciava soltanto gli interessi dei padroni, ma assumeva, date le circostanze, l'aspetto di un grave pericolo politico e sociale. In quest'epoca in cui il timore di una rivoluzione simile a quella verificatasi in Francia ossessionava gli animi e sconvolgeva le menti degli uomini di stato, qualsiasi associazione popolare, qualunque scopo si prefiggesse, appariva immediatamente sospetta. » (Mantoux, cit.)
Vale la pena di leggere almeno il preambolo del testo della legge: «Considerato che un gran numero di operai e giornalieri, in diverse parti di questo regno, hanno cercato con associazioni e coalizioni non consentite, di ottenere un aumento di salario e di perseguire altri obiettivi illegali, e considerato che le leggi attualmente in vigore contro queste mene illecite sono state riconosciute incapaci di porvi termine, è sembrato necessario prendere misure più energiche per prevenire la formazione delle dette associazioni, colpendo i responsabili con punizioni immediate ed esemplari. » (Mantoux, cit.)
In alcuni casi, è provato, gli operai avevano esagerato, violando la linea ben visibile del comportamento legale, pacifico e non violento. Certamente si sentivano con le spalle al muro, schiacciati, ed in molti casi non fecero che rispondere ad atti di illegalità ancora più gravi. Ma è evidente che la punizione del comportamento violento di ambo le parti sarebbe stata più che sufficiente, sempre che lo stato ed il sistema giudiziario fossero stati all'altezza della situazione. Il che non era. Così, Pitt e la sua ghenga decisero di sparare nel mucchio, con misure tra le più illiberali di tutta la storia moderna e contemporanea, compresa quella dei cosiddetti regimi totalitari.
L'unica voce dissenziente che si levò alla Camera dei Lords fu quella di Lord Holland, il quale argomentò con fervore contro la pericolosità del provvedimento, asserendo: «E' evidente che potrebbero verificarsi circostanze in cui l'aumento dei salari sarebbe giusto ed umano. Se permettiamo che il bill divenga legge questi uomini non potranno mai cercare onestamente un miglioramento dei loro salari senza incorrere nelle sanzioni penali previste.» (Mantoux, cit)
Holland trovava particolarmente ingiusto che le indagini e i giudizi su questioni di libera associazione fossero affidate a magistrati locali, i quali avrebbero potuto essere contemporaneamente giudici e parti in causa, o quantomeno amici di una parte in causa. Con ciò metteva il dito sulla piaga che infettava l'intero sistema giudiziario inglese, e che rendeva realisticamente ancora più pesante il provvedimento.
«Nessuno si prese la briga di rispondere a Lord Holland e la legge passò senza alcun emendamento. Essa proibiva agli operai di ogni specializzazione di riunirsi, sia per ottenere un aumento di salari o una diminuzione di ore lavorative, sia per assumere certi operai piuttosto che altri, sia per stabilire ed imporre qualsiasi tipo di regolamentazione. Per i trasgressori era prevista la pena minima di tre mesi di reclusione o di due mesi di lavori forzati. Identica era la punizione assegnata a chi tentava di impedire agli operai di lavorare in certi stabilimenti, o rifiutare di lavorare con chi non lo facesse ancora, a chi prendeva parte a riunioni illegali e riceveva o versava denaro per organizzarle. » (Mantoux, cit.)
Ai Comuni la bandiera della libertà fu issata da Hobhouse, con uguale disgrazia. La legge fu approvata ed immediatamente applicata.

Sviluppi ed effetti della guerra
I francesi erano convinti che si potesse battere l'Inghilterra in un solo modo: riducendola alla fame. Pensavano che il blocco delle merci dirette sull'isola, in particolare del grano, avrebbe potuto provocare una crisi sociale ed economica, e che anche impedendo l'esportazione di prodotti inglesi sui mercati continentali si sarebbe assestato un durissimo colpo. Il progetto era però troppo ambizioso e presentava diversi punti deboli, non ultimo che il dominio dei mari era comunque inglese. I britannici avevano accesso ai porti europei in diverse località non controllate ( e non controllabili) dai francesi. Facevano scalo in Portogallo, nel Mediterraneo, in Danimarca (c'è sempre del marcio, in Danimarca) e nel Baltico. Napoleone giunse ad occupare il Portogallo, nel 1807. Olanda e Germania settentrionale furono addirittura annessi all'Impero. Ma ciò nonostante gli inglesi continuavano ad importare ed esportare, sia col proprio naviglio che ricorrendo alla flotta mercantile di paesi neutrali, come la Danimarca e gli Stati Uniti. I quali, del resto, offrivano l'identico servizio alla Francia. Nel gioco del dare e dall'avere, ben presto gli inglesi si accorsero che i mercanti neutrali favorivano la Francia ed assunsero un atteggiamento più aggressivo. Incominciarono, cioè a fermare il naviglio mercantile anche in alto mare per verificare i documenti e la destinazione delle merci. In molti casi sequestrarono i carichi, in pratica violarono ancora una volta i diritti di navigazione, se non si vuole parlare di pirateria. I paesi neutrali reagirono, non solo protestando, e il governo inglese, non ebbe scrupolo a comandare un raid a Copenhagen che venne bombardata dalla flotta britannica nel 1807. Fu un giro di vite. Nessuna imbarcazione di qualsiasi paese neutrale avrebbe potuto attraccare in un porto europeo sotto il controllo della Francia senza aver prima fatto scalo in un porto inglese per pagare dazio. Una misura incredibile, che tuttavia funzionò almeno in parte.
Il confronto era impari per diversi motivi. Il blocco esercitato dagli inglesi era sostanzialmente ridotto ai prodotti provenienti dai paesi coloniali ed extraeuropei: cotone, caffè, tè, tabacco. A parte il cotone, non si trattava ancora di generi essenziali perché tabagisti e caffeinomani erano una minoranza che si poteva permettere di comprare tutto al mercato nero. Al contrario, il blocco francese colpiva al cuore l'economia britannica, volendo impedire l'esportazione delle merci prodotte dalle manifatture e persino l'esportazione di macchinari per l'industria. Cosa che, peraltro, era stata bloccata dallo stesso governo inglese per non favorire la concorrenza e l'odiato nemico.
Ma i blocchi sembrano fatti apposta per essere violati, aggirati e beffati. Nel 1798, William Cockerill, che era inglese, e sapeva quasi tutto il necessario sulla tecnologia più aggiornata, si trasferì in Belgio per produrre macchinari di tipo inglese per le manifatture laniere di Verviers. Nel 1800 il mercante belga Liévin Bauwens riuscì a portar fuori dall'Inghilterra, in circostanze romanzesche, un filatoio intermittente per il cotone, completo di caldaia a vapore. Installò la sua prima fabbrica a Passy, vicino a Parigi e ne aprì altre in Belgio a Gand e dintorni. Poi, nel 1811, fallì. Ma il più era fatto. Il Belgio era avviato all'industrializzazione e non aveva pagato nessun brevetto.
Del resto, va osservato che, dimostrando davvero una grande miopia, la politica napoleonica fu molto parziale e nazionalista. Ad esempio, nei confronti dell'Italia, è dimostrato che l'occupazione francese risultò sostanzialmente come una politica di rapina delle risorse e di sistematica depressione dell'economia artigianale e manifatturiera. Il rinnovamento tecnologico venne ostacolato in ogni modo perché avrebbe potuto danneggiare la Francia.
«In un rapporto della Camera di Commercio di Milano del 1812 si lamenta il decadimento delle fabbriche di seta del Regno, dovuta alla dimuizione delle vendite, ed assenza di richiesta dall'estero, al languore generale del commercio, ma "più di tutto, al seguito smembramento di quelle città e paesi ne' quali solevasi spedire la massima parte dei loro prodotti. » (R. Morandi, cit)
In verità, dopo un lungo tiramolla si arrivò, dopo qualche anno, alla concessione di poter acquistare, naturalmente a spese del tesoro del Regno d'Italia, macchinari francesi per l'importo di 500.000 franchi. Ma gli ostacoli frapposti dalla burocrazia parigina e il generale clima di sfiducia che minava gli imprenditori italiani non consentirono all'operazione di decollare. Una volta arrivate in Italia, le macchine presero polvere nei magazzini.
Intanto il fronte di guerra si era spostato in un luogo decisivo: la Spagna. Qui era maturata una resistenza popolare alla semioccupazione francese e qui il Duca di Wellington aveva sbarcato un esercito che sosteneva la guerriglia spagnola.
Ovunque, l'occupazione francese, anche laddove era stata capace di sollevare qualche entusiasmo tra i giacobini ed i liberali locali, non solo non aveva portato democrazia e progresso, ma anche prodotto problemi nuovi che si aggiungevano a quelli vecchi.
Eppure, nonostante le gravissime difficoltà, Napoleone pensò bene di attaccare la Russia, un'impresa folle che tuttavia si può anche spiegare con il fatto che l'imperatore voleva in realtà colpire l'Inghilterra: attaccava il levante per colpire il ponente, impadronirsi dei porti del Baltico e quindi distruggere una volta per tutte una delle vie di sbocco del commercio inglese. C'erano altri motivi, ovvio, ma questo non era l'ultimo, e se è vero, fu anche il più folle di tutti. Si sa come finì.

Dopo Waterloo
La coalizione antinapoleonica anglo-prussiana vinse la sua battaglia decisiva con quadrati di fanteria che ressero al bombardamento francese e punirono severamente le cariche degli ussari, falcidiando le linee con un tiro di fucilieri micidiale. L'immagine del quadrato si attaglia anche alla situazione interna, al punto che lo storico Eric J. Hobsbawm lo ha richiamato per evocare il sistema di fabbrica ormai imperniato su una disciplina ferrea. Ma, al di là di tutte le metafore, non ultima quella di un paese provato ed "in ginocchio", non si può negare che la guerra aveva duramente peggiorato le condizioni di vita della povera gente e piegato la forza di resistenza dei lavoratori. Il danno fu grande sia per i vincitori che per i vinti, se per vincitori s'intende il popolo britannico nel suo insieme, irlandesi compresi. E se, si guarda più in là, agli austriaci, agli ungheresi, ai boemi, ai prussiani, ai russi, nonchè a minoranze etniche sparse nell'Europa orientale come le comunità yiddish (ebrei ashkenaziti), il giudizio è ancora più severo. Al Congresso di Vienna seguì un periodo di restaurazione dell'antico regime, ed il prezzo più salato venne pagato dai sudditi delle potenze vincitrici.

(continua)
12 settembre 2004 - Guido Marenco - su questi files esiste il copyright - possono essere riprodotti solo su permesso dell'autore