La terapia centrata sul paziente
Questo tipo di approccio fu costruito da
Carl Ransom Rogers, il quale credeva molto
nel fatto che gli individui siano buoni in
modo innato e che sia l'ambiente a rovinarli.
Egli mosse dall'idea che la terapia deve
svolgersi in un'atmosfera non minacciosa
nella quale le persone possano onestamente
guardare a sè stesse, accettarsi e prendere
le decisioni nel modo più sereno possibile.
Sembra la scoperta dell'acqua calda, in realtà,
se guardiamo al ragionamento di Rogers, scopriremo
l'importanza di queste considerazioni.
Egli sosteneva che molti problemi nell'età
adulta trovano origine nell'ambiente minaccioso
e repressivo dell'infanzia. Per questo gli
individui hanno maturato un'autopercezione
distorta di sé, cadendo in una sorta di spirale
centrata sull'autoinganno, il quale non è
certo un propellente per la realizzazione
di sè.
Rogers, per questo, lascia al cliente un
ruolo attivo nella terapia e insiste sul
fatto che il paziente deve percepire una
incondizionata fiducia ed una forte empatia
del terapeuta.
Il rischio potrebbe essere quello di cadere
in una esagerata indulgenza.
Ma se si pone come principio proprio l'accettazione,
è ovvio che anche i pensieri più strani,
od anche quelli più terribili, devono essere
accolti senza un giudizio preventivo; infatti
solo vedendosi accettati, i pazienti accetteranno
se stessi.
Scrivono Darley & C. « Diversamente
dalla psicoanalisi, in cui il terapeuta tenta
di osservare ed analizzare la concezione
della realtà da parte del paziente, il terapeuta
centrato sul cliente è partecipe del mondo
del cliente cercando di entrarvi e farne
l'esperienza dal suo stesso punto di vista.
Quando ascolta il cliente, il terapeuta fa
delle osservazioni che riflettono il contenuto
emotivo di ciò che è stato detto, e fa ciò
per essere sicuro di essere in contatto con
lui, ma anche perchè il cliente riconosca
quello che sta dicendo, o le implicazioni
di ciò che sta dicendo. »
Scrive Aldo Carotenuto in Breve storia della psicoanalisi: « Vorrei ribadire che questo nostro
soffermarci su certi "passaggi"
della biografia di Carl Rogers è motivato
dalla convinzione che le esperienze affettive
dell'epoca dell'infanzia sono determinanti
non solo per lo sviluppo psicologico dell'individuo,
ma anche per la formazione delle sue idee.
Se ciò è riscontrabile in molti contesti
del quotidiano, lo è ancor di più in un contesto
analitico, ove bisogni come quello dell'accudimento
possono riproporsi in maniera coatta.
E' importante tener presente queste realtà
per poter riconoscere che, accanto alle dinamiche
idealizzanti, il paziente può essere portatore
anche di una profonda sfiducia che, all'occasione,
potrebbe trasformare l'analista adorato in
uno spregevole traditore.
Occorre allora che l'analista riesca da un
lato a interpretare il ruolo in cui i fantasmi
del paziente lo costringono - in modo da
rendere presente ed evidente al paziente
stesso il desiderio nevrotico che egli ripropone
in analisi - e dall'altro non vi aderisca
del tutto, restando al di qua del desiderio
dell'altro.»
La terapia gestaltista
Anche la terapia gestaltista è un tipo di
approccio umanistico ai problemi psichici.
La sistemazione teorica è dovuta in larga
parte a Frederick Perls, che come Rogers
credeva nella bontà innata, e considerava
il disturbo psichico dovuto al blocco dell'espressione
delle potenzialità positive degli individui
Tuttavia l'approccio gestaltico si differenzia
significativamente dalla terapia centrata
sul cliente perchè basata sulla percezione
dell'esperienza "gestaltica", cioè
"intera" della realtà in modo plastico.
Essa è dunque meno introspettiva e più estroversa,
ma da questa estroversione ricava moltissimi
elementi utili all'introspezione ed a capire
quindi i propri sentimenti.
La psicologia della Gestalt costituisce una
vera e propria scuola molto attenta ai problemi
della percezione e del rapporto tra figura
e sfondo, tra insieme e particolari.
In una prospettiva terapeutica ciò implica
la capacità del terapeuta di incanalare il
paziente verso una visione completa della
propria esperienza, equilibrata, quindi capace
di proporzioni adeguate al peso oggettivo
dei fatti, dei vissuti, dei giudizi.
Lo scopo della terapia gestaltista è di portare
gli individui a diventare consapevoli di
questa totalità aiutandoli a portare in primo
piano anche gli elementi di sfondo, e gli
stessi particolari, quindi a contestualizzare
sempre i problemi.
Ma per essere in armonia con l'intero processo
dinamico della realtà, secondo Perls, occorre
liberarsi della tendenza inculcata a vivere
secondo le aspettative degli altri e appropriarsi
in modo consapevole del proprio comportamento
e del processo di automiglioramento.
Tra le tecniche gestaltiche è molto importante
quella del gioco dei ruoli nella quale vengono
utilizzati sistemi di proiezione e di identificazione
con diversi personaggi esprimenti una particolare
funzione.
«Nella tecnica della sedia vuota -
scrivono Darley & C. - per esempio, si
chiede al cliente di immaginare che una persona
con cui ha una relazione emotivamente intensa
(padre, madre, coniuge) sia seduta sulla
sedia vuota di fronte a lui, e di parlare
a questa persona dei problemi della loro
relazione e dei sentimenti specifici verso
di lei. Il cliente poi cambia sedia e parla
come se fosse l'altra persona, e questo mostra
come il cliente pensa che l'altra persona
lo veda. La tecnica della sedia vuota può
essere usata anche per incoraggiare i clienti
a parlare a parti diverse di se stessi, alle
loro paure, ai loro desideri, o sogni, per
cercare di confrontare i loro sentimenti
ed accettarli come parte del loro essere
totale.»
Spesso viene chiesto al paziente di fare
l'opposto di ciò che sente. Gli insensibili
saranno così costretti a reagire come se
fossero sensibili e, viceversa, i sensibili
a mostrare freddezza.
Perls credeva che così i pazienti potessero
arrivare a scoprire parti molto reali del
loro modo di essere che in qualche modo era
stata bloccata dall'esagerata importanza
data ad un comportamento dettato dall'esigenza
di soddisfare sempre le aspettative altrui.
In sostanza la Gestalt incoraggia l'espressione
di sè stessi, anche perchè fiduciosa nelle
bontà innate.
Resta solo da chiedersi se la teoria della
bontà innata sia vera, e non è poco:-)))
Il modello cognitivo della terapia
In questo modello è dato rilievo non a ciò
che sentiamo, ma a ciò che pensiamo ed a come lo pensiamo.
Per questo le terapie modellate sul cognitivismo
tendono ad occuparsi più del processo cognitivo
che ha portato a pensare a certe cose che
ai sintomi del disturbo psichico.
I due modelli prevalenti sono stati elaborati
da A. Ellis e da Aaron Beck.
Secondo Ellis i comportamenti anormali sono
dovuti a pensieri e principi irrazionali
che si sono insinuati nella mente del paziente
nel corso del tempo. La terapia dunque consiste
nel mettere in chiaro la falsità delle convinzioni
irrazionali, le quali generano ansia e nevrosi
di per sè.
Secondo lo stesso Ellis alcune delle false
credenze più comuni sono:
1) devo essere amato o approvato da ogni
persona importante attorno a me.
2) devo essere competente, essere all'altezza
della situazione, o non mi posso considerare
degno di stima
3) Alcuni individui sono infami, malvagi,
devono essere puniti o penalizzati per questo
4) Se le cose non vanno come desidero, ciò
è una catastrofe.
Come si vede già da questa impostazione,
siamo tra banalità, buon senso ed ambiguità.
Infatti, solo considerando l'ultima delle
cosiddette "false credenze", è
ovvio che se le cose non vanno come desidero,
questa non è una catastrofe se, e solo se,
l'operazione riesce e un mio parente sopravvive
e poi guarisce; se, e solo se, la donna più
bella ed intelligente che ho conosciuto corrisponde
il mio amore; se, e solo se, riesco finalmente
a trovare un lavoro che mi consente un reddito
sufficiente a mantenere la famiglia ecc...
Diversamente non è una catastrofe se non
ho ragione su qualcosa, non è una catastrofe
se scopro di aver sbagliato e mi correggo,
non è una catastrofe se mi rubano la macchina,
o se la mia squadra preferita, la Fiorentina,
perde una partita o va in serie B.
Il problema di questa teoria cognitiva è
che distanzia troppo la sfera emotiva e quella
razionale, pur definendosi come terapia razionale-emotiva.
Taluni attaccamenti emotivi non sono affatto
frutto di un investimento, come se si giocasse
in borsa. Vengono di natura. Nessuno di noi
ha investito su suo padre, o su sua madre,
o sui suoi fratelli. Ce li siamo trovati,
ed è razionale questo legame emotivo.
Ma altrettanto razionale sarebbe una rottura
dovuta ad esempio al fatto che i genitori
non approvano il nostro legame affettivo,
dovuto sì ad un investimento, con una donna
di ambiente diverso, di differente cultura,
e ciò nonostante di comprovata moralità.
Come si vede il terreno scelto da Ellis è
sdrucciolo e si presta a diverse considerazioni.
Egli mette in rilievo il ruolo determinante
della tolleranza e giustamente afferma che
un "fallimento" in qualcosa (chi
scrive avrebbe desiderato diventare docente
universitario) non è un fallimento totale.
Ma se la somma di tutti i fallimenti della
nostra vita è il risultato di aspettive esagerate,
Ellis avrebbe ragione; viceversa avremmo
più di un motivo di essere incazzati, e questo
non sempre è dovuto ad una sorta di autoinganno.
Specie, se si vede che a fare carriera sono
degli incapaci presuntuosi, o del lacchè.
Un'altra caratteristica peculiare del metodo
Ellis è l'interventismo del terapeuta, il
quale non ce le manda a dire, ma mette direttamente
in discussione tutto ciò che gli sembra irrazionale.
E' l'esatto opposto dell'approccio di Rogers,
ma anche il contrario di tutti i principi
psicoanalitici. Per di più non contiene nemmeno
alcuna forma di suggestione pseudoipnotica;
è critica e polemica allo stato puro. Chi
scrive apprezza questa franchezza, ma dubita
che essa serva realmente con individui che
sono "molto irrazionali".
Il giudizio si basa in questo caso sull'esperienza
diretta e sul fatto che anche le persone
che hanno l'acqua alla gola, che soffrono
di fobie incredibili e che vivono in angoscia
permanente, rifiutano spesso e volentieri
di ragionare e sono ostili a qualsiasi dialogo
che metta in forse le loro più radicate credenze
e gli oggetti della loro ammirazione.
La verità, purtroppo, è che le persone, più
sono ignoranti e più sono convinte di non
esserlo; più sono ignoranti, più sono portate
ad un rapporto di adorazione nei confronti
di qualche figura paranoica e maniacale che
esprima in slogan e luoghi comuni supposte
"profonde verità".
Aaron Beck ha lavorato soprattutto sulla
depressione.
Anch'egli fa risalire i disturbi psichici
a pensieri sbagliati e distorti. Come Ellis
attribuisce molta importanza al fatto che
le persone depresse credono che gli altri
nutrano pensieri negativi nei nostri confronti,
oppure al fatto che "qualsiasi cosa
diversa dal successo trionfale sarebbe una
catastrofe".
Tuttavia Beck non parla di irrazionalità,
ma di natura estremistica dell'individuo
che la pensa così e questo rimane molto più
accettabile.
In particolare Beck si è preoccupato di analizzare
il pensiero "distorto", come il
saltare a conclusioni senza le necessarie
prove e le indispensabili evidenze, e mette
sul banco degli imputati la generalizzazione
che le persone raggiungono muovendo da premesse
sillogistiche sbagliate o non corrette.
La terapia cognitiva di Beck cerca di evidenziare
questi errori e si centra su quello che potrebbe
essere un corso di logica "naturale"
che risvegli la facoltà di pensare nel paziente.
Si realizza mediante l'esecuzione di compiti
che potrebbero portare alla "gioia del
successo", e quindi a vincere la depressione
almeno un po', conquistando, in un certo
senso l'apprezzamento e l'elogio del terapeuta.
Così, man mano che il paziente progredisce,
e l'umore del paziente migliora, la terapia
diventa più cognitiva.
Le idee di Beck, in verità, non sono originali
perchè questo tipo di approccio fu scoperto
da Pierre Janet, il quale fu a pieno titolo
il precursore, se non del cognitivismo, certamente
della terapia cognitivista.
Nei casi più difficili, situazioni cioè nelle
quali non era possibile un dialogo, egli
usava l'ipnosi, ma in generale anche l'ipnosi
non era altro che un lavoro propedeutico
al risveglio logico.
La terapia cognitivo-comportamentale
L'importanza di questo tipo di approccio
è nel fatto che si basa su un metodo eclettico.
In esso convergono sia modelli comportamentisti
che cognitivi e nemmeno mancano metodi psicoanalitici
volti a ricostruire i vissuti infantili.
Molti psicoterapeuti di scuola comportamentista
non si basano più solo sulla manipolazione
dei "rinforzi", ma si sono convinti
che l'apprendimento di un individuo può essere
migliorato attraverso la riflessione sulle
proprie esperienze od osservando il comportamento
altrui.
La terapia di gruppo
Una forma alternativa al rapporto tra singolo
e paziente è costituita dalla terapia di
gruppo, che negli ultimi decenni è cresciuta
a vista d'occhio.
Alla base di questa impostazione vi è la
constatazione che i singoli possono imparare
dagli errori e dalle difficoltà degli altri.
Pare infatti che sia più facile valutare
se stessi attraverso l'ascolto e l'osservazione
degli altri.
Secondariamente i problemi di rapporto interpersonale
sono ovviamente affrontati alla radice in
un ambiente dove nascono relazioni che possono
contribuire al rilassamento.
Vi sono diversi approcci alla terapia di
gruppo. Si passa dal gruppo costituito di
individui estranei l'uno all'altro che, tuttavia,
hanno un problema in comune, ai gruppi di
tipo familiare o di coppia.
Scrivono Darley & C. : « La terapia
familiare mette assieme i membri della famiglia
per lavorare su problemi di comunicazione
ed interazione; man mano che i membri diventano
più abili nel mettersi in relazione l'uno
con l'altro, i problemi della famiglia e
dei membri individuali dovrebbero migliorare
significativamente (sic... come facciano
a migliorare i problemi !??) Questo approccio è stato particolarmente
utile nel trattare i problemi dei bambini:
infatti lavorare con i bambini da soli ha
spesso portato ad uno scarso successo, mentre
lavorare con loro insieme a genitori e fratelli
mette il terapeuta in condizione di trattare
i problemi dei bambini in modo più ampio
e riuscito.
Questo accade, secondo il terapeuta, perchè
i problemi in questione (ad es. anoressia
nervosa) sono mostrati dal bambino, ma sono
il prodotto delle tensioni all'interno del
sistema famigliare. Ciò è vero particolarmente
nelle famiglie che non riconoscono la presenza
di conflitti: l'anoressia nervosa di una
figlia, o il comportamento delinquenziale
di un figlio distolgono l'attenzione da conflitti
più fondamentali. La terapia, per avere successo,
deve focalizzarsi su quei conflitti e deve
dimostrare che il disordine del paziente
identificato è dovuto a questi conflitti,
invece che alla patologia individuale del
paziente.»
In genere si viene a scoprire che al fondo
di un bambino in una situazione difficile
c'è un blocco delle affettività, le quali
non circolano liberamente all'interno della
famiglia.
Su questo piano è molto importante l'analisi
svolta da Gregory Bateson e dal gruppo di
Palo Alto, in quanto ha evidenziato una sorta
di negazione della logica nelle famiglie,
che porta a situazioni pre-schizofreniche
nei bambini.
Bateson ha evidenziato che se ad un divieto
minaccioso "ti punirò se ..." ne
seguono altri contenenti messaggi di tipo
contraddittorio del tipo "ti punirò
ugualmente anche se...", viene a saltare
il fondamento stesso su cui si basa il "comportamentismo
familiare", ovvero un sistema di premi
rinforzanti e di punizioni "giuste"
scoraggianti.
Questo quadro, di per sè patologico, giacchè
una mancanza di coerenza "logica"
è di per sè patologica, ovviamente trova
una spiegazione nelle insicurezze, nelle
trascuratezze e nei disordini dei genitori.
Nella terapia familiare ha dunque molta importanza
il cambiamento che si riesce ad indurre nei
genitori, i quali devono sforzarsi di essere,
ad un tempo, più affettivi ed estroversi,
ed anche più razionali insieme.
L'idea che il cuore porti da una parte e
la ragione dall'altra è assolutamente sbagliata:
se non si ragiona non si sa amare, e se non
si ama non si sa nemmeno ragionare.
Per quanto attiene le terapie di gruppo vere
e proprie occorre precisare che esistono
un numero molto grande di tecniche e che
ognuna di esse si ispira a modelli teorici
già visti singolarmente.
Chi scrive ha partecipato sia a momenti di
formazione aziendale, fondati sulla pratica
assertiva di taglio comportamentista, sia
a gruppi di orientamento umanistico-esistenziale.
Successivamente ha anche collaborato a confezionare
sceneggiature per gli psicodrammi ed a momenti
di "animazione teatrale" orientati
in senso psicoanalitico e cognitivo.
Soprattutti questi ultimi si sono rivelati
estremamente utili per focalizzare i problemi
dinamici delle situazioni di crisi ed aumentare
il livello della consapevolezza e dell'empatia.
Chi fosse interessato a ricevere qualche
suggerimento può scrivere a guernica@playful.it
Approcci centrati sul problema
Alla base di questo tipo di approccio vi
è il riconoscimento che occorre partire da
ciò che fa "problema" nel comportamento
anomalo di un individuo. Se il problema è
l'alcolismo o la tossicodipendenza, o il
tabagismo, oppure qualche disfunzione sessuale,
o ancora la timidezza, inevitabilmente si
tratta di affrontare alla radice la singola
questione.
Molti contributi significativi alla storia
di questo tipo di psicoterapia sono venuti
da ambienti diversi da quelli tradizionali
psichiatrici od anche solo psicologici.
Ad esempio, nel campo della sessualità, le
nuove impostazioni non vennero, come si poteva
presumere, dalla psicoanalisi, e nemmeno
dal comportamentismo, ma da due ricercatori,
Masters e Johnson, che studiarono autonomamente
il problema delle disfunzioni sessuali.
Nel lavoro intitolato Human Sexual Inadequacy (1970) essi affermarono che si davano due
cause fondamentali alle disfunzioni sessuali:
1) la tendenza ad essere spettatore durante
il rapporto sessuale; 2) la paura di non
essere all'altezza della situazione e quindi
di svolgere il proprio ruolo in modo appropriato.
Scrivono Darley & C. :« Entrambi
questi problemi, facendo concentrare l'attenzione
sul proprio comportamento durante il rapporto,
possono inibire il godimento delle sensazioni,
che presuppone un atteggiamento di non-autoconsapevolezza,
portando alla soddisfazione sessuale.»
Ma prima di Masters & Johnson a Napoli
si diceva già, da tempo immemorabile, "cazzo
duro nun vuole penzieri."
La terapia nei confronti di chi non è più
capace di "lasciarsi andare" non
può che consistere nel lasciarsi andare e
nel trovare un partner "naturale"
ed incoraggiante, che non provi sensi di
colpa, che non cerchi "posizioni"
e che, perlomeno nella prima fase, non concentri
nella genitalità tutta la spinta sessuale.
Naturalmente in molti trattamenti delle disfunzioni
la questione centrale consiste nella riduzione
dell'ansia, la quale può anche essere causata
da problemi di tempo, di situazione e di
ambiente.
Inguaribilmente romantico, chi scrive attribuisce
importanza soprattutto al partner. Perchè
le cose filino realmente lisce occorrono
amore ed empatia. Le tecniche buone sono
quelle classiche del rilassamento e della
costruzione di una situazione di intimità.
Nel caso dell'alcolismo si deve innanzi tutto
considerare che vi è un problema solo nel
caso in cui l'individuo presenti caratteristiche
fisiologiche che rendano insopportabile l'assunzione
di bevande alcooliche.
In base ad una diagnosi per nulla scientifica,
ma ugualmente accettabile, realizzata da
due ex-alcoolizzati che si aiutarono a vicenda
per guarire e poi fondarono un'associazione
di carattere mondiale, con oltre un milione
di aderenti, venne affermato che l'alcoolismo
è un male fisiologico e non un segno di debolezza
psicologica e una forma di autoindulgenza.
Venne cioè rovesciata una visione tradizionalmente
psicologica del problema.
Se l'alcoolismo è un male fisico per il quale
l'individuo non può tollerare l'alcool, l'unica
cura è l'astinenza totale.
In questo caso c'è da considerare che pur
non essendo questa una teoria psicologicamente
accettabile, perchè è vero che l'abuso di
bevande alcooliche rimane un'espressione
di debolezza psichica, ciò che conta sono
i risultati.
Un altro approccio centrato sul problema
è quello che riguarda le tossicodipendenze.
Su questo terreno proliferano i tentativi
psicoterapeutici di tutte le scuole e si
toccano forme estreme dal massimo di soft
al massimo di hard.
In genere la terapia individuale basata sulla
ricostruzione della storia individuale del
soggetto viene ormai decisamente penalizzata
in nome della psicoterapia di gruppo, di
comunità fondate su principi comportamentistici
e quindi intrinsecamente autoritarie, oppure
su comunità di tipo etico-politico nelle
quali viene data enfasi alla critica della
società come disumana e ingiusta, dunque
orientate in senso democratico, cooperativo
e autogestito.
In questi casi il problema non sta tanto
nella correttezza delle analisi, di solito
piuttosto grossolane, quanto nel fatto che
questo tipo di analisi incentiva comunque
a pensare e quindi, in qualche caso, può
anche portare a forme superiori di consapevolezza.
In genere viene data molta importanza al
lavoro pratico, e questo è un modo serio
per tornare alla realtà, alla cooperazione
ed alla interscambiabilità dei ruoli.
Forse non tutti lo sanno, ma molti di questi
principi furono affermati da Alfred Adler
e dalla sua Psicologia Individuale, un orientamento
che venne distaccandosi dalla psicoanalisi
ufficiale ai tempi di Freud.
Per Adler, il nevrotico, il dissociale o
sociopatico, ed anche il tossicodipendente,
improntano sempre le loro compensazioni negative
ad una concezione distorta e iperdifesa della
vita, che li costringe a elaborare una enorme
"distanza" emotiva dai loro simili.
La comunità terapeutica è dunque l'occasione
di una rifondazione di se stessi in una microsocietà
nella quale sei costretto a cooperare ed
ad abbassare le iperdifese, nonchè a rivedere
le concezioni più distorte.
Vi sono comunità, probabilmente più serie,
che danno maggior rilievo agli aspetti autocritici,
senza peraltro scadere in insensati "è
tutta colpa mia", ed altri che privilegiano
invece la critica politica e sociologica
alla società e che, purtroppo, finiscono
col negare "che sia anche colpa mia." Trovare un equilibrio non
è facile.
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cactus - centodueanni di psicoanalisi - 25
marzo 2001