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Giulio Preti: teso confronto con Geymonat e la sua proposta di un nuovo razionalismo
di Daniele Lo Giudice
Prima di entrare in modo diretto nelle pagine di Praxis ed empirismo, è bene svolgere un po' di cronistoria. Dopo il crollo del regime fascista e l'instaurazione della Repubblica, anche il mondo filosofico nazionale tende a spaccarsi in due partiti "metafisici": marxisti e cattolici. Due partiti che rispecchiano la frattura geopolitica esistente sul piano internazionale ma, che non la ricalcano che per linee molto superficiali. Sarebbe, ad esempio, gravemente erroneo far coincidere il pensiero cattolico con una difesa acritica del mondo occidentale, come sarebbe ingiusto rappresentare i marxisti come i fedelissimi di Mosca e Stalin. Sarebbe più esatto dire che sia i marxisti che i cattolici subiscono, non senza fastidio, la divisione internazionale, anche se tra i cattolici non mancano posizioni di anticomunismo estremo e tra i marxisti non mancano atteggiamenti di radicale contestazione della religione in quanto "religione" ideologica.
In realtà, per quanto attiene una sostanziale adesione allo spirito dell'occidente, cioè del mix di capitalismo, diritti dell'uomo e della donna, democrazia e impresa scientifica, la vicenda più significativa è quella dell'area laica, raggruppamento di uomini e tendenze che si oppone agli opposti dogmatismi. Le figure di spicco sono Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio, Mario Dal Pra, Eugenio Garin ed Enzo Paci. In questo gruppo non mancano, per la verità, le attenzioni al marxismo, da Geymonat a Paci, passando anche per Preti. Ma se vogliamo trovare un vero tentativo di connettere il pensiero del primo Novecento al marxismo, dovremmo guardare a Banfi. Questi, con il saggio Verità e umanità nel pensiero contemporaneo, pubblicato su "Studi filosofici" all'inizio del 1947, assume una posizione critica nei confronti di tutte le tendenze filosofiche presenti, in particolare esistenzialismo, spiritualismo, idealismo, relativismo e irrazionalismo.
Preti si distanzia da Banfi per l'ovvio motivo che egli non si considera un "marxista", non già perché non apprezzi il pensiero di Marx e di alcuni altri marxisti, bensì perché viene maturando una posizione filosofica molto più plastica e duttile. Nel 1949 nasce la rivista "Methodos", dominata dalla figura di Silvio Ceccato ed alla quale collabora anche Preti. Essa tende ad una forma di razionalismo più aperta rispetto a quella banfiana. La rivista ospita sia trattazioni di logica simbolica che ricerche sul metodo vicine all'operazionismo di Bridgman e al convenzionalismo di Dingler. Da un lato Ceccato insiste su una concezione del conoscere come gioco condotto secondo regole, e i collaboratori insistono sulla ricerca di una disciplina metodologica. Dall'altro lato, Preti tenta ancora di contrapporre ad una metodologia sempre più tecnica il respiro di una filosofia in grado non solo di rendere rigoroso l'ambito conoscitivo, bensì di renderne possibile anche la ricostruzione unitaria. Come annota Dal Pra, siamo «sul piano di un razionalismo più cauto di quello banfiano e più preoccupato dei procedimenti metodici dell'intelletto e degli incontenibili sviluppi dell'esperienza, ma nello stesso tempo volto ad estendere il significato del convenzionalismo a un orizzonte critico più ampio e capace di realizzare il ricupero sia del problema filosofico della conoscenza, e pertanto della realtà, sia del problema del significato unitario del sapere e dell'ontologia corrispondente.» (1)
Il panorama dell'area laica, per sua intrinseca vocazione, è una costellazione di personalità vivaci e indipendenti l'una dall'altra. E' pertanto comprensibile che le differenziazioni tra un filosofo e l'altro prendano via via consistenza. Del resto, l'esigenza di un confronto vivo e serrato delle varie vie della laicità spinge alla realizzazioni di convegni, cioè di confronti non solo accademici e a distanza. Già nel '45, Preti aveva preso posizione su un lavoro di Ludovico Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo (2), nel quale Geymonat sosteneva che il neo-empirismo vuole essere «un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantavano il medesimo nome.» Il nuovo razionalismo deve essere contemporaneamente «critico, ossia capace di di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negli ultimi anni; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ricostruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano.» Oltre queste affermazioni, Geymonat non mancava di precisare la necessità di un rigore metodologico.
Geymonat attribuisce un singolare significato filosofico unitario e razionale a due avversioni distinte. Essere contro impostazioni metafisiche e idealiste coincide con l'essere antifascisti, cioè antidogmatici. Commenta Dal Pra: «Che in tal modo l'appello al nuovo razionalismo abbia quasi un valore metaforico risulta con chiarezza dai caratteri che Geymonat attribuisce alla ricerca razionale quando riconosce che essa "ha inizio con un atto di precisazione e postulazione, di carattere ineliminabilmente convenzionale"; o almeno, le costruzioni razionali non sono più fornite dei caratteri di assolutezza e di necessità ad esse attribuite dai metafisici. E anche nello studio dedicato al Pensiero di Kant alla luce della critica neoempiristica, già pubblicato proprio in "Studi filosofici", Geymonat opera un taglio netto tra il nuovo razionalismo e la dottrina di Kant, in quanto la distanza che corre tra categorie kantiane e il fondamento delle proposizioni primitive delle scienze esatte è decisivo, nel senso appunto che le categorie hanno in ultimo un carattere psicologico che "oggi è fuori discussione", mentre le proposizioni primitive delle scienze esatte, come del resto gli stessi enunciati della logica che sta a fondamento del discorso, hanno soltanto carattere convenzionale. La ragione, insomma, non mette capo a strutture "tratte dall'induzione psicologica", e pertanto necessarie; essa si rifà, per contro, a proposizioni valide perché "accettate", "fissate", "postulate a priori". L'ultima base della ragione è la postulazione; e ogni pretesa fondazione assoluta che voglia andare più in là è illusoria.» (3)
Nel saggio I limiti del neopositivismo, pubblicato su "Studi filosofici", fascicolo VII del 1946, Preti considera molto criticamente le posizioni di Geymonat. Comincia col dire che uno dei limiti del neopositivismo consiste nel suo privilegiare la costruzione metodica a scapito del rapporto tra enunciati protocollari e l'esperienza, mentre, ragionando di fisica, «è necessario che ai concetti che si usano corrispondano in qualche modo delle cose reali e che gli assiomi che definiscono logicamente i concetti e fungono da premesse generali esprimano in qualche modo dei comportamenti reali di quelle stesse cose.»
Preti, come spiega Dal Pra, tiene in maggior conto la logica trascendentale e i concetti di "causa", "sostanza", "numero" che svolgono una funzione fondamentale di tutte le scienze. Tali concetti non sono nozioni empiriche e nemmeno ipostasi metafisiche; ancor meno sono assimilabili a concetti primitivi il cui uso nel linguaggio delle scienze "possa essere regolato da un sistema di assiomi". Cosa sono allora le categorie? Per il Preti del 1946, esse sono «concetti puri a priori che regolano la trasformazione dei dati empirici in tautologie logiche in seno ad un dato sistema», ovvero «forme di traduzione dell'esperienza in pensiero.» Seguendo tale impostazione, abbiamo che «la mancanza di una dialettica trascendentale come legge generale della deduzione e dello sviluppo fenomenologico delle categorie della scienza rende impossibile al neopositivismo di poter impostare molti problemi autenticamente epistemologici che ci sono stati trasmessi dalla tradizione filosofica avvolti in un velo metafisico.»
Restando all'interpretazione di Geymonat, sostiene Preti, la filosofia tutta intera rischia di essere travolta. Ovvero, non si capisce, con Geymonat, come sia ancora possibile elevarsi dal piano dell'intelletto a quello del pensiero di idee. Non si tratta solo di distinguere tra problemi metafisici da eliminare e problemi metafisici da convertire in un linguaggio logico con significanza epistemologica, ad esempio il problema del "mondo reale". Si tratta, semmai, di considerare che nel convenzionalismo non si reperiscono i mezzi per andar oltre i confini da esso stesso tracciati. La mosca non può uscire dalla bottiglia.
Tra l'approccio razionale che Preti sente doveroso difendere e "il nuovo razionalismo" di Geymonat c'è dunque lo scarto che intercorre tra una teoria filosofica completa ed una posizione incompleta. Una posizione che non si accorge della sua parzialità e «crede anzi di coprire tutta quanta l'estensione possibile del razionalismo.»
In proposito, commenta Dal Pra: «Preti, dunque, non contesta che si possa discorrere di razionalismo, ma afferma che esso non può coincidere con la teoria convenzionalistica e che, mentre questa si propone come dottrina esplicativa e costitutiva del metodo delle scienze matematiche, esso deve venir elaborato come una completa teoria del sapere, con un maggiore raggio di generalità e con uno sforzo maggiore di unificazione. E' comunque abbastanza significativo che Preti, il quale alle posizioni dell'empirismo logico doveva accostarsi anche in forma più accentuata, sia stato sollecitato a mantenere un distacco da esso, fin dall'inizio, per esempio nella controversia con Geymonat, rispetto alle funzioni critiche più ampie della ragione.» (4)
Un successivo intervento di Preti su "Analisi" evidenzia due osservazioni: da un lato Geymonat ha "fortemente accentuato gli aspetti razionalistici" del neoempirismo, oscurando così quelli più propriamente empirici, ad esempio le tesi "machiste". Dall'altro lato, il pensiero di Geymonat "minaccia di dileguare in un irrazionalismo" quando sostiene soltanto la natura convenzionale della sintassi logica del linguaggio. E qualora si facesse ricorso a motivi pragmatici per giustificare la scelta di una sintassi logica in luogo di un'altra, ciò sarebbe ancora più evidente. «La prospettiva filosofica - annota Dal Pra - tende a giustificare le varie geometrie e le varie logiche come casi speciali di una logica universale: è quella "metalogica" alla quale si riferisce di frequente Rudolf Carnap e rispetto alla quale il razionalismo di Geymonat - troppo matematizzante da un lato, e troppo "timido" in quanto non si spinge a "un'analisi completa della problematica del sapere scientifico"; d'altra parte, concludeva Preti, "in generale si può dire che la filosofia incomincia esattamente là dove cessa la sfera d'azione del neopositivismo", anche se è necessario riconoscere che la filosofia "viene dopo l'analisi positivista, non prima o fuori " di essa.» (5)
Di grande rilievo diventa, in questa prospettiva, l'intervento di Preti al convegno di Torino del 1953, convegno aperto da tre relazioni. La prima, svolta da Nicola Abbagnano, aveva per tema criteri per un'interpretazione non metafisica della ricerca filosofica. Geymonat tematizzò l'applicazione di tali criteri ai rapporti tra indagini filosofiche e ricerche scientifiche; Norberto Bobbio, infine, spinse l'indagine intorno a come gli stessi criteri si potevano applicare al rapporto tra ricerca filosofica e attività politica. «Geymonat nella sua relazione si interrogava - ricorda Dal Pra - su ciò che la filosofia potesse offrire di utile alla ricerca della varie discipline scientifiche; e, poiché doveva escludersi che ad essa fosse riservato il compito di costruire la sintesi delle scienze, le poteva competere specialmente di considerare i rapporti tra i metodi delle varie scienze e di intervenire modificandoli criticamente dall'interno; la filosofia doveva pertanto intendersi, concludeva Geymonat, come metodologia e come coscienza storica dell'evoluzione delle scienze e degli intrecci ai quali essa va incontro, non senza una prospettiva di unificazione del sapere; ma Geymonat ebbe cura, in particolare, di giustificare il compito della filosofia della scienza rispetto alle scienze, più che il compito semplicemente della filosofia rispetto alla scienza.» (6)
Del tutto diversa la posizione di Preti, per il quale la filosofia doveva proporsi come sintesi del sapere scientifico, anche se in modo nuovo e diverso rispetto al modello positivistico. Per far ciò, occorreva evidentemente non incagliarsi in considerazioni solo metodologiche. «Il filosofo considera ogni disciplina ... ponendo attenzione ai suoi rapporti con le altre discipline; nasceva così il problema di determinare il carattere di scientificità che è proprio di tutte le scienze che è proprio di tutte le scienze e il carattere della loro unità che non comportasse il disconoscimento di alcuna; insomma, compito della filosofia è quello di sottrarre la scienza al puro suo livello tecnico e di inserirla nella storia della cultura; d'altra parte, non era facile evitare, da tale prospettiva, un certo precettismo della filosofia rispetto alla scienza o anche la metodologia astratta.» (7)
Non si era ancora spenta l'eco del convegno di Torino, che lo stesso nutrito gruppo di filosofi si ritrovava a dicembre dello stesso anno, il 1953, a Milano per un confronto centrato su tre relazioni svolte rispettivamente da Geymonat, Preti e Abbagnano. Ma i temi affrontati furono due: 1) critica dei concetti filosofici derivanti da fasi arretrate della ricerca scientifica; 2) contributi alla teoria sociologica generale. Marcello Pera sottolinea che fu l'intervento di Preti a sollevare le maggiori discussioni. (8) «Con un'impennata brusca ma caratteristica del suo pensiero, Preti - proprio lui che aveva sottolineato i limiti filosofici del neopositivismo - rimise in circolazione una concezione veteroempiristica della filosofia. Fece il discorso del "non mi interessa": o la filosofia è scienza, oppure solleva problemi non interessanti. Oggi - disse Preti - rivolto a coloro che erano "preoccupati di salvare l'autonomia del sapere filosofico" - "non è più necessaria una definizione differenziale che stacchi la filosofia dalla 'scienza', definizione differenziale che implicava un'affermazione della necessaria scientificità della filosofia.» Così, proseguiva Preti, «anche la filosofia (sempre nell'ipotesi che esista una cosa denotabile come con tale nome) può tranquillamente elaborare il proprio universo del discorso, con i propri criteri di inferenza e verità, di deduzione e di induzione, ecc., in modo da poter adempiere ai propri scopi e rispondere alle proprie domande.»
Non disgiungibile da questa linea di pensiero pare il successivo intervento di Preti al convegno di Firenze del 1956, dove in sottile polemica con le posizioni di Eugenio Garin, egli sottolinea l'estrema importanza di considerare il confronto e il succedersi della teorie filosofiche in termini di continuità e discontinuità. Per Garin, non esiste la Filosofia, una specie di tribunale che sentenzia su filosofi e filosofie; esistono uomini che hanno cercato una consapevolezza critica. Lo storico della filosofia deve quindi cercare differenze e somiglianze, unità di metodo e di linguaggio, ciò che rende comune uno sfondo ed un fondo. Secondo Preti, quando si fa storia della filosofia, non si può prescindere dalle tradizioni, dalle scuole e dalle correnti. «Collocare storicamente un pensatore significa allora "determinare il rapporto del pensatore che si studia con una tradizione. E' indubbio che nella storia della filosofia c'è una continuità di tradizioni. Ogni pensatore si inserisce in una o in alcune di esse: riceve e modifica. E questo aspetto è molto importante." Perché "va bene l'indagine filologica, va bene l'indagine storica" ma non bisogna dimenticare che si sta parlando di storia della filosofia, cioè di sistemazioni razionali organizzate secondo precise logiche e inserite in determinate tradizioni. E' qui che si pone il problema della continuità o della discontinuità. Preti sostiene che in tale ottica si può dire, ed egli lo dice, "che qualcosa di simile ai 'precursori' nella storia della filosofia si trovano; e ho detto anche che non sono un partigiano della continuità ad ogni costo. Ma neppure della discontinuità. [...] Senza l'una o senza l'altra va perduta la natura del mondo storico, così come va perduta la natura del mondo fisico.» (9)
(1) M. Dal Pra - Il razionalismo critico - in La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
(2) L. Geymonat - Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore, Torino 1945
(3) M. Dal Pra - Il razionalismo critico - in La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem
(8) Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza - in La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
(9) F. Restaino - Il dibattito filosofico in Italia (1925-1990) - in vol. X della Storia della filosofia - di Nicola Abbagnano nell'edizione TEA 1996