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Giulio Preti: autocoscienza sensibile e principio di verificazione
di Daniele Lo Giudice
Tra idealismo ed empirismo, e, quindi, tra autocoscienza sensibile e principio di verificazione «si può stabilire una forte associazione operativa, tale che la dottrina dell'autocoscienza sensibile, considerata come programma, richiede per realizzarsi, l'uso sistematico del principio di verificazione [...] » (1) Per la filosofia della praxis, l'uno implica l'altro e viceversa; autocoscienza sensibile e principio di verificazione si sostengono a vicenda.
Il principio di verificazione è stato più volte messo a punto. Oggi si presenta in una forma molto più elaborata che in passato. Tuttavia, esso ha conservato un suo carattere fondamentale: dice che le asserzioni scientifiche sono prive di senso fattuale laddove una parte degli enunciati incorporati da una qualsiasi disciplina non trovi corrispondenza nella realtà sensibilmente percepita. Dunque: o sono veri, o sono falsi. La luce della Luna è bianca se e solo se essa è veramente bianca. «Però - osserva Preti - si è sempre saputo che in un discorso scientifico ci sono molto spesso enunciati non suscettibili di verificazione. Erano chiamate "ipotesi"; parola pericolosa, dietro alla quale si celava l'illusione che tali enunciati potessero essere empiricamente veri, e solo allo stato attuale della scienza non verificabili per deficienze tecniche. Ma poiché era chiaro che tali "ipotesi" erano inverificabili per principio, e non per mera deficienza tecnica, si introdusse un'altra illusione: che si potessero verificare mediante il procedimento induttivo. Ma la problematica dell'induzione ha messo in evidenza come propriamente induttive siano solo generalizzazioni statistiche, le quali, tra l'altro richiedono una Logica diversa da quella del vero-falso; mentre gli enunciati generali, le cosiddette ipotesi, o sono mere tautologie o si verificano solo attraverso le conseguenze ('se "p" allora "q"; ma "q" si verifica; quindi "p" '), che è un pessimo modo di verificare, perché una proposizione vera può essere una conseguenza di una proposizione falsa.» (2)
Anche per questo, dovremmo abbandonare la concezione paleo-empirista di verità e abbracciare un concetto più ampio secondo il quale «il diritto di cittadinanza» di un enunciato entro un discorso può risultare di tipo diverso. In particolare, Preti sottolinea che tale «diritto di cittadinanza» spetta anche a tipi di verità endolinguistici come la verità sintattica, C-verità, e la verità semantica, o L- verità. «In tal caso il principio di verificazione richiede che una classe degli enunciati del discorso, la classe delle conseguenze o enunciati derivati (dedotti) sia costituito di proposizioni F-vere, ossia enunciati o direttamente verificati (verificabili) o associati per corrispondenza a protocolli o proposizioni protocollari, per definizione verificati (verificabili). Gli altri enunciati del discorso, di per sé privi di senso (quindi non proposizioni) acquistano un senso solo nel sistema discorso, in virtù dell'insieme di proposizioni verificabili che ne discende e che ne costituisce il senso indiretto o senso associato.» (3)
C'è però una difficoltà. Il principio di verificazione appare privo di senso, essendo a sua volta principio non verificabile. Infatti, non contiene alcun criterio per la sua stessa verificazione. E' metafisico. Ma proprio perché attorno alla sua contestazione verte tutta la polemica antiempirista dobbiamo salvarlo. Come? «Osserviamo - dice Preti - che il principio di verificazione non ha conseguenze (nel senso preciso di enunciati derivati o dedotti) entro qualsiasi sistema di conoscenze presentato dall'empirista logico. La sua portata è metodica e critica: dirige il modo con cui l'empirista ritiene di dover procedere nelle sue ricerche e costruzioni concettuali e sta alla base delle critiche che egli muove alla Metafisica che trova presente e nella filosofia e spesso anche nella scienza tradizionale.
Il principio di verificazione non è dunque un'asserzione, e non si presenta con la forma di un'asserzione: non è e non pretende di valere come una conoscenza. E' una regola di metodo, cioè un enunciato normativo, che enuncia un ordine, un comando, un consiglio, ma non asserisce un fatto (nel senso più largo della parola).» (4)
Affinché una regola abbia valore in seno ad una cultura, dice Preti, che essa non può essere fondata «su di un mero sic iubeo arbitrario.» Ma indicare dei motivi non vuol dire esibire prove o dimostrazioni. Un buon motivo potrebbe essere quello di considerare i suoi effetti. Ma, anche, solo tecnicamente, perchè l'applicazione della regola favorisce il conseguimento di determinati scopi, e perfino perché essa risponde all'assunzione di determinati valori, come la persuasione razionale e la democrazia. Il principio di verificazione, dunque, sarebbe un principio pratico e non teoretico.
Ma, in un certo senso, il principio di verificazione, è sempre un enunciato metalinguistico, cioè sta oltre lo stesso linguaggio che viene utilizzato per enunciare qualcosa. «Infatti un enunciato metalinguistico può essere tanto teoretico (contenere asserzioni intorno a enunciati linguistici) quanto normativo o valutativo (contenere prescrizioni o valutazioni intorno ad enunciati linguistici), esattamente come un enunciato semplicemente linguistico. E ciò per il fatto di essere metalinguistico non cessa di essere linguistico. Questo punto è molto importante, per le sue due opposte implicazioni. La prima, che occorre sempre stabilire se un enunciato è linguistico o metalinguistico, se porta su cose o su fatti linguistici - la mancata distinzione di questi due livelli è una delle tante matrici della Metafisica ed è fonte di innumerevoli confusioni e non-sensi. Ora, per la teoria russelliana (e anche post-russelliana) dei tipi, un enunciato non porta mai su argomenti dello stesso livello, tanto meno poi su se stesso. Esso quindi non può venire invocato a falsificare o provare se stesso - e la sua verificazione può essere di ordine affatto diverso, se si tratta di un enuciato metalinguistico, da quella degli enunciati linguistici su cui porta. Come è vero che "altro è il parlar di morte, altro è il morire", così è vero che "altro è il parlar di parlar di morte, altro è il parlar di morte".» (4) Così, anche se volessimo considerare teoretiche e non normative le proposizioni logiche e metodologiche, potremmo trovar loro una fondazione empirica, cosa che è sfuggita a Frege, Russell e Husserl. Inoltre, non è detto che la metalinguistica debba avere toto coelo una fondazione o motivazione diversa da quella dei discorsi semplicemente linguistici su cui porta. Non c'è distinzione assoluta: per Preti non esistono, dice «probabilmente», universi di discorso puramente linguistici, visto che è solo comparativamente ad altri enunciati che si può stabilire se un enunciato appartiene al livello superiore.
Pertanto, tornando al principio di verificazione, possiamo dire che si fonda su motivazioni che consistono di asserzioni fattuali empiriche. In particolare, di empiria storica. Coloro che accusano l'empirismo logico di a-storicismo, non conoscono bene gli argomenti cari all'empirismo stesso, altrimenti si accorgerebbero come le analisi non siano mai condotte sub specie aeternitatis. D'altra parte, secondo Preti, ogni crisi della scienza è stata superata con un ulteriore ricorso all'esperienza: «Tutte le volte che si sono presentati sistemi concettuali che non ammettevano ... una verifica empirica, non è stato possibile decidere tra di essi, ed ognuno ha continuato ad avere in egual numero partigiani ed avversari... E questa affermazione è storico-empirica, non speculativa.» (5)
Ma affinché si possa parlare di esperienza, occorre - come dice Husserl - costituire intenzionalmente un oggetto e non alludere ad una trascendenza. Bisogna quindi che l'oggetto sia dato in essa, interamente descrivibile. Ciò significa che quando vedo un armadio, non lo vedo mai tutto. Devo girarci attorno, spostarlo, aprirlo, persino abbattere la parete (sic) per vederlo tutto. «Di più - dice Preti - quello che non vedo è "motivato" da quello che vedo: con un meccanismo noto da molto tempo, e che si chiamava "associazione di idee" (Husserl la chiamava "sintesi passiva"), le parti non vedute vengono integrate dalle parti "date", sulla scorta di esperienze passate o di richiami analogici.» (6) E ciò non basta ancora. Anche i metodologi razionalisti come Dingler e non solo gli empiristi, insistono nel dire che le esperienze devono essere ripetibili e intersoggetive. Che intersoggetivo voglia dire oggettivo è fuor di dubbio, ma il termine è usurato dagli abusi, ed è quindi meglio parlare di una intersoggetività che, se non altro, rimanda al fatto che indagare è pur sempre un'attività e non un passivo rispecchiamento.
Il punto di incrocio tra empirismo positivista e filosofia della praxis va dunque cercato nel collegamento tra principio di verificazione e nozione di autocoscienza sensibile. Quello dell'autocoscienza è un classico della filosofia moderna. Preti evidenzia che nel cogito cartesiano, tuttavia, non è affatto evidente il designatum dell'ego. Se l'idealismo diviene solipsismo, come in effetti accadde in Cartesio, non può venire insegnato e comunicato. Accettandolo lo si contraddice, in quanto per affermarlo, bisogna anche affermare la propria esistenza prima ed assoluta, negare che sia prima ed assoluta l'esistenza di chi ce lo ha insegnato... (beh, devo dire che questo è proprio uno dei passaggi più infelici tra gli scritti di Preti!). Preti, comunque, insiste a leggere il solipsismo cartesiano come un paradosso da correggere: «... bisogna togliere a "ego" quella ambiguità sistematica che è propria dei pronomi personali, ... usarlo come un nome, ... fissare l'Ego come una costante, farne un unico "ego".» Solo così all'idealismo trascendentale diviene possibile distinguere tra ego empirico e io Assoluto, rispetto al quale "Io" è un nome e non un pronome, il nome che designa un'entità trascendente ogni "io" empirico. Così Cartesio, e più tardi Fichte. Ma esso ha perso evidenza e significato. «Questo "Io" - scrive Preti - è qualcosa che deve venire astratto ad opera del pensiero speculativo - Husserl ha visto chiaramente che a questo scopo occorre una doppia riduzione, la riduzione eidetica e la riduzione trascendentale. E' qualcosa quindi che deve venire ottenuto, costruito, togliendo dalla nozione dell'io-pronome tutto ciò per cui "io" può sostituire una molteplicità di nomi; cioè, appunto, il suo carattere di segno per un nome di persona, il suo riferimento alla persona.» (7)
Partire dall'autocoscienza sensibile significa allora che conoscere vuol dire fare esperienza della cosa fisica, del piacere, del tatto, della vista, del l dolore. Lo "spirito" si può raggiungere come risultato di un'attività sensibile pratica. Così l'io diviene intersoggettivo, apprendendo sia cosa è per sé, sia cosa può essere per gli altri.
E qui, proprio a questo punto, possiamo dire che il principio di verificazione trova che l'unica coscienza che abbia senso è quella che, mediatamente o immediatamente, si riporta all'autocoscienza sensibile e su essa fonda le proprie certezze, i propri dubbi, quel poco che sa e quel molto di cui cerca spiegazioni. .
L'autocoscienza sensibile, se non vogliamo limitarci ad enunciarla come antitesi di altre forme di autocoscienza, deve, per Preti, essere indagata grazie a tre discipline autonome ed empiriche: psicologia, sociologia e logica. Il soggetto singolo, l'individuo, non è mai un fatto privato, bensì una realtà che emerge dal milieu sociale. Tra psicologia e sociologia c'è complementarietà. Ma ciò comporta importanti conseguenze: Preti esclude dalla psicologia empirica l'introspezione, bollata come "cattiva retorica da maestrine elementari", e si volge decisamente in direzione del comportamentismo. I marxisti, osserva Preti, non condividono tale simpatia, ma sbagliano e dimenticano che il comportamentismo è stato anticipato da Feuerbach "e risulta a fortiori dalla filosofia della praxis di Marx, per la quale la sensibilità è un fare, e quindi già essa stessa un comportamento". Persino la psicoanalisi è comportamentistica, anche se Freud era tutt'altro che behaviorista. «Lasciata da parte tutta la mitologia freudiana, "Es", "Ego", "Superego", "complessi", ecc, possono costituire un utile apparato per descrivere meccanismi di origine e di guarigione di nevrosi...» (8) Ma elogiare la psicoanalisi e criticare l'introspezione, non è un controsenso? Preti è convinto di no, e motiva tuttavia il rifiuto con un riconoscimento un po' paradossale: lo psicologo che studia il comportamento animale non ha bisogno di sapere cosa prova un cane quando si dice che ha fame. Questo perché noi abbiamo già una Erlebnis della fame. In fondo tutta la nostra vita etica si basa sulla nostra stessa Erlebnis.
Quanto alla sociologia, Preti non si discosta molto da un orientamento altrettanto behavioristico. «Strutture ed istituzioni sociali esercitano una tipica pressione su tutti gli individui, attraverso le varie forme di condizionamento (educazione) diretto e indiretto... »; ma si potrebbe obiettare che le istituzioni sociali non sono comportamenti. In effetti, è parzialmente vero. In primo luogo esse sono condizioni obbiettive. «Ma uno studio dei comportamenti non potrebbe rendersi significante se i comportamenti stessi non fossero relati alle loro condizioni: questo vale tanto in Fisiologia quanto in Psicologia e Sociologia. Una descrizione della respirazione non significherebbe nulla senza una conoscenza chimica e fisica dell'aria (per i pesci, dell'acqua); né i comportamenti sociali significano nulla senza una conoscenza delle istituzioni. Un giudice giudica in un tribunale così e così costituito e secondo queste e queste leggi, così e così enunciate; un insegnante insegna in una scuola così e così costituita, con questa determinata disciplina, questi determinati programmi, eccetera. Quindi anche in una Sociologia comportamentistica va tenuto conto delle istituzioni, se non altro come condizioni dei comportamenti. Ma, in secondo luogo bisogna considerare che le istituzioni stesse in tanto hanno una realtà in quanto determinano comportamenti sociali, in quanto la vita dei membri della società, o di vasti gruppi in essa, resta comunque influenzata, diretta, stimolata dall'esistenza e dall'azione di tali istituti. Di fatto, anche le istituzioni sono comportamenti.» (9)
Ovviamente, la sociologia studia i comportamenti di massa; ad esempio, rispetto ad un istituto come il matrimonio non si occupa della psicologia dei coniugi, ma degli effetti collettivi sulla popolazione, la stabilità dei costumi e delle strutture sociali. Ovviamente, una sociologia comportamentistica dovrà avvalersi di numerose scienze antropologiche: economia politica, storia, diritto, biologia, oltre che psicologia. Purtroppo, secondo Preti, vi sono stati comportamentisti "disonesti" che hanno ignorato questi aspetti indispensabili per fare della pura propaganda politica. Alcuni marxisti hanno avuto il torto di cadere nel tranello, attribuendo all'intero movimento comportamentista-fisicalista le ignobili affermazioni di una parte di esso, quali ad esempio le affermazioni che non esiste una classe di lavoratori dipendenti, ma solo individui che scambiano lavoro e servizi, ognuno attore individuale. In sostanza, Preti chiedeva così ai marxisti di riaprire un confronto più sereno con le scienze antropologiche, e persino con l'economia politica "borghese".
Al di là di psicologia e sociologia, c'era infine la logica. Preti avverte subito della necessità di guardarsi dalle facili definizioni. della logica "come scienza del pensiero" e "parte della psicologia". «Ora, poiché il "pensiero" nei suoi comportamenti osservabili non sillogizza, ma spesso i suoi procedimenti sono ben diversi dagli schemi logici, si è dovuto ricorrere al pietoso ripiego di creare il mito di un pensiero "logico": e da questo è nato, naturalmente, anche l'altro mito, di un pensiero "alogico" o "prelogico". Nelle grandi polemiche che da Husserl e da Frege in poi sono state condotte contro lo psicologismo logico si è ripetutamente osservato che la Logica, nella sua configurazione tradizionale, non descrive in nessun modo e in nessun senso dei processi psicologici effettuali: essa è disciplina meramente formale, ha a che fare con schemi o forme o strutture, non con "operazioni mentali". Vedano gli psicologi se è possibile isolare effettivamente una classe di comportamenti cognitivi e razionali; una tale possibilità non è negata da nessuno dei logici antipsicologisti - si afferma soltanto che una tale scienza (o parte di scienza, che sarebbe un capitolo della Psicologia) non avrebbe comunque su quell'altra scienza, che è la scienza della Logica), una portata maggiore di quanto una Psicologia dei comportamenti di computo e misura l'avrebbe sulla Matematica...» (10)
Husserl, Frege, Russell avevano una loro metafisica che asseriva che le forme dell'apofansi e dell'apodissi pura (11) riflettevano una struttura ontologica del Logos coglibile attaverso una pura intuizione razionale. Però, nota Preti, così come la matematica sopravvive benissimo anche senza la mistica pitagorica del numero, che pure è responsabile della sua fondazione, così anche la logica può sopravvivere senza il platonismo di Frege e Russell. Come già notato dai terministi medioevali, dagli stoici e persino da Aristotele, la logica è scienza sermocinalis. Discorso. «Essa insieme descrive e costruisce le regole del linguaggio - o dei linguaggi - della scienza (delle scienze). A modo suo, anch'essa è una scienza del comportamento: ma non dei processi mentali cognitivi, bensì del comportamento linguistico nel discorso scientifico. Essa è al contempo normativa e descrittiva: infatti non descrive tutti i comportamenti linguistici in campo scientifico, ma sceglie quelli che l'esperienza ha mostrato condurre a conseguenze accettabili; su questa base essa, come ogni altra scienza, può anche tentare estensioni e anticipazioni dell'esperienza mediante la propria formalizzazione, ossia costruzione sistematica. Il carattere normativo suo proprio non è diverso da quello delle altre scienze: quando essa stabilisce, per esempio, che una forma di discorso scientifico è scorretta lo fa sulla base della non accettabilità o della poco probabile accettabilità di tutte le forme analoghe secondo esperienze di discorso già compiute. Se studiamo le origini della Logica antica o della Logica matematica vediamo che sono nate proprio così. Nel caos prodotto dal libero uso della parola introdotto da sofisti ed eristi, alcuni sofisti, ma soprattutto Platone, l'Accademia e Aristotele hanno cercato di fare un'opera di selezione: hanno mostrato, per esempio, come molti paradossi sarebbero stati evitati ove si fosse eliminata l'equivocità delle parole in essi usate - e così hanno elaborato la regola dell'univocità dei termini, in particolare del termine "medio".» (12) Anche la logica matematica nacque allo scopo di rispondere al caos provocato dall'aritmetizzazione dell'analisi e dallo sviluppo della teoria degli insiemi. Ecco Peano e Russell.
Anche per questo si può dire che la logica è scienza normativa, cioè scienza del valore e del dover essere. Sulla distinzione tra scienza di ciò che è e scienza normativa, Preti osserva che tale distinzione è indubbiamente utile, ma troppi filosofi l'hanno enfatizzata creando un'opposizione dualistica con metodologie toto coelo differenti. Il che non è in quanto, rimanendo alle discipline valutative, esse devono pur fondarsi su qualche ragione, e «queste ragioni sono sempre, almeno per una parte anche se non totalmente, (come invece sembrerebbe sostenere il Dewey), ragioni attinte alla conoscenza, cioè ragioni descrittive.» (13)
(1) Praxis ed empirismo, cit. cap. II
(2) ivi,
(3) ivi,
(4) ivi,
(5) ivi
(6) ivi,
(7) ivi,
(8) Praxis ed empirismo, cit. cap. III
(9) ivi,
(10) ivi,
(11) apofansi, discorso apofantico, ovvero un enunciato verbale che può dirsi o vero o falso; apodissi, discorso apodittico, cioè dimostrazione.
(12) Praxis ed empirismo, cit. cap. III