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Joseph Ratzinger (Benedetto XVI)
di Guido Marenco
Rileggendo un articolo di Joseph Ratzinger comparso sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" nel marzo del 2000 e poi riportato con straordinaria tempestività dalla rivista "Micromega" sul numero 2/2000, mi è venuta l'idea di cominciare a tracciare un profilo filosofico teologico dell'attuale pontefice, sia perché un "nuovo Papa" desta sempre apprensione e speranza, e richiede di essere meglio conosciuto, sia perché Ratzinger rappresenta, obiettivamente, uno dei pensatori più vivaci ed interessanti del panorama cattolico contemporaneo. E questo, a prescindere dal fatto che la sua non possa certamente essere definita come una posizione innovativa. Vedremo come si comporterà da Papa, e vedremo quindi se le sue enunciazioni saranno tradotte in pratica, o corrette con sensate motivazioni.
Partirò dal fondo, perché si tratta di uno dei problemi che più preoccupano: Ratzinger non è mai stato un simpatizzante del reaganismo. Scordatevi Nozick e quella roba lì, scordatevi anche gli "austriaci" come von Hajek e, ovviamente, von Mises, che criticò il cristianesimo da un punto di vista liberale in modo piuttosto netto.
Prendendo a spunto l'evoluzionismo, che è una posizione scientifica, senza peraltro citare almeno Teilhard de Chardin, Ratzinger nota, in modo persino brusco, che l'ethos evoluzionistico, cioè il liberismo spinto, che è al contrario una dottrina politica, "ha poco di consolante da offrire". «Anche là dove si cerca di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da una realtà insensata in sé stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò serve ben poco per quello di cui abbiamo bisogno: un'etica della pace universale, dell'amor pratico per il prossimo e del necessario andar oltre il particolare.»
Non ci saranno correzioni della dottrina sociale della Chiesa. O non dovrebbero esserci. Lottare contro il relativismo culturale significa o che si è cattolici, o che si seguono le dottrine di von Mises, anche se, ovviamente, Ratzinger non lo dice esplicitamente.

Tolto il sassolino dalla scarpa, dava davvero fastidio... proseguiamo, o meglio, andiamo all'inizio, che è davvero folgorante. La tesi di fondo è che la verità cristiana è "sintesi di ragione, fede e vita". Ma la ragione gioca un ruolo centrale. Questa non è una novità in assoluto, ma eravamo abituati a sentire un'altra musica, quella della subordinazione della ragione alla fede, al più quella di una ragione che, ad un certo punto, rinuncia ad avvoltolarsi su stessa in un circolo vizioso orbitante attorno al dio dei filosofi, che è una specie di primula rossa, ed infine cade esausta nelle braccia della fede, di fatto tradendo sé stessa. Da Pascal a Kierkegaard, fino ai teologi protestanti del Novecento, questo era il disco rotto che continuava a girare sul grammofono. Ratzinger vede, piuttosto, una continuità storica tra ragione e fede.
Partendo dalla famosa discussione immaginaria di Agostino col "più erudito dei romani", Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), Ratzinger traccia un quadro molto suggestivo di cosa è veramente la religione cattolica. O meglio: quella che dovrebbe essere, perché in realtà non la è, se non negli auspici di Ratzinger.
Varrone credeva che Dio è l'anima che regge il mondo, tramite il movimento e la ragione. Ma, stranamente l'anima mundi non riceve culto. Ovvero verità e relgione sono situate su due piani diversi. E dice Ratzinger: «L'ordine cultuale, il mondo della religione, non appartiene all'ordine della res, della realtà come tale, ma a quello dei mores - dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l'ordine dello Stato.» Qui Ratzinger applica Feuerbach e Marx alle religioni antiche e, suggerirei, anche a qualche religione contemporanea. Forse, anche a qualche cattolico contemporaneo.

Varrone distingueva tre tipi distinti di teologia: la theologia mythica, la theologia civilis e quella naturalis. La teologia mythica è un prodotto dei poeti, i suoi luoghi sono il teatro, il suo contenuto sono favole sugli dei.
I teologi della teologia naturale sono i filosofi, pensatori "che andando al di là delle abitudini, si interrogano sulla realtà", mentre i teologi della teologia civile sono i popoli stessi, "che hanno scelto di non allearsi ai filosofi (alla verità), ma ai poeti". E quindi al mito ed alla superstizione.
Il luogo privilegiato della teologia civile è la città, ed il suo contenuto è identico a quello della teologia della favola, mentre il luogo della teologia naturale è il kosmos.
Da questo atteggiamento dei filosofi viene una demitologizzazione della regione mitica e civile assieme. Gli dei non sono dei, ma pretesti per cerimonie e feste, strumenti per mantenere la pace sociale. La teologia civile non ha per contenuto alcun dio, è solo "religione". Al contrario, la teologia naturale non ha alcuna forma religiosa, è solo divinità. «Il culto è in ultima istanza un ordine positivo che come tale non può essere commisurato al problema della verità. Mentre Varrone, nel suo tempo, in cui la funzione politica della religione era ancora sufficientemente forte, per giustificarla come tale poteva ancora difendere una concezione piuttosto cruda della razionalità e dell'assenza di verità del culto motivato politicamente; il neoplatonismo cercherà presto un'altra via d'uscita dalla crisi, su cui l'imperatore Giuliano basò poi il suo sforzo per ristabilire la religione romana di Stato.»

Rispetto a questa analisi di Varrone, Agostino collocò senza esitazione la posizione cristiana nella teologia naturale. Non disse, secondo Ratzinger, che era del tutto diversa. Disse "che ci stava". In tal modo, Agostino «si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli apologisti del II secolo, e anche con la posizione che Paolo assegna al cristianesimo nel primo capitolo della Lettera ai Romani che, da parte sua, si basa sulla teologia vetero testamentaria della Sapienza e risale, al di là di essa fino ai Salmi che scherniscono gli dei. Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica, non nelle religioni. Il cristianesimo non è affatto basato, secondo Agostino e la tradizione biblica, che per lui è normativa, su immagini e presentimenti mitici, la cui giustificazione si trova ultimamente nella loro utilità politica, ma si richiama invece a quel divino che può essere percepito dall'analisi razionale della realtà.»
Così abbiamo che il cristianesimo "si basa sulla conoscenza". «Venera quell'Essere che sta a fondamento di tutto ciò che esiste, il "vero Dio". Nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione, e non più il suo avversario.»

Ovviamente, è una tesi tutta da dimostrare, ma Ratzinger ci prova, trovando un nesso nella riflessione che i circoli colti dell'antichità pagana svolsero attorno alla singolarità della fede giudaica. «Là dove invece il Dio trovato nel pensiero si lascia incontrare nel cuore della religione come un Dio che parla ed agisce, il pensiero e la fede sono riconciliati.
In quel nesso con la sinagoga, c'era ancora qualcosa che non soddisfaceva e il non ebreo infatti rimaneva pur sempre un estraneo, non poteva mai arrivare ad una totale appartenenza. Questo nodo è sciolto nel cristianesimo dalla figura di Cristo, così come la interpretò Paolo.» Fu questa, secondo Ratzinger, la carta vincente. Il cristianesimo dilagò nell'antichità come un superamento della filosofia nella religione superiore, e come un superamento delle vecchie religioni nella filosofia, senza dimenticare il nodo fondamentale della vita, dell'esistenza che trova un senso solo se orientata al vero Dio e all'amore del prossimo. Il cristianesimo non è solo filosofia, è anche praxis. Come dirà Tommaso, correggendo Aristotele, il fine dell'uomo non è la contemplazione, ovvero l'attività teoretica, ma è l'attività teoretica che ha come fine l'uomo, cioè la sua salvezza.
Conscio di questo carattere "vincente" del cristianesimo, L'imperatore Giuliano, volendo reintrodurre una religione di stato, dovette sforzarsi, in realtà, di inventare una nuova religiosità. In sostanza, dice Ratzinger, dovette cristianizzare il paganesimo imponendo morale e castità ai sacerdoti, chiedendo loro, inoltre di predicare e fare la carità. E Giuliano dovette anche provare a dare alla "chiesa pagana" una struttura organizzativa uguale a quella della Chiesa cristiana: metropoliti in luogo dei vescovi, diaconi e così via.

Questa felicissima sintesi di ragione, fede e vita, secondo Ratzinger, ha funzionato fino alla modernità. Ma oggi non convince più. Perché?
«Perché la razionalità e il cristianesimo sono considerati oggi come contradditori e addirittura reciprocamente esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel cristianesimo?»
Citando Simmaco e quel famoso discorso nel quale sostenne che le vie per giungere a Dio sono molteplici e nessuno può rivendicarne il monopolio, Ratzinger osserva che oggi la razionalità non fa che replicare il ragionamento di Simmaco, forse sostituendo a Dio la verità, e cercandola nella natura, o forse anche rinunciando a cercare la verità. Ciò, ovviamente non è vera razionalità, ma una sua deformazione.
E' dunque il cristianesimo costretto a rassegnarsi ad essere una relgione come le altre? Deve rassegnarsi a non esser altro che il volto di Dio mostrato all'Europa?
«Questa è la vera domanda alla quale la Chiesa e la teologia devono far fronte. Tutte le crisi all'interno del cristianesimo che osserviamo ai giorni nostri si basano di fatto solo secondariamente su problemi istituzionali [...] Nessuno si aspetterà, alla fine del secondo millennio cristiano, che questa provocazione fondamentale trovi, anche solo lontanamente, risposta defintiva in un articolo. Non può trovare assolutamente risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto attitudine ultima dell'uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di conoscenza e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.»

L'analisi di Ratzinger assume il dato piuttosto ovvio che la ragione ha divorziato dalla religione con la modernità.
Con Kant ha rinunciato alla metafisica. «La nuova sintesi inglobante che Hegel tenta non restituisce alla fede il suo posto filosofico, ma tende a convertirla in ragione ed a eliminarla come fede.» Sicché, con Marx ed il Positivismo "solo l'esatta conoscenza scientifica è conoscenza. Con ciò è congedata l'idea deel divino."
Ratzinger vede nella teoria evoluzionistica una specie di "filosofia prima" che rappresenta il fondamento della comprensione scientifica del mondo. In tale clima intellettuale, ogni tentativo diverso viene bocciato come residuo metafisico. E' un po' arbitrario, a mio avviso, l'accostamento che Ratzinger attua tra la mentalità scientifica ed il buddhismo, osservando che esso è compatibile con l'idea del mondo come apparenza e "il nulla come l'autentica realtà, e giustifica in questo senso le forme mistiche di religione che almeno non sono in diretta concorrenza con la ragione."
Ma, a prescindere da questa considerazione piuttosto avventurosa, è comunque interessante il tema della risposta che il cattolico può dare a questa sfida.
«La domanda che un credente può porsi di fronte alla ragione moderna non è su questo, ma sull'estensione di una philosophia universalis che ambisce a diventare una spiegazione generale del reale e tende a non consentire più nessun altro livello di pensiero. Nella stessa dottrina evoluzionistica il problema si presenta quando si passa dalla micro alla macroevoluzione, passaggio a proposito del quale Szamarthy e Maynard Smith, entrambi sostenitori di una teoria evoluzionistica ricomprensiva, ammettono anche loro: "non ci sono motivi tecnici che lascino pensare che le linee evolutive aumentino in complessità con il tempo, non ci sono neanche prove empiriche che ciò avvenga.»
Tirando dentro anche Popper con un'ulteriore dotta citazione, Ratzinger risponde al filosofo austriaco, il quale aveva sostanzialmente riconosciuto nell'evoluzione una sorta di maestra di vita. Siamo razionali, diceva Popper, perché abbiamo imparato a sopravvivere. Cosa che aveva già detto Kant, anche se non muovendo dall'evoluzionismo, ma dalla situazione originaria dell'uomo come la più debole delle creature.
Risponde Ratzinger, alludendo a Monod, a Jacob, a tutta la scuola più radicale della biologia contemporanea: «Si tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità ( o con Popper, d'accordo col Butler del Luck and Canning, "caso e felice e previsione"), e quindi da ciò che è senza ragione, se in altri termini, la ragione è un casuale prodotto marginale dell'irrazionale, insignificante, alla fine, nell'oceano dell'irrazionale, o se resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e della sua filosofia. In principium erat Verbum.»
Conclusione Giovannea: il Logos e non il caos ha generato il mondo. Noi il Logos l'abbiamo conosciuto in Gesù Cristo che lo ha manifestato. Ma Cristo ha anche mostrato che il Logos senza amore è niente, come pure l'amore senza Logos (pensava ancora al buddhismo?) è solo irrazionalità.

Approfondiremo il lato teologico-speculativo di sua Santità Benedetto XVI non appena trovermo il tempo per farlo. Il materiale non manca.
Ora occupiamoci di una coda concernente le opinioni che Ratzinger coltivava cinque anni orsono sulla situazione interna della Chiesa e sul rapporto con i credenti.
Su tale piano, Ratzinger mostrava immediatamente di nutrire una profonda sfiducia nella maturità dei cattolici e fors'anche del clero dai vescovi in giù. Per Ratzinger la democrazia può andar bene in politica, ma sarebbe perniciosa per la Chiesa. «... un Concilio rappresenta sempre un duro intervento nell'organismo della Chiesa, qualcosa che io paragono a una pericolosa operazione chirurgica, nel senso che talvolta l'intervento drastico è effettivamente necessario per la salute di un organismo. Ma, appunto, bisogna anche tenere presente che qualsiasi intervento chirurgico comporta innanzitutto debolezza e complicazioni, e non equivale necessariamente alla guarigione.
Constatiamo insomma - e nessuno può seriamente negarlo sul piano empirico - che il secondo Concilio Vaticano ha comportato un enorme turbamento nella Chiesa cattolica come pure per tutta la cristianità. Personalmente ritengo che, fino a quando questo disagio non sarà del tutto superato, un altro intervento di questa natura comporterebbe attualmente più travaglio che miglioramento. Ritengo invece necessario incrementare i meccanismi di consultazione e di incontro; il Sinodo dei vescovi è soltanto uno di questi.» Meno spettacolo e più sostanza, insomma.
Concetto sul quale non si può non concordare. Ma chi sospetta che dietro alla formula del "turbamento", cioè dello sconquasso provocato dal Concilio, si nasconda in realtà un disegno di vera controriforma, potrebbe anche avere ragione. Le questioni interne alla Chiesa Cattolica non sono infatti riducibili a quelle di una battaglia ideale contro la mentalità moderna, la società permissiva e le filosofie scientiste e nichiliste. A prescindere dalla crisi delle vocazioni, infatti, che comunque non è una questione da poco, rimane pur sempre aperta la questione della praxis cristiana. Non la si può sollevare come carattere storico vincente e poi nasconderla quando è ora di decidere sul da farsi. Ci sono troppe praxis cattoliche che non vanno, che non camminano nella giustizia. E quella dei preti pedofili credo sia proprio l'ultima, anche se ha la sua importanza.
gm - 21 aprile 2005