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La rivoluzione industriale
capitolo 11: Tensioni sociali e politiche, sviluppi e frenate in Gran Bretagna dopo Waterloo
di Guido Marenco
Ventidue anni di guerra non erano passati invano. Il demone della miseria e della morte poteva sentirsi soddisfatto. L'economia britannica era stata frenata e distorta; in alcuni momenti era parsa sul punto di crollare, come quando nel 1797 la Banca d'Inghilterra fu costretta a sospendere i pagamenti in oro.
La vittoria di Waterloo ebbe l'effetto singolare di gettare sul mercato del lavoro 300.000 uomini - scrive Ashton - «...in un momento in cui l'industria non si era ancora adattata alle condizioni di pace (e quale fu il destino di molti di quegli uomini ce lo dicono eloquentemente i registri della pubblica beneficenza). La domanda europea di prodotti britannici era diminuita e la spesa pubblica si era ridotta della metà. I commercianti e gli industriali erano oppressi dalla consapevolezza che, prima o poi, la moneta sarebbe stata riequilibrata sull'oro e che questa parità poteva essere mantenuta solo se i prezzi fossero ribassati. Gli investimenti privati ristagnarono e la disoccupazione dilagò.» (Ashton, cit.)
Questo era il quadro per nulla incoraggiante, eppure nonostante tutto il peggio che si può desumere dalle scarne osservazioni di Ashton, la locomotiva inglese non si fermò un istante. In breve il settore del cotone divenne un'impresa di tipo urbano a tutti gli effetti, mentre gli impianti che ancora utilizzavano l'energia idraulica invece del vapore, ristagnarono o furono costretti a chiudere, sia pure lentamente.
A vecchie manifatture che cessavano, seguivano immediatamente o quasi nuove fabbriche che inauguravano. Se l'Ulster e la regione di Glasgow cominciarono a perdere terreno, il Lancashire prese a volare. Verso il 1820 fu chiaro che la tessitura meccanica era nettamente più conveniente ed emergevano costruttori specializzati nella sola costruzione di macchine.
Un concreto aiuto venne dagli Stati Uniti, ed è singolare che gli storici abbiano in generale ignorato questo fatto. Sorprende soprattutto che l'abbia ignorato Landes.
Nel 1793 Eli Whitney aveva inventato la sgranatrice meccanica e grazie ad essa fu risolto il problema di come togliere la capsula al cotone. In breve, e proprio nel momento del massimo bisogno, il prezzo del cotone americano ribassò e spinse i proprietari delle piantagioni del sud ad estendere indefinitamente la coltivazione, spingendosi decisamente verso ovest, particolarmente nelle terre alluvionali dell'Alabama e del Mississippi, originando così una vera e propria monocultura, cioè un'economia di solo surplus, simile a quella delle isole caraibiche, dove si coltivava esclusivamente canna da zucchero e si era dipendenti dall'esterno per i generi alimentari di prima necessità.
«La domanda delle manifatture inglesi potè essere soddisfatta, e a prezzi inaspettatamente bassi, e Inghilterra e America insieme si imbarcarono nell'impresa di fornire il mondo di tessuti di cotone a buon mercato, impresa per cui il Sud americano era singolarmente predisposto dopo il parziale esaurimento delle terre da tabacco e la sospensione dei premi inglesi per l'indaco ed il riso.» (A. Yougson,cit. in Storia economica di Cambridge, vol.6*)
La quantità di importazioni inglesi (cioè di esportazioni americane) passò in solo cinque anni da 18,2 milioni di libbre ai 100 milioni del 1820. Nel 1840 raggiungerà la cifra record di 1 miliardo di libbre. Ma già nel 1821, le esportazioni americane di cotone superavano in valore tutte le altre messe insieme, compreso tabacco, legname e le costose pellicce di daino e castoro.
Questo dato è sufficiente a dimostrare la nostra vecchia tesi, più volte reiterata, della dipendenza della rivoluzione industriale in Inghilterra da fattori extraeuropei di dominio e di sfruttamento. Prima, il commercio degli schiavi era stato determinante per costruire capitali. Ora, il lavoro degli schiavi sarà decisivo per avere la materia prima a costi infimi. A fini di verità storica, è bene ribadire che nel 1833 in tutto l'impero britannico venne proibita la schiavitù in seguito ad una campagna condotta da ferventi intellettuali. Ma ciò, se da un lato si rivelò encomiabile, dall'altro mise in luce una situazione a dir poco grottesca. Il lavoro di donne, bambini, uomini neri all'aria aperta del sud americano faceva il paio con l'altrettanto lavoro, forse ancora più gravoso, di donne, bambini, vecchi ed invalidi negli insani capannoni del Lancashire.
L'età del ferro e del vapore
Finalmente, ci siamo: ecco la vera rivoluzione industriale, quella delle città malsane, delle ciminiere fumanti, del cielo oscuro e dello smog, del sole che non può tramontare perché non si è mai nemmeno levato.
Tra il 1788 ed il 1805 la produzione di ghisa si era già quadruplicata. Dal 1812, nonostante la concorrenza svedese, l'Inghilterra cominciò ad esportare ferro molto più di quanto ne importasse. Alla fine del 1815 la produzione annua di ghisa era salita ad un milione di tonnellate annue, contro le 30.000 del 1760. La produzione di ferro lavorato costituiva, secondo fonti della Deane, il 6% del reddito nazionale, segnando una crescita di 5 punti rispetto al secolo precedente. Gran parte di questo risultato era dovuto, ovviamente, all'impiego della macchina a vapore nei forni, nei magli e nei laminatoi ed ad una significativa riduzione dei costi di estrazione grazie all'impiego delle pompe.
Una altrettanto significativa riduzione dei costi si ebbe nel risparmio di tempo, di materia prima e di energia. Sempre la Deane sostiene che nello stesso tempo in cui prima si batteva 1 tonnellata di ferro, ora se ne battevano 15. La riduzione dei costi portò ad una impressionante riduzione dei prezzi. Il ferro pudellato veniva offerto a 20-28 sterline alla tonnellata. Gli svedesi erano ancora costretti a venderlo a 35-40 sterline. L'incremento per altoforno venne misurato da una produzione media di 750 tonnellate annue ad una nuova media di 1491, che salirà fino alla quota di 3566 nel 1839.
Il ferro entrò così a far parte del nuovo panorama urbano, nelle costruzioni edilizie, nei porti, nel naviglio che solcava i canali ed i fiumi, nei pilastri dei ponti di nuova costruzione, nelle tubature del gas e dell'acqua. Nella vie di città come Londra apparvero lampioni. I vomeri degli aratri erano ormai tutti in ferro e si ebbe anche un considerevole aumento dell'offerta di prodotti di ferramenta, per non parlare della produzione militare.
La dimensione delle unità di produzione tendeva ovviamente ad estendersi, mentre calava la quantità di carbone consumato per unità di prodotto dovuta ad un netto miglioramento dell'efficienza delle macchine.
«Infine, - scrive Phyllis Deane - se definiamo un'industria moderna come un'industria con fabbriche di grandi dimensioni, a forte intensità di capitale e con un elevato grado di meccanizzazione, possiamo dire che l'industria siderurgica ne era il prototipo e richiedeva fattori di produzione adeguati ad un'industria di tipo moderno. Aveva necessità di energia a vapore (benché nei primi anni si ricorresse molto all'energia idraulica) per una varietà di impieghi.» (P. Deane, cit.)
Del resto, il brevetto di Watt era venuto a scadere nel 1800, sicché officine meccaniche poterono liberamente sorgere in ogni angolo per produrre macchine ad imitazione della Watt. Secondo Pollard, «la lavorazione del ferro si estese moltiplicando i tipi di fornace allora esistenti, dato che la più importante innovazione successiva, l'altoforno di Neilson, doveva essere introdotta solo al termine di questa fase. Alla ricerca di quantità sempre maggiore di ferro e carbone, l'industria si rivolse prima al Galles del sud e poi allo Staffordshire meridionale, portando, in ogni caso, allo sviluppo di una costosa rete di canali e tramvie.» (Pollard, cit.)
Tutto vero, ovviamente, ma se solo seguissimo ulteriormente questo filo, ci troveremmo a pensare con un ottimismo fuori luogo. Le epoche storiche non sono mai del tutto buone, come non sono mai del tutto cattive. In generale, anche nei periodi più neri c'è sempre qualcuno a cui le cose vanno meglio. Sicchè, potremmo dire che fino al 1820 ci fu una lenta ripresa, segnata in negativo da pessime annate di raccolti agricoli e da una diminuzione del potere d'acquisto dei salari in generale, ma contrassegnata in positivo da un formidabile sviluppo dei settori tessile e siderurgico.
Ciò non deve ingannare, tuttavia, circa la rapidità con cui avvenne la trasformazione. Come scrive Landes: «Un tempo l'avvento del sistema di fabbrica veniva raffigurato come un cataclisma, che aveva travolto il vecchio ordine e trasformato l'industria inglese nel giro di una generazione. Tale fu certamente l'impressione dei contemporanei, che impegnati in un'aspra polemica sulle conseguenze sociali della trasformazione tecnologica forzavano inevitabilmente le tinte e vedevano tutto in bianco e nero.» (Landes, cit)
In realtà, la fine di molte imprese di vecchio tipo coincise con l'avvio di altre, spesso un misto di vecchio e nuovo. Ancora Landes nota: «La costruzione e la manutenzione delle macchine, in particolare fece sorgere una folla di piccole ditte artigianali; e in generale la grande industria trovò conveniente per ragioni di razionalità economica dare in subappalto buona parte di questi lavori.» (Landes, cit.)
Tensioni sociali e politiche
Nel frattempo la gente non stava a guardarsi morire di denutrizione. Ci furono tensioni sociali molti più forti ed estese di quelle registrate nel '700 ed esse si unirono in qualche modo, alla crescita di un movimento politico radicale, legato in parte alle idee di Jeremy Bentham ed al gruppo dei "filosofi utilitaristi", senza tuttavia saldarsi con esso. Bentham e James Mill riuscirono ad accattivarsi l'appoggio di alcuni leaders moderati delle associazioni operaie. Si fece persino strada, in controtendenza alle stesse idee liberiste di Bentham e Mill, una prudente teoria dell'intervento pubblico, che Bentham, tuttavia limitava alle municipalità, volgendosi principalmente a battere l'antica corruzione dei funzionari locali provenienti dalle file della gentry.
Phyllis Deane descrive questo momento come una sorta di paradosso in cui le ragioni empiriche e tattiche consigliarono in un modo opposto a quelle teoriche e strategiche, ovvero le convinzioni più profonde.
I liberisti seguaci di Adam Smith continuano a parole a propugnare il laissez-faire, e la completa liberalizzazione dei mercati. In realtà, si vedono poi costretti a reclamare la regolamentazione pubblica . Scrive la Deane: «Ciò che appare strano è il fatto che una rivoluzione del ruolo pubblico, che rappresentò gli inizi del collettivismo e del moderno stato del benessere (Welfare), si sia verificata in una comunità i cui articolati pregiudizi politici erano nettamente in contrasto con tale tipo di sviluppo. Ciò accadde - spiega la Deane - grazie all'esistenza di forti pressioni latenti che si dimostrarono, alla fine, irresistibili. Vi erano, per esempio, le pressioni ideologiche collegate al diffondersi di dottrine utlitaristiche fra le classi colte. Essi affrontavano queste teorie come se intendessero indebolire il potere dello stato, poiché simpatizzavano con la dottrina di Adam Smith della "mano invisibile" ed attaccavano costantemente il complicato ed inefficiente sistema delle regolamentazioni pubbliche che caratterizzava la tradizionale società pre-industriale. Il reale obiettivo dei radicali filosofeggianti, tuttavia, si dimostrò essere come non la libertà dal governo ma la libertà da un governo non efficiente; ed efficienza significava un intervento efficace e deliberato nel sistema economico in contrapposizione ad un intervento inefficace e senza precise finalità.» (P. Deane,cit)
Mettere così le cose, tuttavia, rischia di oscurare una dinamica di conflitti e tensioni assai più complessa. George Macauley Trevelyan ne da un saggio particolare privilegiando il momento etico-sociologico: «Molti dei più ricchi - banchieri, mercanti di antica solidità e capitalisti risparmiatori, con le loro famiglie - condividevano le idee politiche tory della "buona società", nella quale sapevano di essere ammessi e di poter prendere moglie, e dalla quale si compravano seggi in Parlamento e gradi dell'esercito. Ma molti degli industriale di nuovo tipo, essi stessi o i loro padri usciti or ora dalla condizione di yeomen o di operai, più spesso che no "dissenzienti" in fatto di religione, coi pensieri sempre rivolti all'opificio fabbricato in riva a qualche fiume dei monti Pennini, odiavano l'aristocrazia...» (G. M. Trevelyan,cit.)
Ma anche questo schizzo non sembra sufficiente a descrivere cosa "bolliva nel calderone" e cosa accadde realmente.
Secondo C. Harvie, ad esempio, la percezione che aveva la gente in generale era che lo stato (come abbiamo già scritto nel precedente capitolo) era diventato molto più classista, stava dalla parte dei più forti, e la legge veniva usata per reprimere ogni istanza di protesta. Questo indignava anche radicali moderati (e sostanzialmente non democratici come Bentham), al punto che - scrive Harvie - «il governo tory post-bellico, dopo il 1815 si scontrò con un nuovo schieramento di letterati radicali. L'amministrazione di lord Liverpool (1812-1827) in effetti ebbe caratteri decisamente borghesi, poiché ne facevano parte rappresentanti della piccola gentries, i rampolli di medici e commercianti e persino un'attrice nella persona di George Canning.» (K. O. Morgan e AAVV, cit.)
Harvie si pone una domanda che qui cerchiamo di riassumere: come mai non si realizzò una saldatura, una specie di alleanza tra la nuova borghesia insoddisfatta, le istanze dei radicali e le nascenti organizzazioni operaie?
La risposta di Harvie è questa: «Sarebbe potuto accadere effettivamente, se l'azione fosse stata coordinata, se fosse esistita una causa economica comune a far da nesso tra i lavoratori dell'industria, i radicali parlamentari e i capitalisti meno conservatori, e se i ceti dominanti avessero davvero perduto l'autocontrollo.» (K. O. Morgan e AAVV, cit.)
In realtà, ciò non si verificò se non negli auspici di qualche "testa illuminata", come quella del leggendario Tom Paine, cantato da Hobsbawm, ma non abbastanza pronta per dar luogo ad unità organizzative efficienti. I nuovi borghesi temevano il movimento operaio organizzato forse più di quelli vecchi, e diffidavano anche dei radicali. L'opposizione whig, tutto era, tranne che sinceramente democratica. Era inoltre decisamente schierata contro gli eccessi, la violenza ed i disordini, quelli che per capirci, scoppiarono a Manchester il 16 agosto 1819, durante una manifestazione. La cavalleria dell'esercito caricò la folla radunatasi a St. Peter's Field e ci furono 11 morti tra i civili. L'evento passò alla storia col nome sinistro di Peterloo, una Waterloo al contrario. La successione dei fatti non è chiara, ma sembra che già allora fosse di moda l'infiltrazione di spie ed agenti provocatori inviati dal governo e che quindi si sia trattato di un vero e proprio agguato teso dal governo ai progressisti per alimentare il clima di tensione e quindi l'invocazione all'ordine da parte dei ceti più conservatori.
L'anno successivo la storia si ripetè con una sollevazione di tessitori in Scozia e la "congiura di Cato Street" a Londra. Qui alcuni estremisti si erano addirittura proposti di assassinare i membri del gabinetto.
Era inevitabile che, mancando di una testa politica unitaria e di un coordinamento, l'agitarsi delle forze in qualche modo identificabili come progressiste finisse col dimostrarsi vano e persino controproducente. La resistenza alla riforma elettorale propugnata dai radicali per estendere (in modo molto moderato, per la verità) il diritto di voto ebbe buon gioco di fronte alle nuove violenze di Nottingham Castle e dell'assalto al palazzo vescovile di Bristol.
Bisognerà arrivare al 1832 per avere un timidissimo tentativo di riforma, in tempi che peraltro la richiedevano imperiosamente.
Nel frattempo le tensioni sociali e politiche aumentarono, anzichè diminuire ed è molto interessante la lettura che ne ha fatto Ashton.
Innanzitutto, egli ha inquadrato con grande precisione le ragioni di fondo dei conservatori, poi come vedremo più sotto, egli ha fatto un'analisi acuta anche delle lotte operaie che concorda con le preziose considerazioni di Hobsbawm. «Si faceva rilevare, non senza ragione,- scrive Ashton - che le classi rurali, attraverso l'imposta fondiaria, le decime ed i tributi per i poveri, già sopportavano la maggior parte del costo delle istituzioni pubbliche e religiose; e si sosteneva, con minor fondamento, che i servizi politici prestati dai proprietari terrieri conferissero loro il diritto a un trattamento speciale da parte dello Stato.» (Ashton, cit.)
Non a caso, la richiesta che accomunava nuovi e vecchi borghesi agli stessi proprietari era la rimozione dell'imposta sul reddito introdotta per far fronte alle spese di guerra.
Il nodo della finanza e delle banche
Ciò tuttavia, non era realisticamente possibile anche in considerazione di un altro dato non meno preoccupante: oltre al considerevole aumento del debito pubblico, la Gran Bretagna aveva conosciuto un vero e proprio momento di panico nel 1797, quando fu deciso che la Banca d'Inghilterra avrebbe sospeso i pagamenti in oro. La situazione non era nuova, si era già verificata nel 1783, ma in un contesto diverso, cioè dopo la guerra d'indipendenza americana. Le prospettive del 1783 erano ottimistiche, non vi era ragione di preoccuparsi eccessivamente, visto che il peggio era passato, e che, paradossalmente, l'economia britannica avrebbe tratto giovamento dall'indipendenza degli Stati Uniti. Cosa che regolarmente avvenne, fatti salvi i momenti di tensione più acuta ed alla strana guerra del 1812-15. (Un fatto storico di difficilissima spiegazione, se non si ricorre al seguente ragionamento: gli americani non sopportavano che le loro navi dirette in Europa fossero fermate dalle navi inglesi per ispezionare i carichi).
Al contrario, come rileva la Deane, la sospensione dei pagamenti in oro del 1797 cadeva in un quadro del tutto diverso, in piena guerra, di fronte a difficoltà commerciali senza precedenti, dopo il pessimo raccolto del 1795, e di fronte alla abnorme richiesta di oro della Francia.
«Verso la fine del 1795 la domanda era talmente forte a Parigi, che l'oro era valutato 4 sterline e 3 scellini per oncia a Londra, mentre in ghinee si poteva comprare per 3 sterline, 17 scellini e 10 denari e 1/2.» E come ha scritto J.H Clapham : "Il trasferimento diretto era ovviamente illegale, ma avveniva ugualmente. In un modo o nell'altro l'oro usciva ... Nonostante i rischi e i costi di trasporto e i costi di assicurazione, la tentazione di fonderlo o contrabbandarlo era fortissima".
Secondo la Deane, il deprezzamento conseguente della sterlina non fu che modesto, ed in dieci anni il suo prezzo in oro non registrò che irrilevanti fluttuazioni.
Tuttavia, fino al 1821, si ebbe un sistema monetario per così dire "d'emergenza" e solo in quell'anno la Gran Bretagna si avviò a tornare "formalmente e legalmente"alla base aurea.
In sostanza, esistevano problemi di tipo finanziario. Nell'arco di tempo 1809-1830 si registrarono 311 fallimenti di banche di provincia, 179 dei quali concentrati nei due trienni di crisi: il 1814-16 ed il 1824-26. Molto dipendeva dall'estrema vulnerabilità di un sistema bancario asfittico, centrato su leggi che impedivano la costituzione di banche con più di sei soci ed insieme autorizzavano le stesse banche all'emissione di valuta cartacea in sede locale.
Ma la domanda che si deve fare lo storico non può fermarsi alla rilevazione del dato. Questa situazione era o no voluta? Chi favoriva? Chi danneggiava? Perchè ci volle un periodo di tempo così lungo per arrivare ad aprire filiali della Banca d'Inghilterra fuori di Londra? Perché occorse così tanto tempo per capire che era insensato autorizzare l'emissione locale di biglietti di banca? E, soprattutto, perché bisognò aspettare così a lungo per veder sorgere banche private per azioni con più di sei soci?
Di fronte a questi interrogativi, pare piuttosto evidente che ricorrere a categorie come la miopia e l'incapacità, o persino la saggia prudenza (vedi la resistenza alla nascita della società a responsabilità limitatata) non è soddisfacente. Dietro a tali cecità si nasconde sempre la difesa di interessi particolari, il peggiore dei quali è forse la volontà di impedire che altri facciano fortuna e diventino troppo potenti ed influenti. L'insufficienza istituzionale-finanziaria dell'Inghilterra di questo periodo, al di là delle difficoltà reali che abbiamo visto, non si può spiegare diversamente. I detentori del potere reale non si rassegnavano all'idea del loro tramonto.
Le idee dei conservatori
Le idee di costoro erano davvero vecchie.
Si faccia caso, per esempio a come il presidente della Royal Society intervenne per contestare il progetto di legge presentato nel 1807 da Whitbread per dare scuole elementari a tutta l'Inghilterra: "Per quanto attraente possa essere in teoria il progetto di dare l'istruzione alle classi operaie ed ai poveri, sarebbe in pratica nociva alla loro moralità e alla loro felicità; insegnerebbe loro a sdegnare il loro posto nella vita, invece di farne dei buoni servitori in agricoltura o in altri impieghi laboriosi ai quali il loro rango nella società li ha destinati; anziché insegnar loro la subordinazione, li renderebbe riottosi e ribelli, come appariva evidente nelle contee manifatturiere; li metterebbe in grado di leggere libelli sediziosi, libri immorali, e pubblicazioni contrarie alla religione cristiana; li renderebbe insolenti verso i superiori; e in pochi anni il risultato sarebbe che il Parlamento si troverebbe nella necessità di rivolgere contro di loro il forte braccio del potere, e di munire il magistrato esecutivo di leggi molto più efficaci di quelle attualmente in vigore." (fonte: B. Russell - Freedom and Organisation, London 1934)
Non si tratta solo di miopia: evidentemente c'è la precisa volontà di ignorare non solo il diritto all'istruzione rivendicato dai radicali ed in particolare da James Mill, ma anche di contrastare una precisa esigenza dell'industria nascente, che era quella di avere ormai tecnici ed operai specializzati che non solo sapessero leggere, scrivere e far di conto, ma fossero anche in possesso di basilari nozioni di matematica, fisica e chimica.
Se l'aristocrazia si ritraeva inorridita dai nuovi compiti di governo che imponevano i tempi, trincerandosi in posizioni così sordide e meschine, dall'altro lato i radicali incalzavano, mentre le chiese dei protestanti, i cosiddetti dissenzienti, continuavano ad aprire scuole serali sia elementari che tecniche.
... e quelle dei dissenzienti
Così, da un lato abbiamo che proprio gli evangelici furono lo strumento decisivo per dare istruzione ai lavoratori e favorire la loro emancipazione, e dall'altro, come concordano molti storici, essi furono anche il più serio ostacolo al formarsi di correnti eversive e rivoluzionarie. Secondo lo storico francese Elia Halévy, "la religione evangelica fu, durante il XIX secolo, il cemento morale della società inglese. Fu l'influenza degli evangelici che infuse nell'aristocrazia britannica una quasi stoica dignità, che distolse i plutocrati sorti da poco dal seno delle masse della volgare ostentazione e dal libertinaggio, che pose a guida del proletariato un ristretto numero di operai innamorati della virtù e capaci di autodisciplina. L'evangelismo fu così la forza conservatrice che restaurò in Inghilterra un equilibrio momentaneamente distrutto da un'esplosione di forze rivoluzionarie." (Halévy - Histoire du peuple anglais )
Eric Hobsbawm ha in parte rivisto e corretto questo giudizio esaminando la teoria seconda la quale la corrente protestante fondata da John Wesley fu responsabile della nascita di un movimento di lavoratori "evangelici" che giocò un ruolo sostanzialmente conservatore nella dinamica politica britannica. Ma questo è un discorso che riguarda soprattutto gli anni '50 dell'Ottocento. Agli inizi del secolo, il tipo di protestantesimo che allora contribuiva a formare le coscienze e curare le anime, riusciva ad attirare proseliti soprattutto tra gli imprenditori, i mercanti e l'aristocrazia operaia, cioè i lavoratori qualificati. Non tra i minatori, per intenderci, come avverrà invece più avanti.
Lotta dura, senza paura, violenta...ma priva di respiro e senza prospettiva
Ma un serio freno, a mio modesto avviso, se non alla rivoluzione sociale, certo allo sviluppo di un forte movimento operaio, venne dalla mancanza di una teoria sindacale e politica adeguata alla situazione. Nelle associazioni operaie, peraltro proibite e quindi fuorilegge nel periodo che stiamo considerando, prevalsero forme di lotta violente che contribuirono ad isolare i lavoratori dal resto della società ed in alcuni casi anche dall'insieme degli stessi lavoratori, i quali non sono mai contenti di entrare in lotta e proclamare scioperi, visto che i primi a rimetterci, in uno sciopero sono i lavoratori stessi. Ma quando si è alla disperazione, quando non si trovano più né appoggi, né comprensione in cielo ed in terra, soprattutto in terra, è quasi inevitabile la degenerazione della protesta in forme violente. Marx non era ancora nato quando qualcuno fece il calcolo che la battaglia contro i luddisti ed i distruttori di macchine aveva impegnato 12.000 uomini in giubba rossa, ovvero un numero di soldati superiore al corpo di spedizione impiegato da Wellington in Spagna per sostenere la guerriglia antinapoleonica.
Era come riconoscere che il vero fronte di guerra si trovava all'interno, e che lo stato inglese era impegnato come mai prima di allora a domare una rivolta sociale senza precedenti.
Eric Hobsbawm ha studiato a lungo la vicenda del movimento operaio inglese, giungendo a conclusioni molto interessanti. Ci fu, è vero, in un certo momento, una corrente organizzata di luddisti (dal nome del leggendario capo operaio Neil Ludd) che teorizzava e praticava la sistematica distruzione delle macchine per impedire ed ostacolare in ogni modo la meccanizzazione, l'aumento dello sfruttamento e lo spettro della disoccupazione. Ma questo tipo di movimento, semi-clandestino e numericamente non rilevante, non va confuso con un movimento operaio più generale e più diffuso che ricorse alla distruzione delle macchine e degli impianti unicamente come forma di lotta. In sostanza - dice Hobsbawm - si usò la violenza come forma di pressione, ed anche come risposta alla violenza dello stato, per ottenere un aumento salariale ed una riduzione dell'orario.
I cimatori del Wiltshire nel 1804 bruciarono cumuli di fieno, granai e canili di fabbricanti di stoffe, abbatterono i loro alberi e devastarono i loro orti, distruggendo infine i magazzini ove era custodita la merce.
Hobsbawm parla quindi a ragione di una tecnica definita elegantemente"contrattazione collettiva per sommossa". Troppo elegantemente per i miei gusti e la mia sensibilità, che è proletaria per condizione sociale e non per adozione elettiva.
«La distruzione era semplicemente una tecnica del sindacalismo del periodo precedente la rivoluzione industriale e durante le sue prime fasi.» (Hobsbawm, cit.)
Fu una forma di lotta ampiamente utilizzata soprattutto contro i piccoli e medi proprietari che non godevano di particolari attenzioni da parte dello stato..
«Ma la tecnica - scrive Hobsbawm - aveva ancora un altro vantaggio. La pratica della solidarietà, che è la base di ogni sindacalismo efficace, richiede del tempo per affermarsi, anche là dove, come avviene nelle miniere di carbone, tende a formarsi naturalmente. Richiede anche più tempo per diventare parte dell'indiscusso codice morale della classe operaia. Per esempio il fatto che nelle East Midlands operai di telai per la maglia, per quanto sparsi, riuscissero a organizzare scioperi efficaci contro le fabbriche dimostra un alto livello di "etica sindacale"; più alto di quanto ci si potrebbe aspettare normalmente a quel livello di industrializzazione. Inoltre tra uomini e donne malpagati e senza cassa di resistenza per gli scioperi è sempre vivo il pericolo dei crumiri. La distruzione delle macchine era uno dei metodi migliori per combattere queste debolezze.» (Hobsbawm, cit.)
In un impeto di entusiasmo, lo storico inglese ritiene che questo tipo di lotte ebbe una certa efficacia. Francamente mi sembra alquanto improbabile. Può essere che in alcuni casi, qualche piccolo ed isolato proprietario abbia dovuto cedere sotto la paura ed il ricatto di perdite ancora maggiori. Ma nell'insieme, la mia impressione e la mia esperienza dimostrano solo che l'estremismo e la violenza non hanno mai procurato alcun serio vantaggio alla contrattazione. Possono aver giovato sul breve periodo e di fronte ad avversari "deboli" ed impauriti; ma non sui tempi lunghi. Possono, inoltre, come accadde negli Stati Uniti per qualche "sindacato" del tutto particolare, aver tratto qualche vantaggio dai rapporti con la malavita e la mafia. Ma questi "sindacati" non vivevano di democrazia ed operavano a loro volta in modo mafioso, imponendo agli imprenditori l'assunzione di soli "raccomandati" dallo "zio".
Il vero problema del movimento dei lavoratori a cavallo tra Settecento ed Ottocento e nei primi decenni dello stesso Ottocento, fu quello di non trovare alcun leader veramente dotato di capacità politica-sindacale ed insieme sufficientemente istruito in questioni di tipo teorico quali la filosofia politica e le analisi economiche.
Solo con Hodgkins, uno studioso ampiamente apprezzato da Marx, con Owen e con i socialisti "ricardiani", cominceranno ad emergere una teoria economica ed uno spessore politico degni di questo nome, che tuttavia faticarono a diventare "verbo e vangelo" tra i lavoratori.
Le lotte, in tutta questa fase, non furono mai indirizzate a conquistare vantaggi, a partecipare a profitti, ma solo a rivendicare pane a buon mercato e lavoro meglio pagato.
Furono cioè lotte difensive, dall'orizzonte e dal respiro piuttosto ristretto, senza che qualcuno riuscisse a convincere in modo decisivo i capi operai che abolire la legge sul grano che imponeva dazi alle importazioni dall'estero di frumento avrebbe contribuito ad abbassare il costo della vita in Inghilterra.
Questa volta ha quindi ragione Hobsbawm nel rilevare il carattere del tutto occasionale e congiunturale delle sommosse dei lavoratori. Esse non contestavano il sistema ma solo le sue debolezze nei momenti di difficoltà.
Tale considerazione è presente anche in Ashton e in Labrousse.
«Le depressioni - scrive Hobsbawm - iniziavano allora essenzialmente nel settore agricolo - in genere per il raccolto cattivo - e si ripercuotevano sul settore industriale attraverso la carenza di materia prima; ma soprattutto attraverso la contrazione della domanda nazionale che era essenzialmente agricola. Di conseguenza, in periodi di prezzi da carestia, tendeva a verificarsi un alto grado di disoccupazione, creando una situazione che quasi costringeva i lavoratori all'agitazione e alla rivolta. Possiamo aggiungere che, mancando i sindacati e non esistendo ancora la politica dell'occupazione che venne adottata, quando lo fu, soltanto molto più tardi, le depressioni portarono normalmente a diminuizioni drastiche dei salari per i lavoratori di fabbrica meno specializzati e a forti cadute dei guadagni per la vasta zona poco conosciuta di artigiani semiindipendenti e lavoratori a domicilio.» (Hobsbawm, cit.)
Non troppo diversa è l'analisi di Ashton, secondo il quale i principali insoddisfatti erano i lavoratori ancorati al vecchio sistema produttivo, abituati a guadagnare più degli altri: i cimatori dello Yorkshire, i magliai di Nottingham e i tessitori a mano del Lancashire. «Sottoccupati e denutriti, questi uomini non andavano troppo per il sottile alla ricerca delle cause della loro miseria, ed era abbastanza naturale che se la prendessero con le macchine che sembravano togliere loro il pane di bocca. Certamente, una parte della disoccupazione era conseguenza delle innovazioni tecniche; ma la vera causa di disordini ce la indica la cronologia delle rivolte. Fu nel 1811, e ancora nel 1816, quando le vicende politiche e i cattivi raccolti provocarono una crisi, che i "luddisti" distrussero le macchine da maglieria nei Midlands e i telai a vapore nel Nord; fu nel 1817 che i blankeeters, affamati e senza lavoro, iniziarono la loro triste marcia da Ardwick Green; e fu nel 1819, quando ancora una volta il pane era scarso e l'attività produttiva in ristagno, che i gruppi operai dei "riformatori del Lancashire" si riunirono e patirono a St. Peter's Field.» (T. S. Ashton, cit.)
Certo, una teoria consona agli interessi fondamentali della povera gente che desidera lavorare per mantenersi e migliorarsi, anzi due, proprio in quegli anni cominciò a vagire. Era il momento di Cobden e di Owen, un liberale imprenditore ed un socialista capitalista. Ne parleremo nella prossima puntata.
9 gennaio 2005 - Guido Marenco - su questi files esiste il copyright - possono essere riprodotti solo su permesso dell'autore