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John Rawls - La teoria della giustizia - 3
di Daniele Lo Giudice
Possiamo sentire la giustizia come un bene, o per meglio dire, un "valore"?
Rawls, affrontando nella terza parte del libro il problema dei fini che una società giusta deve consentire di realizzare, ad ognuno come a gruppi diversi, sembra credere in quella che a noi potrebbe apparire una sorta di tautologia: una società giusta favorisce lo sviluppo del sentimento di giustizia.
Questione di abitudini?
C'è in Rawls, come del resto in molti autori americani, un residuo di comportamentismo, ovvero di quella teoria psicologico-sociologica che teorizza di premiare i buoni comportamenti e punire o, quantomeno, disincentivare quelli cattivi?
Forse non è questo il punto fondamentale, ma qualche sospetto in merito potremmo nutrirlo.
Pratiche di giustizia non possono che incentivare atteggiamenti conformi e derivati. La società giusta premia i meritevoli. Tutti godono delle stesse opportunità educative e formative; si può dunque parlare di meritevoli a ragion veduta, senza scadere nella assurda retorica delle società ingiuste i cui sostenitori vorrebbero frci credere che i meritevoli (cioè i leccapiedi dell'iniquità) vanno comunque avanti.
Per Rawls, the Primary Goods, giustizia e libertà sono valori che si autoincrementano nella coscienza dei singoli, giacché ognuno tenderà a dare quanto egli stesso ha ricevuto, essendo libero sia di ricevere che di dare.
«Rawls rifiuta sia le spiegazioni utilitaristiche ed empiristiche che quelle razionalistiche ed intuizionistiche del senso di giustizia e propone una sua spiegazione che potremmo definire storico-sociale.» (1)
Analizzando le fasi con le quali matura il senso di giustizia nei singoli individui, egli ne evidenzia tre in particolare: l'esperienza della famiglia, quella delle associazioni ed infine l'esperienza sociale vera e propria.
Nella fase familiare si parla di bambini. I fanciulli apprendono una "moralità autoritaria" (che non necessariamente ha valore negativo) in quanto considerano i genitori autorità cui obbedire, perchè credono sia "giusto" farlo.
Se il bambino si sente amato, quindi protetto e sicuro, ama a sua volta, ed è per questo che obbedisce perché comincia a capire che questo è il suo bene.
Qui si pone, in sostanza, la prima cellula del complesso edificio che andrà a costituire la coscienza sociale.
L'esperienza associativa che il ragazzo comincia a fare a scuola e tra amici finisce col produrre uno spostamento di interessi e la conseguente nascita di una "moralità associativa", la quale è spesso precaria e non sempre propone massime alle quali obbedire. Non necessariamente, quindi, l'esperienza associativa è una fase di crescita positiva. Secondo me, le obiezioni ad un Rawls troppo ottimista su questo punto sarebbero ultrafondate.
E' solo nella fase "sociale" vera e propria che l'individuo matura i propri principi morali e perviene a quell'autonomia che corrisponde alla libertà di fare pienamente le proprie scelte, non per emulare questo o quello dei fighetti che lo hanno ispirato nella fase associativa come ideali dell'io.
Nel contesto più ampio della società giusta, tutti saranno liberi di professare le loro convinzioni e seguire own way, la propria via, perché l'unanimismo non potrà mai germinare spontaneamente, specie in società sempre più complesse.
L'individuo razionale e libero, cittadino della società giusta, potrà dunque perseguire il proprio bene e la propria eccellenza con la scelta di "un piano razionale di vita" compiuto in maniera del tutto "autonoma", anche se in base alle concrete opportunità offerte dall'organizzazione sociale.
Rawls si ispira espressamente alla teorizzazione aristotelica dell'Etica Nicomachea secondo la quale gli esseri umani preferiscono le attività più razionali e complesse a quelle più semplici. In altre parole, gli esseri umani provano un maggior piacere nell'esercitare le loro abilità intellettuali, "quando aumenta la loro competenza... e il loro piacere aumenta via via che la capacità si realizza o cresce la sua complessità." Ciò pare a Rawls un'attitudine quantomeno diffusa. Francamente, visto come vanno le cose in Italia attualmente (dove le attività più complesse sono considerate quelle di Totti, Cassano, Bonolis, Pappalardo e Irene Pivetti) avrei qualche dubbio!
A trent’anni dalla pubblicazione di Una teoria della giustizia, John Rawls ritornerà sull'insieme delle questioni con quella che potremmo considerare la versione definitiva della sua teoria con l'opera Giustizia come equità/Una riformulazione.
Scriveva Salvatore Veca nella nota introduttiva che giustizia come equità è "il frutto maturo della lunga e tenace ricerca filosofica di Rawls che dalla metà degli anni Settanta alla fine del secolo appena concluso si è impegnato puntigliosamente nel riformulare ed esplicitare aspetti importanti della teoria della giustizia, rispondendo ai suoi critici e rivedendo in particolare alcuni errori presenti nella prima formulazione della teoria. La riformulazione della giustizia come equità mira in primo luogo a rendere coerente la teoria normativa e i suoi principi di giustizia per l’assetto delle istituzioni di base della società con la questione del pluralismo come tratto persistente delle società democratiche [...]. Ancora una volta la filosofia politica di Rawls, nella sua riformulazione, chiama in causa la responsabilità intellettuale di chiunque abbia a cuore la qualità della forma di vita democratica".
Rawls constata innanzi tutto che la società non si è nel suo insieme avvicinata all’ideale della giustizia come equità; semmai se ne è allontanata, ma le sue idee conservano tutta la loro forza, nonché la loro pertinenza ai dibattiti di una società pluralistica sul significato e la vitalità del liberalismo.
Doveva inotre fare i conti con le principali obiezioni incontrate, in primo luogo quelle del più giovane Nozick, anch'egli insegnante ad Harvard e teorico dell'inviolabilità dei diritti naturali degli individui, che nella dottrina rawlsiana è apertamente contraddetta.
I singoli, secondo Nozick hanno il diritto di stabilire fini propri e non possono essere obbligati ad adoperarsi per la realizzazione di fini determinati da decisioni altrui. Nessuno può definire "ingiusta" una società basandosi esclusivamente sulla distribuzione delle risorse, come invece pretese di fare John Rawls.
Una delle accuse mosse anche da altri a Rawls era quella di aver dato per scontato che le concezioni del bene da lui attribuite ai soggetti, sia pure in condizioni di velo d'ignoranza, portassero inevitabilmente alla giustizia concepita come equità (justice as fairness)
Di fronte a tali obiezioni, Rawls rivede la formulazione della sua proposta, ecco allora che «se il pluralismo delle dottrine comprensive - come scrive Salvatore Veca […] deve essere preso sul serio, una teoria politica normativa non può basarsi su una dottrina comprensiva di tutto ciò che ha o deve avere valore per i partner della comunità politica liberale. La teoria della giustizia deve allora includere un sottoinsieme di valori che è specificato dai valori (solo) politici fondamentali che devono modellare il solo ambito del politico. In questo senso preciso il liberalismo che Rawls propone è politico: esso non può essere, ad esempio, etico.» [Veca, 1998, p.102].
Già nelle pagine di Liberalismo politico, era arrivato alla descrizione delle condizioni pluralistiche con le quali ogni teoria politica è chiamata a misurarsi, scrivendo: «una società democratica moderna non è caratterizzata soltanto da un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma da un pluralismo di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste dottrine è universalmente accettata dai cittadini; né c'è da attendersi che in un futuro prevedibile una di esse, oppure qualche altra dottrina ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da quasi tutti. Il liberalismo politico assume che, ai fini della politica, una pluralità di dottrine comprensive ragionevoli ma incompatibili sia il risultato normale dell'esercizio della ragione umana entro le libere istituzioni di un regime democratico costituzionale.» (2)
(continua)
(1) Franco Restaino - sta in Storia della filosofia di Nicola Abbagnano - TEA vol. VIII
(2) John Rawls - Political Liberalism - New York, Columbia University Press, 1996