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Contro il relativismo - Quale relativismo?
Giovanni Jervis - Contro il relativismo - Laterza 2005
di Guido Marenco
Mentre Richard Rorty e Gianni Vattimo intrecciano garbati passi di danza a favore del pensiero debole, del pragmatismo antimetafisico deweyano, della fede "genuina" e della filosofia dell'amore (1), suscitando non poche perplessità anche di ordine storico (perché mettere insieme Dewey e Derrida non sembra del tutto corretto), autorevoli esponenti del pensiero forte scendono in campo, in vario modo, ed anche con varia efficacia, per argomentare a favore di una razionalità forte, capace di avere ragione della realtà.
Ciò significa che sul terreno del relativismo si sta giocando un'importante partita culturale e politica (già, anche politica!).
Il relativismo di Rorty e Vattimo è dichiaratamente di sinistra. L'antirelativismo di Pera tira verso destra.
Possiamo rassegnarci ad una sinistra relativista, dominata dal pensiero debole?
Ce ne scampino tutte le potenze celesti! Fortuna vuole che sia apparso tempestivamente questo libro di Jervis, che riapre la partita su un terreno decisamente meno parziale di quello imposto da Marcello Pera.
Del libro di Marcello Pera e Joseph Ratzinger si è occupato Renzo Grassano, con foga forse eccessiva, ma lungo linee sostanzialmente condivisibili.
La forza spirituale dell'Europa non sta nel fanatismo per sé stessa, ma nella sua capacità autocritica, nel suo distanziarsi ed estraniarsi da sé stessa. Mettere in un unico calderone tradizioni politiche, modelli di vita, pensiero filosofico e teologie non aiuta a discernere e non procura alcun buon orientamento.
Tuttavia, il problema del relativismo esiste e non credo che sia stato costruito ad arte dai suoi avversari. Ne fa fede questo libro di Giovanni Jervis, testimonianza lucida di un percorso critico che mette a fuoco la questione relativismo in modo più equilibrato e stimolante di quanto abbiano fatto Pera e Ratzinger.
Un merito indubbio di Jervis, ad esempio, è quello di aver mostrato che esiste un relativismo antiscientifico per il quale la scienza non è che un ordine inferiore della conoscenza, prossima alla convenzionalità. Questa riflessione è appena accennata in Pera, il quale preferisce inseguire la convergenza tra razionalità laica e cattolica, dando per scontati in modo disinvolto valori comuni e fondanti, convergenze troppo parallele per incontrarsi davvero. Eppure, questo tipo di relativismo è comune sia a pensatori metafisici come Bergson, sia all'area di destra laica e religiosa, persino a momenti non secondari del pensiero liberale, come quello rappresentato da Benedetto Croce, che dovrebbe essere prossimo a Pera, ed invece no.
Pera, in sostanza, crede che tra pensiero occidentale e sistema politico e socio-economico dell'Occidente esista una totale coincidenza di fini e valori e che pertanto sarebbe doveroso per un "ragionatore occidentale" schierarsi a spada tratta per la superiorità dell'Occidente, indipendentemente dalla sua collocazione sociale e politica, nonchè dalle sue opinioni sulla liceità morale, ad esempio, della guerra preventiva. E' davvero chiedere un po' troppo. E non perché le ragioni del "rancore" sarebbero più forti di quelle del presente, ma perché lo stesso presente non è molto distante da una riconferma delle ragioni del "rancore".
L'Occidente ha allevato nel suo seno serpenti come lo sfruttamento industriale di donne e bambini, lo schiavismo, il razzismo, il nazionalismo, il colonialismo, il totalitarismo, il disprezzo della natura, la disuguaglianza naturale dei diritti, l'uso politico della religione e della teologia. In sostanza, ha praticato l'uso strumentale dell'uomo da parte di altri uomini denunciato da Kant. Non è che oggi ne sia del tutto fuori. Il terrorismo "islamico" è stato allevato e finanziato in chiave anticomunista dal Pentagono. Cosa costa riconoscerlo? Non è che questa autocritica aiuti? Non è che ammettere che ricorrere a mezzi immorali incrementi l'immoralità e che sarebbe ora di smetterla una volta per tutte?
Francamente, mi pare che la forma più rischiosa di relativismo sia quella di azzerare la storia.
C'è una tradizione nel pensiero occidentale, che non è il pensiero occidentale ma solo una parte di esso, che ha preso sempre coscienza di questa prassi erronea e malvagia, avanzando forti elementi di critica e autocritica.
E' perciò evidente che la questione non sta se schierarsi per l'Occidente, per la democrazia e la tolleranza, ma a quali fini lavorare, cioè a quale pace, quale democrazia e quale tolleranza, a quali dinamiche sociali. Poi entra in gioco il come. Stare nella tradizione del pensiero occidentale può dunque significare cose molto diverse. Se non ci interessa la pace dei cimiteri ma quella della vita, non possiamo seguire Bush e Pera. Però possiamo decidere di discutere con Ratzinger..., e visto che stiamo già discutendo con Rutelli, il passo è breve.
Il libro di Jervis
Direi subito che questo è un altro libro, un altro testo, un altro modo di ragionare. Procede contro il relativismo in modo problematico, evidenziando le questioni reali che esso ha aperto, e non negando, a priori, un suo apporto originale.
Una sorta di pre-testo è costituito dai ricordi del lavoro in comune con Ernesto De Martino, avente per oggetto il fenomeno del tarantismo in alcune zone della Puglia. Jervis è abile nel legare due atteggiamenti apparentemente contraddittori quali il positivismo razionalista che considera i fenomeni magico-rituali come una superstizione, e l'interesse appassionato per questo tipo di fenomeni che ritornano in varie forme e non sono mai scomparsi del tutto anche nei paesi più civili. Ad essi aggiunge il prezioso condimento dell'atteggiamento terapeutico, dell'interrogarsi dello psichiatra di fronte alla malattia psichica ed all'eventuale disagio sociale che essa esprime.
"... le idee di De Martino - ricorda Jervis - ci aiutano a non perdere l'orientamento negli incontri fra i popoli, in primo luogo per merito del suo concetto di 'etnocentrismo critico'. Qualsiasi studioso, egli diceva, se incontra culture lontane non dovrebbe illudersi di poter rinunciare alla propria collocazione storica e culturale: salvo peraltro, essere capace di esercitare un distanziamento critico anche nei confronti della propria cultura."
" Non si può porre la propria civiltà accanto alle altre, e tutte considerarle come prospettive alla pari... Non si vince così il provincialismo culturale: si deve dialogare col mondo, ma la propria parte bisogna conoscerla bene, altrimenti si rischia di cadere in un enorme pettegolezzo, in un chiacchierare ambiguo e sciocco, in un camaleontismo che simula l'apertura e la varietà di interessi, ma che è soltanto la maschera di una abdicazione senza limiti."
Jervis non dice dunque, espressamente, che la civiltà occidentale è superiore. Comincia a constatare, tuttavia, che lo scienziato e lo studioso occidentale possono vantare non tanto dei titoli accademici, quanto un atteggiamento e delle chiavi di lettura capaci di scardinare molte porte. Stanno al di sopra, epistemicamente, non in virtù di un dono divino, o delle loro radici cristiane, ma grazie ad un esperienza maturata sul campo, una conoscenza estesa e critica, anche nei confronti di se stessa. Al punto che, tanto per esemplificare l'atteggiamento dell'antropologo equilibrato nei confronti dei fenomeni magico-ritualistici, egli giunge a dire: "... è difficile trovare l'atteggiamento mentale giusto su temi del genere, o almeno un modo di porsi che sia più equilibrato di altri. A guardar bene, questo tipo di difficoltà dovrebbe inquietare più sovente il corso dei nostri pensieri".
Ecco dunque la differenza: dove il testo di Pera procede con baldanzosa sicurezza, Jervis non evita gli scrupoli, anzi li allinea meticolosamente davanti a sé, tant'è che "Di contro all'oggettivismo ingenuo che fu la debolezza dei positivisti, la filosofia e la sociologia della scienza hanno dimostrato che importanti fattori di precarietà fanno parte del mondo della ricerca. Sia quando vogliamo analizzare la logica del ragionamento scientifico, sia quando esaminiamo la concretezza della vita degli scienziati, scopriamo che le formulazioni descrittive della realtà, a cui essi giungono, dipendono non solo dalla forza dei dati verificabili ma anche da scelte, da accordi, da consensi, da convenzioni, perfino da costrutti metaforici. In questo senso la posizione dei relativisti non è che l'estremizzazione di una tematica più generale: per cui, semplificando un po' le cose, si potrebbe dire che mentre tutti i filosofi e sociologi della scienza sanno bene che esiste una quota ineliminabile di convenzionalità nella spiegazione scientifica, i relativisti tendono a sostenere che la scienza è solo questione di convenzioni."
Jervis, nel catalogare e classificare le forme del relativismo, segue le stesse tracce di Pera. Ma anziché perdersi in scaramucce con Derrida, preferisce andare dritto al sodo, inventandosi un dialogo tra l'empirista ed il relativista che ha il difetto di risultare stereotipato ma, allo stesso tempo, presenta il pregio di mostrare quanto il relativista sia in genere sordo ad ogni vero richiamo al dialogo, e preferisca il monologo.
Grande protagonista della scena relativista è l'ermeneutica che "persegue un particolare progetto di conoscenza: ha per oggetto qualcosa che è fluido, complesso e non riducibile a dati misurabili. L'ermeneutica si occupa di tutte le situazioni in cui un testo (oggettivo) non è separabile dal suo 'vissuto' esperienziale (soggettivo). Per esempio, nella lettura di un sonetto del Foscolo da parte di una persona dotata di sensibilità poetica, oppure nella meditazione su una epistola di san Paolo da parte di un monaco nella sua cella, l'ermeneutica coglie la propria essenza in locuzioni come 'risonanza affettiva', 'libertà interpretativa', 'evocazione e creatività d'immagine', 'incontro ideale tra intenzioni dell'autore e intenzione del lettore'."
Jervis coglie nell'ermeneutica una tendenza ad estendere il campo del proprio oggetto a tutte le forme di conoscenza, arrivando con Gadamer a proporsi come alternativa totale all'epistemologia.
Ma il vero nodo che individua Jervis è che il relativismo è un atteggiamento facile da individuare e difficile da colpire. Malgrado le articolazioni e le dispersioni, sarebbe "non privo di compattezza", "capace di esercitare il suo influsso su discipline scientifiche disparate come sulla vita quotidiana di tutti noi." Lo troviamo "spalmato" in luoghi secondari, in articoli di quotidiani, in interviste, in dissertazioni marginali. "Sono ovunque intorno a noi. E questo conferma un fatto: il relativismo non è una filosofia. E' una ideologia diffusa."
Il relativismo non si esprime, secondo Jervis tanto nella cultura primaria, il livello di produzione delle idee, quanto in quella definita secondaria, cioè nel consumo delle idee stesse. Si tratta di un'osservazione interessante, ma non sufficientemente svolta. Io non credo al fatto che il relativismo sia veramente diffuso al di fuori di un certa sinistra intellettuale orfana del marxismo e quindi alla disperata ricerca di pensieri nuovi. Inoltre, sarà capitato a tutti di pensare relativisticamente, pur non avendone l'intenzione. E' successo anche a me, continua a succedere quando insisto fino alla nausea sulla necessità di contestualizzare; solo che a differenza di Pera, non confondo il contesto ed il relativo; mi pare siano due cose profondamente diverse. Una testa d'epistemologo, così come una testa di scienziato, non può rinunciare al contesto, cioè all'esame delle condizioni che rendono possibile qualcosa, senza precipitare nell'errore opposto al relativismo, e cioè l'assolutismo.
Questo è un errore che Jervis non commette.
Ricostruendo le tappe della diffusione del relativismo, egli osserva che ciò fu favorito da un serie di delusioni. La speranza nella tecnica, la speranza nei sogni di giustizia sociale creati dal comunismo, la fine ingloriosa del più modesto desiderio socialdemocratico di uno stato assistenziale dai costi insostenibili.
Tutto ciò avrebbe favorito nella cultura di massa l'irruzione dell'irrazionale, il ritorno a credenze e superstizioni, un malinteso senso del tramonto della razionalità illuminista, che favorì, ad esempio, il successo dei libri di Carlos Castaneda, sedicente antropologo.
L'antropologia di Jervis
Del resto, proprio nell'antropologia, si è insinuata l'ideologia relativista. Jervis muove da una domanda interessante: "La scoperta della sostanziale unità psicologica della mente umana sta dunque alla base del relativismo culturale? Ebbene, e questo potrebbe sorprendere, bisogna rispondere di no... [...] I relativisti, in altre parole, non si riallacciano all'universalismo, figlio del pensiero laico all'epoca dei Lumi: al contrario, hanno un'idea particolaristica e romantica dei popoli e dei paesi. Non credono che i modi di ragionare siano ovunque gli stessi; preferiscono ritenere che differiscano, e molto, a seconda delle culture. Per loro, la forza della diversità prevale sui diritti dell'uguaglianza."
All'origine di questa tendenza sta ovviamente Franz Boas, il padre dell'antropologia dell'uguaglianza razziale. Ma il suo totale fraintendimento da parte di Ruth Benedict, Margareth Mead ed anche Gregory Bateson (marito della Mead) portò a posizioni relativiste. "Margaret Mead e Gregory Bateson si ingegnarono a sostenere che le emozioni, contrariamente a quello che aveva precisato Charles Darwin, non sono l'espressione naturale del substrato biologico della mente ma nascono anch'esse dalle convinzioni culturali e quindi andrebbero studiate come un aspetto della infinita variabilità dei modi di esprimersi."
" A sostenere le illusioni culturaliste persistevano vecchie nozioni di biologia, secondo le quali gli aspetti istintuali della natura umana sarebbero esclusivamente orientati all'insensibilità ed alla prepotenza, mentre la cooperazione e l'altruismo nascerebbero soltanto dalla coscienza e dalla civiltà."
"Gl studi sui fondamenti della cooperazione - sia animale sia umana - hanno dimostrato in modo esauriente che le forme più complesse di dedizione e di compassione si sviluppano non già contro le disposizioni 'biologiche' e 'istintuali' (ingenuamente credute asociali) dell'individuo, ma a partire da bisogni innati, biologicamente fondati, di socialità, solidarietà e reciprocità."
Individuati in Abraham Maslow, Edwin Lemert e Howard Becker i maestri negativi della "sociologia della devianza", poco più di una rinascita di Rousseau e del "buono di natura corrotto dalla società", Jervis è fermo nel sostenere che nelle malattie psichiche e nei disturbi mentali, nelle devianze di tutti i generi, comprese quelle socialmente pericolose, quindi comprese le paranoie, si "presentano aspetti costanti e sono quasi altrettanto universali, attraverso le culture, di quanto lo siano le malattie somatiche."
Indica negli studi di John Tooby e Leda Cosmides una pista per l'avvenire. La metafora del "coltellino svizzero" sarebbe la più appropriata per descrivere le nostre facoltà mentali, "comprese le più evolute ed astratte". Tutti gli arnesi compresi nel coltellino con la crocetta bianca su sfondo rosso sono utilissimi per fare mille cose, ma non tutte. Ciascuna di esse, infatti ha i suoi impieghi ed i suoi limiti. Ed è questo, in fondo, il messaggio finale: il cervello umano è in grado di elaborare "arnesi per la comprensione" via via superiori e complessi. Qualcosa di più acuto e penetrante di un coltellino svizzero.
(1) Richard Rorty e Gianni Vattimo - Il futuro della religione - Garzanti 2005
gm - 2 giugno 2005