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Willard Van Orman Quine
Difficoltà di traduzione

di Loris Basini
Finora abbiamo visto come Quine abbia teso ad evidenziare che non è sostenibile una distinzione radicale tra verità "per convenzione", analiticamente necessarie, e "verità di fatto", empiricamente verificabili. I due modi dogmatici della conoscenza sono pressoché indistinguibili nella conoscenza stessa. E così arrivano nel linguaggio. Anche la traduzione, quell'operazione che conduciamo sui testi in altre lingue, ed anche nel colloquio in altra lingua, è sempre una procedura imperfetta, che lascia a desiderare. Ogni traduzione richiede l'intervento di un "principio di carità" che garantisca la comprensione in casi ambigui. Il tema della traduzione è affrontato nello specifico in Parola e oggetto nel 1960. (1)

«Manuali per tradurre una lingua in un'altra possono essere composti in modi divergenti, tutti compatibili con la totalità delle disposizioni verbali, eppure incompatibili fra di loro. In innumerevoli casi punti essi divergeranno nel fornire, come loro rispettive traduzioni di un enunciato di una lingua, enunciati dell'altra lingua fra i quali non sussiste alcuna sorta plausibile di equivalenza, per quanto ampia. Tanto più saldi i legami diretti di un enunciato con le stimolazioni non-verbali, naturalmente, quanto meno drasticamente le traduzioni di esso possono divergere fra loro da manuale a manuale. E' in questa forma, come principio di indeterminatezza della traduzione, che cercherò di rendere plausibile l'argomento nel corso del presente capitolo.»
Quine sostiene che la traduzione tra lingue imparentate viene grandemente facilitata dalla somiglianza delle parole. Non sempre è vero, se pensiamo a quanti equivoci ingeneri il rapporto di somiglianza tra l'italiano e l'inglese, ma concediamolo. Le questioni si complicano enormemente quando occorre tradurre linguaggi profondamente diversi. Ad esempio: l'ungherese e l'inglese. Anche in tal caso, tuttavia, la traduzione «può essere aiutata da equazioni tradizionali che si sono sviluppate in concordanza con una cultura comune.»
Le cose si fanno difficili quando ci proponiamo di tradurre dalla lingua e nella lingua di un popolo estraneo alla nostra civiltà. «Non è questo un compito che viene in pratica intrapreso nella sua forma estrema, poiché una catena di interpreti, anche non molto buoni, può essere sempre reclutata nell'arcipelago più oscuro. Ma ci avviciniamo tanto più al problema quanto minori sono i suggerimenti ricavabili dagli interpreti. [...] Immaginerò che l'aiuto degli interpreti sia del tutto escluso. A proposito, qui non terrò conto dell'analisi fonematica, anche se compare molto presto nell'impresa del nostro linguista sul campo; essa infatti non concerne la tesi filosofica che voglio sostenere.
Le emissioni verbali che in un caso del genere vengono tradotte per prime e nel modo più sicuro sono emissioni collegate a eventi presenti ben visibili al linguista e al suo informatore. Un coniglio passa di corsa, l'indigeno dice "Gavagai", e il linguista registra l'enunciato "Coniglio" (o "Guarda, un coniglio") come traduzione provvisoria, suscettibile di controllo in casi ulteriori. Il linguista si asterrà dapprima dall'attribuire parole al suo informatore, anche se solo per mancanza di parole da attribuirgli. Quando può, comunque, il linguista deve sottoporre enunciati indigeni all'approvazione del suo informatore, pur correndo il rischio di falsare i dati per suggestione. Altrimenti non gli sarà facile distinguere fra termini indigeni che hanno riferimenti in comune. Supponiamo infatti che la lingua indigena includa gl enunciati E,1 E2, E3, traducibili rispettivamente come "Animale", "Bianco", e "Coniglio". Le situazioni stimolatorie differiscono sempre, e tale differenza può essere o non essere significativa. [...]
Così avviene che il nostro linguista chiede "Gavagai?" in ciascuna delle varie situazioni stimolatorie, e osserva ogni volta se l'indigeno assente, dissente; o non fa né l'uno né l'altro. Ma in che modo riuscirà a riconoscere l'assenso e il dissenso dell'indigeno li vede o li sente? I gesti non devono essere valutati fermandoci alle apparenze; i gesti dei turchi sono quasi l'opposto dei nostri. Il linguista deve congetturare basandosi sull'osservazione e poi vedere come funzionano, e se funzionano bene, le sue congetture. Così supponiamo che, nel chiedere "Gavagai?" e simili, alla presenza evidente abbia ottenuto le risposte "Evet" e "Yok" abbastanza spesso per supporre che possano corrispondere a "Sì" e "No", ma che non sappia affatto quale delle due è "Sì" e quale è "No". Allora tenta l'esperimento di ripetere le dichiarazioni spontanee dell'indigeno. Se con ciò ottiene abbastanza regolarmente "Evet" piuttosto che "Yok", è spinto a considerare "Evet" come "Sì". Cerca anche di rispondere con "Evet" e "Yok" alle osservazioni dell'indigeno; quello dei due che produce effetti più positivi è il miglior candidato per "Sì". Questi metodi, per quanto inconcludenti, generano un'ipotesi di lavoro. Se grandi difficoltà accompagnano tutti i suoi passi successivi, il linguista può decidere di abbandonare quell'ipotesi e di fare altre congetture.
Supponiamo allora che il linguista abbia stabilito che certi segni indigeni significano assenso, e certi altri dissenso. Con ciò è in grado di accumulare prove induttive per tradurre "Gavagai" come l'enunciato "Coniglio". La legge generale per cui raccoglie esempi è approssimativamente questa: l'indigeno darà una risposta affermativa a "Gavagai?" proprio sotto l'influsso di quelle stimolazioni sotto l'influsso delle quali noi, se interrogati, daremmo una risposta affermativa a "Coniglio?"; e analogamente per la risposta negativa.»

Questa lunga citazione, oltre che a raccontare con la massima esattezza possibile il ragionamento preliminare di Quine circa la difficoltà di una traduzione da una lingua radicalmente "altra", ci permette anche di osservare che il nostro utilizza ampiamente sia il metodo induttivo-empirico sia l'approccio comportamentista centrato sulla formula stimolo-risposta. Pur smascherando tutti i limiti dell'empirismo, Quine rimane empirista; del suo rapporto con la psicologia del behaviourismo parleremo nel prossimo file in quanto costituisce uno degli elementi fondamentali del pensiero di Quine, ed anche ciò che lo differenzia in modo sensibile dalla corrente pragmatista della filosofia americana.

Tornando al problema della traduzione, ed a quello più generale della "sintonizzazione" tra culture diverse, notiamo subito che Quine avverte che se appaiono traduzioni inizialmente false, è perché esse dipendono da «nascoste differenze di linguaggio.» Essa è una «massima» che riposa nel senso comune. Essa dice che «l'insipienza del nostro interlocutore, oltre un certo limite, è meno probabile della cattiva traduzione - o, nel caso domestico, della diversità linguistica.» Tuttavia, sinora si è parlato più di parole che di oggetti. Perché in fondo il vero interesse è quello che riguarda oggetti astratti, concetti come "punto", "miglio", "numero" "proposizione", "fatto" e "classe". «Carnap ha sostenuto a lungo che i problemi della filosofia, quando sono davvero genuini, sono problemi di linguaggio; e la presente osservazione sembrerebbe delucidare la sua tesi. Egli sostiene che i problemi filosofici relativi a quello che c'è sono problemi relativi al modo in cui noi possiamo più convenientemente dare forma alla nostra "struttura linguistica", e non, come nel caso del vombato o dell'unicorno, problemi concernenti la realtà extralinguistica. Egli sostiene che questi problemi filosofici vertono solo apparentemente su generi di oggetti, e sono in realtà problemi pragmatici di politica linguistica. Ma perché ciò dovrebbe essere vero dei problemi filosofici e non dei problemi teorici in genere? Tale distinzione di status fa tutt'uno con la nozione di analiticità, e di essa dobbiamo fidarci altrettanto poco. Dopo tutto, gli enunciati teorici in genere possono essere difesi solo pragmaticamente, non possiamo far altro che valutare i pregi strutturali della teoria che comprende quegli enunciati insieme a enunciati direttamente condizionati a stimolazioni di vario genere.»
Eppure noi riconosciamo l'esistenza di un rapporto transitivo dal parlare di oggetti al parlare del parlare, cioè di "parole" non appena ci trasferiamo da realtà extralinguistiche come l'esistenza dell'unicorno a realtà come l'esistenza di "punti", "miglia" "classi" e così via. Come lo possiamo spiegare? Realizzando una manovra mentale appropriata e utile: l'ascesa semantica.
«E' il passaggio dal parlare di miglia al parlare di "miglio". E' ciò che porta dal modo materiale (inhaltlich) al modo formale, per servirmi di una vecchia terminologia di Carnap. E' precisamente il passaggio del quale Carnap pensa che liberi le questioni filosofiche di un aspetto ingannevole, e le manifesti nei loro veri colori. Ma questa dottrina di Carnap è la parte che non accetto. L'ascesi semantica, come io la intendo, si appica ovunque. "Ci sono vombati in Tasmania" potrebbe essere parafrasato come "'Vombato' è vero di alcune creature in Tasmania", se ci fosse qualche scopo nel farlo. Ma si dà il caso che l'ascesi semantica sia più utile in circostanze filosofiche che in altre circostanze, e credo di poter spiegare perché.
Si consideri l'aspetto che avrebbe una discussione relativa all'esistenza delle miglia senza ascendere al parlare di "miglio". "Naturalmente ci sono miglia. Tutte le volte che avete 1760 yarde avete un miglio". "Ma non ci sono neppure yarde. Soltanto corpi di varie lunghezze". "La terra e la luna sono separate da corpi di varie lunghezze". Il seguito si perde in un guazzabuglio di invettive e di petizioni di principio. Quando d'altra parte ascendiamo a "miglio" e chiediamo quali dei suoi contesti sono utili e per quali scopi, possiamo andare avanti; non cadiamo più nella trappola dei nostri usi opposti.
La strategia dell'ascesa semantica è che essa porta la discussione in un dominio in cui entrambe le parti si trovano meglio d'accordo sugli oggetti (ossia, le parole) e sui termini principali che le riguardano. Le parole, o le loro iscrizioni, a differenza dei punti, delle miglia, delle classi, e del resto, sono oggetti tangibili della taglia tanto popolare al mercato dove uomini di schemi concettuali diversi comunicano al meglio delle loro possibilità. La strategia è quella di ascendere a una parte comune di due schemi concettuali fondamentalmente disparati, per discutere meglio i fondamenti disparati. Nessuna meraviglia che sia utile in filosofia.»

(1) W. V. O. Quine - Parola e oggetto - Il Saggiatore 1996
L B - ottobre 2006