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Willard Van Orman Quine
Due dogmi dell'empirismo
di Loris Basini
Nato ad Akron,.Ohio, nel 1908, Quine arriva a Vienna nel 1933, come un americano alla corte di re Artù. Era passato per Harvard e si era laureato in matematica con Alfred N. Whitehead, il mitico coautore dei Principia Mathematica. A Vienna Quine conosce Carnap, Reichenbach, Schlick e Tarski. C'è sintonia intellettuale con tale congeria di persone. Il positivismo logico lo attrae. Torna in America nel '34 e per dieci anni si dedica alla riflessione sulla logica come fondamento della matematica. Nel 1937 scrive l'articolo Nuovi fondamenti della logica matematica. Nel 1940 scrive Logica matematica. E nel frattempo aiuta i neopositivisti in fuga dal nazismo a trasmigrare negli Stati Uniti per trovare una sistemazione accademica. Durante la seconda guerra mondiale si arruola come volontario in marina. «Nel 1938 ero in Portogallo per un convegno, e molti colleghi mi confessarono la loro delusione circa il comportamento degli inglesi e di Chamberlain. Non conoscevo nessuno, a quel tempo, che non fosse terrorizzato e inorridito dal nazismo. Quando si sente dire che la gente non si rendeva conto della depravazione a cui i nazisti erano giunti, non ci credo. E' vero: forse non si conoscevano i particolari dei campi di sterminio, ma il nazionalismo esasperato c'era, in una nuova Germania unita e rinvigorita. E poi, c'era tanta cattiveria, tanta stupidità, e anche indifferenza, su entrambe le sponde dell'Atlantico. Io non capisco perché gli Stati Uniti non siano entrati in guerra prima. Non stavo più nella pelle.» (1)
Una leggenda metropolitana da sfatare è che Quine sia "figlio" di Peirce e del pragmatismo. Bugie. Quine rivela quanto segue: «All'inizio lo mancai, quasi non sapevo della sua esistenza. Nel mio curriculum di studi, non lo incontrai mai, nemmeno in bibliografia. Scoprii Peirce quando arrivai a Harvard per il dottorato. Georges Sardon, allora direttore del trimestrale scientifico "Isis", mi chiese di recensire i volumi sulla logica dei "Collected Papers", che Harvard University Press stava appena pubblicando in edizione integrale. E infatti recensii il secondo, il terzo e il quarto volume. Ma Peirce non ebbe mai grande influenza sul mio lavoro; quando lo incontrai, avevo già letto i Principia Mathematica di Russell, e scrivevo già saggi di logica. Da lui non assorbii contenuto logico, ma soltanto prospettiva storica.» (2)
Qual'è allora il rapporto tra Quine e il pragmatismo?
Lo sappiamo ancora dall'intervista. «E' difficile dire cosa significhi veramente "pragmatismo". Se si tratta di un ramo della tradizione classica dell'empirismo, allora sì, è stato veramente di una grande importanza per me. [...] tutto sommato non credo che la mia formazione abbia risentito di una matrice peculiarmente americana; piuttosto, si è sempre basata su una sorta di empirismo internazionalista, e con questo intendo il primo Whitehead, Rudolf Carnap, C. I. Lewis, e tra i polacchi Tarski.»
Il rapporto con Carnap fu, secondo lo stesso Quine, fondamentale per la maturazione del suo pensiero. Discusse con lui per ore ogni giorno. Poi seguì un fitto scambio di corrispondenza. Si dice spesso che il contributo della scuola analitica americana, in particolare di Quine, abbia comportato un'attenuazione del valore normativo dei principi logico-linguistici che avevano caratterizzato l'empirismo logico. Ma già lo stesso Carnap con Significato e necessità, del 1947 aveva portato ad aprire l'analisi linguistica all'indagine sulla possibilità, inaugurando così una pista poi battuta da Saul Kripke e Richard M. Montague.
Negli scritti From a Logical Point of View del 1953 Quine criticò Carnap, in particolare nel saggio Two Dogmas of Empiricism, già pubblicato 1951. Per Quine la distinzione tra asserti analitici e sintetici, sulla quale poggia la convinzione neopositivista che la verità di un asserto sia o analizzabile nelle sue componenti linguistiche, o in quelle fattuali, inficia le basi dello stesso empirismo. Inoltre, Quine attacca il "riduzionismo" cioè la riducibilità di ogni proposizione significante all'evidenza empirico sensoriale.
«L'empirismo moderno è stato per molta parte condizionato da due dogmi: 1) una presunta discriminazione fra verità che sarebbero analitiche per il fatto di basarsi su un significato dei termini, e non su dati di fatto, e verità che sarebbero sintetiche perché si fonderebbero su dati di fatto; 2) la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l'esperienza immediata, e cioè il riduzionismo. Noi abbandoneremo sia l'uno che l'altro dogma perché ne dimostreremo l'infondatezza; e le conseguenze di un tale abbandono, fra l'altro, saranno: per un verso, un offuscarsi della distinzione fra metafisica e scienza naturale, per un altro verso, un accostarsi al pragmatismo.»
Vediamo in dettaglio come si sviluppa il ragionamento di Quine: «Per Kant una proposizione analitica era quella in cui si predicava del soggetto nulla di più di ciò che era già contenuto concettualmente nello stesso soggetto. Questa sua formulazione, però, ha due difetti: in primo luogo si limita alle proposizioni della forma soggetto-predicato; secondo, poi, essa fa appello ad una nozione di contenimento che rimane ad un livello metaforico. Ma ciò che Kant aveva in mente, e che di certo si chiarisce più nell'uso che egli fa della nozione di analiticità che nelle definizione di essa, si potrebbe riformulare così: una proposizione è analitica quando è vera in virtù del significato dei termini, indipendentemente dai fatti. Seguendo questa traccia, esaminiamo il concetto di significato che si viene a presupporre
Significare, è bene ricordarlo, non è lo stesso che denotare. L'esempio di Frege di "Stella della sera" e "Stella del mattino", e quello russelliano di "Scott" e l'"autore di Waverley" mostrano come i termini possano denotare la stessa cosa pur avendo significati diversi. La distinzione fra significare e denotare non è poi di minore importanza a livello di termini astratti. "Il numero dei pianeti" e "9" denotano la stessa ed unica entità astratta, ma è lecito supporre che i loro significati debbano considerarsi diversi; tanto è vero che per dimostrare che l'entità in questione è una sola abbiamo bisogno di un'osservazione astronomica, e non basta riflettere soltanto sul significato dei termini in causa.»
L'esame che Quine svolge della sinonimia è conseguente al tipo di valutazioni già presentate: «Le proposizioni che per generale acclamazione dei filosofi sono analitiche non c'è da andarle a cercare molto lontano. Esse si dividono in due classi. Quelle appartenenti alla prima classe, e che si possono chiamare verità logiche, potrebbero essere esemplificate da:
(1)Nessun uomo non sposato è sposato.
[...] Una seconda classe di proposizioni analitiche è esemplificata da:
(2) Nessuno scapolo è sposato.
La caratteristica di una proposizione del genere è che essa può venire tradotta in una verità logica sostituendo ad un termine il suo sinonimo; così la (2) può venir tradotta nella (1) sostituendo uomo non sposato al suo sinonimo "scapolo". Pur tuttavia, ci manca ancora una caratterizzazione propria di questa seconda classe di proposizioni analitiche, e quindi dell'analiticità in generale, dal momento che, nella esposizione che abbiamo fatto, ci siamo dovuti valere di una nozione di "sinonimia" che ha bisogno di esser chiarita almeno quanto l'analicità stessa. [...]
Vi sono di coloro che trovano confortante dire che le proposizioni analitiche della seconda classe si riducono a quelle della prima classe (cioè le verità logiche) per definizione, "scapolo" ad esempio, si dice, è definito come "uomo non sposato". Ma in che modo riusciamo a scoprire che "scapolo" è definito come "uomo non sposato"? Chi lo ha definito così, e quando? Dobbiamo forse ricorrere al più vicino dizionario, e accettare come legge la formulazione del lessicografo? Questo vorrebbe dire veramente mettere il carro avanti ai buoi. Il lessicografo è uno scienziato empirico, il cui compito è quello di registrare dei fatti che lo precedono; ese egli glossa "scapolo" con "uomo non sposato" ciò è perché egli crede che vi sia una relazione di sinonimia fra quelle due forme linguistiche, relazione implicita o nell'uso corrente generale o in una accezione particolare di certo anteriori al suo lavoro.»
La domanda, insomma, e se sia la sinonimia a definire l'analicità, o non viceversa. Si deve allora indagare anche il principio di sostituibilità. Ovvero perché siamo autorizzati ad usare indifferentemente "scapolo" e "non sposato". Il che, nota Quine, non è vero. Se infatti costruiamo una proposizione del genere, «"scapolo" ha meno di dieci lettere», siamo nell'impossibilità di ricorrere al sinonimo. Analagomente, aggiungerei io, si può notare che "non sposato" è sinonimo (anche se imperfetto) di "divorziato". "Non sposato" rende l'idea di "divorziato" in modo da nascondere che in precedenza p era sposato e ora non lo è più. Lo stesso potremmo dire di "vedovo". Questi esempi potrebbero valere come contestazioni del verbo quineano. Ebbene, in proposito Quine mette le mani avanti ricordando che:«Codesto esempio a sfavore, tuttavia, si potrebbe forse respingere trattando la citazione "scapolo" come una singola parola indivisibile e quindi stabilendo che la sostituibilità reciproca salva veritate come banco di prova della sinonimia non si deve applicare a delle parti che figurano all'interno di una parola.»
Quine prova allora a seguire una diversa linea di ragionamento. Capovolgendo la situazione e ammettendo l'analicità diciamo che "scapolo" e "uomo non sposato" sono sinonimi in senso conoscitivo. Porgono cioè un'informazione circa l'uomo di cui si parla. Ma questo significa dire, in primo luogo, che
«(3) Tutti e soltanto gli scapoli sono uomini non sposati è analitica»
Certo, ma si dovrebbe dar conto della sinonimia conoscitiva senza presupporre l'analiticità. Invece cadiamo in un mezzo circolo vizioso. «Il nostro discorso non è del tutto circolare, ma quasi. Se dovessimo darne un'immagine, avrebbe la forma di una curva chiusa nello spazio.
Da principio sembrava più che naturale definire l'analicità ricorrendo ad un regno dei significati. Poi l'appello ai significati dette adito ad un appello alla sinonimia o alla definizione. Ma risultò che la definizione era un fuoco fatuo, e che la sinonimia diventa comprensibile a sua volta solo in forza della stessa analicità: e così siamo tornati al problema dell'analicità.»
Quine nota che la difficoltà nel separare le proposizioni analitiche da quelle sintetiche è dovuta alla vaghezza della lingua ordinaria. Ma subito replica che anche un linguaggio costruito artificialmente non porta che a confusione.
«Dal punto di vista del problema dell'analicità la nozione di una lingua artificiale provvista di regole semantiche è un feu follet par exellence. Le regole semantiche che determinano le proposizioni analitiche di una certa lingua artificiale sono di qualche interesse solo se abbiamo già compreso il concetto di analicità; ma per la comprensione di quest'ultima non sono di nessun aiuto.
Fare appello a lingue ipotetiche artificialmente elementari potrebbe essere un modo utile per chiarire l'analicità se i fattori mentali o comportamentistici o culturali di rilievo per l'analicità (quali che possono essere) fossero in qualche modo abbozzati in quel modello semplificato. Ma un modello che prende l'analicità puramente come una caratteristica non riducibile non è certo fatto per far luce sul problema dell'analicità.
E' ovvio che la verità in generale dipende sia da fatti linguistici che da fatti extralinguistici. L'asserzione "Bruto uccise Cesare" sarebbe falsa se il mondo fosse stato diverso per certi aspetti, ma sarebbe anche falsa se la parola "uccise" avesse per caso il senso di "generò"...»
Sicché, per Quine, non si riesce in alcun modo a tracciare una linea netta di demarcazione tra proposizioni analitiche e sintetiche. «Credere che si debba tracciare una tale distinzione è un non empirico dogma degli empiristi, un metafisico articolo di fede.»
Sul secondo dogma andiamo più velocemente. Diciamo che esso suppone che la nozione di analicità sia riportabile a quella di verità di fatto. Diremo analitiche le proposizioni confermate dai fatti in ogni circostanza. Ma può darsi un caso in cui una proposizione, isolatamente, può dirsi confermata?
«Il mio parere, al contrario [...] è che le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongano al tribunale dell'esperienza sensibile non individualmente ma solo come un insieme solidale.
Il dogma del riduzionismo, anche in questa sua forma attenuata, è connesso intimamente con l'altro dogma - cioè quello per cui ci sarebbe una differenza essenziale tra l'analitico e il sintetico. E di fatto quest'ultimo problema ci ha condotti al primo attraverso la teoria della verificazione. Più esattamente, il primo dogma sostiene chiaramente il secondo nel modo seguente: finchè si ritiene che abbia significato in generale parlare o infirmare una proposizione, sembra che abbia significato anche parlare di un tipo limitato di proposizione confermata in modo vuoto, ipso facto, quali che siano i dati di fatto; e questa sarebbe una proposizione analitica. Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia o di storia alle leggi più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini. O, per mutare immagine, la scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limite sono l'esperienza. Un disaccordo con l'esperienza alla periferia provoca un riordinamento all'interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. Una nuova valutazione di certe proposizioni implica una nuova valutazione di altre a causa delle loro reciproche connessioni logiche - mentre le leggi logiche sono soltanto, a loro volta, certe altre proposizioni del sistema, certi altri elementi del campo. Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un'altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche. Ma l'intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria.»
(1) G.Borradori - Conversazioni americane - Laterza 1991
(2) idem