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Platone (genesi, sviluppo e crisi della dottrina delle idee)
di Renzo Grassano


1 Ripresa
2 Cratilo
3 Menone
4 La funzione delle idee
5 L'idea di bene
6 Il Demiurgo
7 Ancora sul bene e sul bello, la cui contemplazione procura la felicità
8 Obiezioni alla dottrina delle idee
9 Il Forestiero Eleate

La mia spiegazione di Platone riprende esattamente da dove era stata interrotta da Guido Marenco, ovvero dall'esposizione della dottrina delle idee.

Nel Fedone, Platone aveva cercato di dimostrare che oltre all'idea di uguale, quella da cui non possiamo prescindere in qualsiasi forma di ragionamento scientifico, come in geometria, od anche in fisica, quando ad esempio si parla di proprietà dei corpi e dei liquidi, esistono altri tipi di idee, per esempio il concetto di bellezza, l'idea di grandezza e così via.
E' solo grazie all'esistenza delle idee che noi possiamo ragionare sulle realtà sensibili, misurando, ad esempio, in quale modo una città possa definirsi grande od un corpo umano definirsi bello.
Platone dice che ogni cosa partecipa in qualche modo ad un'idea, ovvero ha qualcosa in comune con essa.
Ovviamente ogni realtà sensibile può partecipare a più idee, anche opposte tra loro.
Una stessa cosa può essere partecipe all'idea di grandezza ed a quella di piccolezza, perchè più grande di questo e più piccolo di quello.
Al contrario delle cose, le idee non possono partecipare ad altre idee, perchè perderebbero la loro identità ed il loro significato.

Cratilo
Un dialogo indubbiamente importante per comprendere la genesi della teoria delle idee, è Cratilo.
Qui, come evidenziato da Nicola Abbagnano, si scontrano tre diverse concezioni filosofiche del linguaggio: quella secondo cui si tratta di una pura convenzione, quella secondo cui il linguaggio è il risultato dell'effetto del mondo reale sulla psiche umana, e quella secondo cui l'abilità linguistica è la scelta intelligente che consente di pervenire gradualmente alla conoscenza delle cose. Le idee si esprimono nel linguaggio.
La prima tesi era sostenuta, con intenzioni diverse, dai megarici, dagli eleati, da alcuni sofisti e da Democrito.
In essa prevale un atteggiamento pessimistico circa la possibilità di conoscere le cose come realmente stanno, partendo dai dati sensibili. Gli eleati, con Parmenide, tagliarono il nodo di Gordio con un colpo secco, affermando che la vera conoscenza è la conoscenza dell'essere come immutabile, e negarono una qualsiasi verità al divenire ed alla possibilità di averne scienza.
La seconda tesi viene da Eraclìto, il quale era convinto che l'unica scienza vera fosse la conoscenza del divenire del mondo e che il linguaggio non facesse altro che rispecchiarlo, nominando eventi come nascita, crescita, morte, scomparsa; la terza era propria di Platone e, probabilmente, di Socrate.
E' attraverso il linguaggio che perveniamo a designare con precisione la sostanza delle cose, la quale è un altro modo, un'altra parola che serve, tuttavia a rappresentare le idee eterne ed immutabili delle cose stesse.
Platone, per la verità, accettò anche, per così dire, il carattere convenzionale del linguaggio, ma insistette soprattutto sul fatto che esso aveva la funzione di chiarire e comunicare concetti e cose, e natura propositiva, risultando adatto alla comprensione ed alla comunicazione della verità.
Dunque, a differenza di megarici e sofisti, Platone riconobbe che era possibile utilizzare il linguaggio per dire il falso, cosa che per megarici e molti sofisti, pareva al contrario del tutto impossibile, in quanto tutto ciò che diciamo, esiste.
Essendo la battaglia per la verità lo scopo ultimo del suo impegno, Platone si incaricò, attraverso il Gorgia, di evidenziare quanto fosse vero che il falso è oggetto di quotidiana comunicazione, soprattutto nei discorsi retorici.
Alla tesi gorgiana per la quale ognuno può imbastire discorsi su qualsiasi argomento solo disponendo di tecnica oratoria e capacità persuasiva, Platone oppose una feroce difesa della vera conoscenza.
Ogni arte o scienza riesce ad essere persuasiva solo se espressione di una conoscenza dell'oggetto che le è proprio.
Al contrario, la retorica non ha arte, né parte. Può solo persuadere faciloni ed ignoranti alle prime armi.
Nelle mani dei demagoghi diventa uno strumento per mascherare la propria ingiustizia.
Ad essa oppose la dialettica, cioè il metodo di fare domande pertinenti su un oggetto preciso e cercare le risposte pertinenti.

Secondo Platone, il soggetto conoscente è l'anima. Essa è dotata di intelletto non solo in questa vita corporea ma, anche nell'altra, quella nella quale essa non è unita al corpo.
Anzi, Platone sostiene che il corpo è di ostacolo alla vera conoscenza, dando in un certo senso ragione a Democrito, per il quale i sensi producono solo una conoscenza opinabile.
La garanzia della verità, secondo Platone, si troverebbe pertanto solo nella reminiscenza, ovvero nei ricordi che l'anima di ognuno si porta appresso. Ogni anima, prima di venire al mondo, ha infatti vissuto la vita eterna del mondo delle idee e da esso ha tratto la vera conoscenza.
Questa posizione fu certamente il prototipo dell'innatismo, tesi secondo la quale l'intelligenza non si impara, ma è una predisposizione naturale.

Menone

La tesi di Platone si basa su quella che da millenni gli insegnanti di filosofia chiamano anamnesi, ovvero il ricordo dell'anima delle conoscenze passate.
Il dialogo risveglia i ricordi dell'anima. Tutto quello che impariamo dal dialogo, in realtà lo sapevamo già.
In genere, tutti tendono ad enfatizzare un aspetto: l'anamnesi è un evento intellettuale ed intellettivo di tipo metafisico, ha cioè a che vedere con le vite precedenti dell'anima. La teoria platonica ha un'origine pitagorica.
In realtà, questa accentuazione, peraltro legittima, perchè il testo non dice qualcosa di diverso, rischia di oscurare un aspetto per nulla secondario e fortemente attuale, ovvero che, indipendentemente dalle vite precedenti, ogni vera acquisizione è tale se e solo se, chi apprende riesce a collegare quanto ha già in sé, come esperienza, a quanto sta apprendendo.
Nello scritto abbozzato da Guido Marenco, non concluso e quindi non pubblicato, si avanzava l'ipotesi di un rapporto tra dialogo, memoria ed inconscio. L'inconscio non è solo il rimosso freudiano, dovuto a motivi di repressione o di autodifesa, ma anche l'incompreso, l'archiviato. La nostra mente non è mai qualcosa di insensibile o chiuso. Quando non capisce consciamente, non rifiuta mai, semplicemente archivia.
Ora non vorrei arrischiarmi troppo sul terreno psicologico, che non è il mio forte, ma qui è evidente che leggere Platone porta a porsi direttamente faccia a faccia non con questioni di archeologia filosofica, ma con problemi di grandissima attualità attinenti il funzionamento della psiche.
Ciò detto, posso solo esemplificare un dato: quando insegnavo, ed aprivo un dialogo, cosa sempre difficilissima, sono sempre riuscito ad ottenere i risultati migliori. I ragazzi e le ragazze imparavano risvegliando i loro ricordi e le loro esperienze, inserendole in un orizzonte di senso, cioè in un contesto nel quale comprendevano il significato delle idee, in particolare le idee filosofiche.

La funzione delle idee
Ho sempre cercato di insistere sulla non-arbitratrietà dell'esistenza del mondo delle idee, sia che si accetti che esista realmente, sia che si accolga semplicemente la tesi che esiste come una proiezione mentale, solo nella nostra testa.
Ovviamente, io sono per questa seconda soluzione. Ma l'importanza capitale della teoria delle idee consiste nel dato che essa rende possibile una comprensione superiore, svincolata dalla sfera dal sensibile, anche se non completamente separata da essa.
Platone sostiene che l'idea di bellezza esiste e che un bel corpo partecipa a questa idea un misura maggiore o minore. Altri sosteranno che l'idea di bellezza viene nell'aver scovato in ogni corpo visto l'elemento della bellezza come carattere comune.
L'idea viene, per costoro, realizzata attraverso l'associazione di un particolare di rilievo. Il giudizio è il frutto di una generalizzazione dell'esperienza.
Comunque sia, abbiamo come risultato che sia Platone che chi propende per il valore dell'esperienza sensibile, ammette l'importanza di una certa idea regolativa per valutare le cose.
Aristotele insisterà sull'importanza dell'avere nozione di qualsiasi oggetto. Non è che un altro modo per dire la stessa cosa che aveva già detto Platone: ovvero che è solo muovendo dall'idea che si può dare una valutazione.
La differenza consiste solo in una diversa concezione su come si formano le idee.

La teoria platonica delle idee si regge su tre pilastri: il primo è che solo le idee possono essere oggetto di conoscenza razionale e quindi di scienza, le cose sensibili possono essere solo oggetto di opinione.
Il secondo è già stato accennato: le idee sono criteri di valutazione e principi di giudizio di ogni cosa.
Il terzo è il più discusso e discutibile ancor oggi: le idee sono le vere cause delle cose.
Ma anche sul primo punto, è evidente che Platone considerò la questione solo in termini teorici, senza considerare quelli pratici. Per costruire una casa sarebbe letale seguire opinioni anzichè una scienza della costruzione ed una scienza dei luoghi appropriati.
Mancando di una prospettiva fallibilista, del tipo fino a prova contraria la scienza mi dice che è meglio fare così, Platone finì con lo svalutare la scienza pratica, e fu questo uno dei vizi fondamentali della filosofia fino a Galileo.
Sul secondo punto Platone ha ragione ancor oggi. Qualsiasi nostra valutazione nasce dall'idea che abbiamo maturato circa una qualsiasi cosa e come dovrebbe essere idealmente.
Sul terzo punto, possiamo dire che Platone, pur criticando Anassagora per avere ammesso l'intelligenza razionale come principio ordinatore dell'universo e non averne tratto conseguenze teologiche o morali, ma solo conseguenze fisiche, non riuscì tuttavia ad essere altrettanto profondo e convincente.
Asserendo, infatti che le idee sono causa delle cose, si limitò ad evidenziare una causa formale, e nemmeno nei termini più pregnanti colti da Aristotele, ovvero che un uomo è un uomo perchè ha la forma di uomo.
Platone, infatti, si limitò a dire che una cosa è bella perchè in essa vi è qualcosa dell'idea di bellezza.
Ma questa non può essere assunta come perchè della cosa, ma solo come perchè del nostro giudizio.
Non separando due momenti assolutamente distinti quali la cosa in sé, per quello che è, ed il nostro giudizio su di essa, Platone finì col formulare un principio che non ha solidità teoretica e fondamenta alcuna.
Questa è l'impressione che si ricava leggendo il Fedone.
Ma è un'impressione che non rende giustizia del tutto a Platone. Come vedremo, egli maturò una visione ben più matura, se già non l'aveva sul perchè delle cose.

L'idea di bene
Nella Repubblica, Platone dichiara con grande convinzione che esiste un'idea suprema, che è causa di tutte le altre, ovvero l'idea di Bene.
Per chiarirne il significato, Platone ricorre all'esempio del sole. L'astro illumina tutte le cose, le nutre e le fa vivere, è causa di tutte le cose. Analogamente, nel mondo sovrasensibile, l'idea di Bene illumina e rende intellegibili tutte le altre idee.
E' un principio assoluto ed incondizionato, separato da tutto ed anche separato dalle idee, trovandosi al di là ed al di sopra di esse.
Qui è da sottolineare la grande differenza che caratterizza la filosofia di Platone da quelle degli ionici e di Eraclìto.
Per essi, il principio delle cose era immanente alla realtà stessa, un principio fisico.
Per Platone, al contrario, si tratta di un principio metafisico, cioè che si colloca oltre il piano sensibile.
Bisogna chiarire che questa idea del bene non corrisponde affatto ad un'idea di Dio, il Dio della rivelazione biblica, e nemmeno qualche suprema divinità del pantheon greco, in quanto non viene concepito come un atto creativo, libero e volontario, ma solo come oggetto di comprensione intellettuale.

Il Demiurgo
Troveremo un'idea di Dio nel dialogo il Timeo, un'opera che segue, forse di molti anni, la stesura della Repubblica.
Demiurgo significa "artefice". Dovendo spiegare l'origine del mondo sensibile, Platone ricorse alla narrazione di un mito, affermando che si trattava di un racconto verosimile, a metà strada tra l'opinione e la scienza, e non di un racconto vero, per il fatto che la stessa costruzione del mondo non fu propriamente una creazione dal nulla, ma una specie di realizzazione di un progetto preesistente, ovvero le idee eterne ed immutabili.
In altre parole: poichè la realtà sensibile di questo universo materiale appartiene alla sfera del divenire, ovvero ad una dimensione nella quale vi è sia l'essere che il nulla, esso non può essere oggetto di scienza, ma solo di una via di mezzo tra scienza ed opinione, ovvero qualcosa che partecipi dell'una idea come dell'altra.
Ora, il punto da afferrare è il seguente: per Platone, affinchè esista il mondo naturale secondo la logica e l'ordine che lo governa non basta trovare una sorta di principio fisico, occorrono almeno tre cause.
La prima causa è individuata nel Demiurgo, l'artefice, essere intelligente ed attivo, qualcosa che evidentemente rassomiglia al Dio biblico, in quanto anche "buono" e dotato di carattere e volontà.
La seconda causa è il mondo delle idee, a cui il Demiurgo stesso si ispira, come guardando ad un modello.
Esso non è opera del Demiurgo, ma qualcosa di coeterno, se non anteriore, una sorta di Logos come predicato nel Vangelo di Giovanni.
La terza causa è da ricercarsi negli stessi elementi materiali definiti dagli ionici, ovvero il magma della mescolanza di terra, fuoco, aria ed acqua. Essa è caratterizzata dal disordine e dall'anarchia. Pur essendo causa, quantomeno nel senso di necessaria all'esistenza della cose, è chiaramente opposta come realtà caotica al principio ordinatore che il Demiurgo trasse dal mondo delle idee.
Platone la definisce come causa errante, ricettacolo, nutrice e madre, matrice, spazio.
Molto probabilmente Platone si pose il problema delle origini del mondo sensibile anche prima di quando cercò di chiarirlo per iscritto. Forse fu oggetto delle cosiddette dottrine esoteriche, non scritte, che venivano insegnate solo ai membri interni dell'Accademia.

Ancora sul bene e sul bello, la cui contemplazione procura la felicità
Chiarito il punto di quella che potremmo chiamare la cosmogonia di Platone, possiamo tornare alla dottrina delle idee. Nel Simposio, venne avanzata una spiegazione complementare importante.
Chi ama veramente il bello, secondo ciò che dice Socrate riportando il discorso della sacerdotessa Diotìma, inizia con l'amare i corpi ben fatti, poi, ad una certa età, passa ad amare il bello che è comune a tutti i corpi, per poi trovarsi successivamente ad amare la bellezza dell'anima, assai più perfetta della bellezza del corpo.
Solo ad età avanzata, come proprio di questa stagione della vita, l'individuo arriva ad amare il bello in sé, diventando quindi virtuoso e veramente felice, perchè la felicità suprema dell'anima non può che consistere nella contemplazione dell'idea del bello, la quale coincide con l'idea del bene.

Obiezioni e sviluppi alla dottrina delle idee
Ovviamente furono sollevate diverse obiezioni alla dottrina delle idee così come Platone l'aveva originariamente formulata. Lo stesso Platone ne prese atto considerando a quel punto necessarie delle precisazioni, che espose puntualmente nel dialogo intitolato Parmenide.
Nella prima parte di questo scritto, riconobbe che, seguendo coerentemente la sua dottrina, si arriva ad ammettere l'esistenza di una idea per ciascuna cosa esistente, non solo quindi idee di cose nobili e belle come la virtù, ma anche di cose spregevoli, come la mostruosità e la crudeltà, il fango ed il sudiciume.
Tutto ciò appare assurdo, perchè le idee dovrebbero riferirsi al bene e non al suo contrario.
In particolare doveva sembrare assurdo a molti, in particolare al suo stesso allievo Aristotele, che le idee, essendo partecipate dall'imperfezione delle cose, finissero così con il ritrovarsi in una situazione di separazione da sè stesse, come una bella mano posta all'estremità di un braccio deforme, quindi non solo come la realizzazione dell'idea di bella mano e di braccio deforme, ma anche dell'idea assai poco attraente di un'unione di bella mano e braccio deforme.
A tutto ciò si potrebbe obiettare, ancora ricorrendo alla citazione del Timeo, che l'imperfezione della realtà è dovuta alla resistenza della materia e degli elementi fisici all'azione del Demiurgo. Tuttavia, Platone preferì sottolineare che una certa difficoltà generale alla comprensione delle idee deriva dal fatto che l'anima è inserita nel mondo del divenire, cioè delle apparenze, e quindi la sua conoscenza è limitata dalle circostanze e dall'esperienza.
In altre parole: l'anima umana deve percorrere un lungo cammino per liberarsi dei condizionamenti terreni e pervenire alla vera conoscenza.

Ma i dubbi platonici sulla esistenza di particolari idee vanno oltre questa stessa dimensione, sono di carattere ontologico.
Alla domanda di quale oggetti esistono realmente idee, Platone, attraverso Socrate, risponde: esistono idee di oggetti come somiglianza e dissomiglianza, pluralità ed unità, quiete e moto, giusto ed ingiusto, bene e male, bello e brutto. Questi, come si vede, sono qualcosa di simile a quello che noi oggi chiamiamo concetti.
Al contrario, è dubbio che esistano idee come quella di uomo, fuoco, acqua.
Infine è certo che non vi siano idee di oggetti infimi.
In pratica, Platone ha creduto a lungo che esistessero solo idee di ordine matematico, etico ed estetico, simbolo di una perfezione, negando al tempo stesso che esistessero idee di particolari oggetti sensibili, o di situazioni particolari, frutto di una commistione tra la realtà ideale e quella sensibile e materiale.
E' lo stesso confronto con la filosofia di Parmenide ad indurre Platone ad una revisione. Nel dialogo, c'è un passaggio piuttosto delicato nel quale Parmenide rimprovera Socrate di essere troppo giovane e di non essere ancora stato afferrato dalla filosofia come dovrebbe un filosofo. Spregiando fango e sudiciume - afferma Parmenide - tu dimostri di essere ancora legato alle opinioni degli uomini comuni. Perchè mai non dovrebbero esistere idee anche di queste cose, posto che esistano le idee?
Il bravo Socrate non sa che obiettare, e lo stesso Platone non può che incassare e portare a casa.
I passaggi successivi sono di una profondità speculativa straordinaria e andremmo troppo lontano nel seguirli, quindi sorvoliamo.

Nella seconda parte del dialogo, Platone abbozza una teoria che pur non essendo esplicitamente riferita alle idee, apre la strada ad ulteriori precisazioni.
Il punto di partenza è rappresentato dalla critica a Parmenide: questi aveva negato la molteplicità degli esseri.
Platone afferma, al contrario, l'esistenza simultanea dell'uno e dei molti, e mostra che l'uno non può stare senza i molti ed i molti non potrebbero esistere senza l'uno.
Trasferendo questo ragionamento al mondo delle idee, abbiamo che ciascuna idea raccoglie in sé sia l'unità che la molteplicità: essendo universale, essa è anche una, ovvero esprime un carattere chiaro ed inconfondibile.
Ma la sua molteplicità è data dal fatto che molte cose sono in rapporto con l'idea singola, partecipano ad essa.
Pertanto ogni idea è una, vi è una molteplicità di idee, alla quale si aggiunge una molteplicità di connessioni tra ogni idea, le cose, tutte le idee.
Nel dialogo il Sofista, posteriore al Parmenide, Platone insegna come il falso non sia semplicemente il non-essere ma una realtà diversa dall'essere.
Platone, scoprendo il diverso, mette in luce come sia possibile un essere diverso dall'essere uno. E qui vale la pena di aprire una lunga parentesi.

Il Forestiero Eleate
Protagonista del dialogo il Sofista è una figura misteriosa, il Forestiero Eleate. Questi, per risolvere tutte le difficoltà derivanti dalle contese verbali con gli eristi, i quali non si facevano alcuno scrupolo di citare Parmenide per difendersi dall'accusa di raccontare menzogne, avanza una proposta che ha il sapore del parricidio.
L'espressione è forte, persino insolita in Platone, ma rende l'idea di quanto fosse divenuto ormai indispensabile rovesciare il tiranno che si era impadronito della filosofia con la sua dogmatica asserzione che solo l'essere è ed il non-essere non è.
Nei discorsi sofistici, come s'è visto, il falso viene presentato come vero. Dunque il non-essere riesce ad essere, essere, quantomeno, creduto vero.
Ma, al di là delle contese politiche spicciole, c'è, secondo il Forestiero eleate, tutta una tradizione di filosofi e sapienti che, raccontando favole, in passato come nel presente, è riuscita ad imporre immagini del mondo che non sono affatto veritiere. E ce n'è per tutti: non solo i fisici ed i materialisti, che il Forestiero chiama sprezzantemente i figli della Terra, ma anche gli idealisti, o amici delle forme, cioè persino tra i seguaci di Platone, che, dogmaticamente, rifiutano di riconoscere nella realtà corporea una qualsiasi forma di essere, asserendo che nel mondo sensibile esiste solo il divenire.
Per tagliare corto, il Forestiero Eleate avanza una definizione provvisoria dell'essere che sconvolge alla radice la definizione parmenidea: l'essere è ciò che sia pure in minima parte ha potere d'agire e di patire.

A questa definizione si ribellano gli amici delle idee, gli stessi discepoli ortodossi di Platone. Per essi solo il divenire è capace di agire e di patire. L'essere è immutabile, come le idee.
Indubbiamente si tratta di una svolta importante: sia pure a tarda età, Platone si rende conto che il dualismo anima-materia, essere-divenire è un'opposizione inesatta. Non rende conto del fatto che l'anima è inserita in questo mondo, e che, in quanto vero essere, proprio in questo mondo, agisce e patisce.
Se l'essere è conosciuto dall'anima - dice il Forestiero - il venir conosciuto è una passività, mentre il conoscere può essere attivo. E sia l'uno che l'altro implicano una comunanza dell'essere con il moto e con la quiete. Pertanto - prosegue - se non si vuol bandire l'intelligenza da ciò che compiutamente è, bisogna evitare di negargli quello che è condizione del pensiero, ovvero anima e moto. Ma d'altro lato, se tutto si muovesse incessantemente, non ci sarebbe identità e non sarebbe possibile l'intelligenza, la quale ha per oggetto intellegibile proprio l'identità di ogni singola cosa.

L'essere, dunque, pur risultando estraneo a questa dualità di moto e quiete, non meno che ad altre determinanzioni, si trova in mezzo ai due termini opposti tra loro, ma compresi in esso. Ecco dunque il concetto di essere, che per sua natura non sta fermo e non è mosso, ma comprende entrambi, diventa difficilissimo da intendere, tanto quello di non-essere. Come superare questa difficoltà?

Non c'è altra via che l'analisi dei rapporti delle idee tra loro. Ciò porta a formulare tre ipotesi:
1° i generi, ovvero le idee più generali, sono tutte inassociabili
2 che siano, al contrario, tutte associabili
3° che alcune siano associabili ed altre no

Se si ammettesse la prima ipotesi non potrebbero esserci né moto, né quiete, perchè l'essere non sarebbe in alcun caso associabile da un legame verbale del tipo x è seduto, oppure x è di corsa.
Pertanto, persino l'affermazione l'essere è immutabile sarebbe impossibile.
Se si ammettesse la seconda ipotesi, potremmo avere un assurdo, ovvero che il moto potrebbe essere fermo, e la quiete muoversi.
Pertanto, non rimane che accertare a quali conseguenze porti l'accettare la terza ipotesi.
Si tratta di pensare alle idee come alle lettere dell'alfabeto. Una determinata sequenza porta a costruire parole dotate di senso. Un'altra no. La stessa cosa accade per le note musicali.
Ecco perchè occorre una scienza delle idee, come pure occorre una scienza delle parole, od una scienza della musica.
La scienza individuata da Platone per verificare se generi, idee, cose, verbi siano associabili oppure no è la dialettica. Chi è un grado di distinguere, classificare, ordinare le idee e scorgerne i nessi reciproci è il dialettico, lo scienziato del linguaggio che tuttavia è anche scienziato dell'ontologia perchè per Platone esiste ancora una perfetta corrispondenza tra realtà e linguaggio, anche quando guarda alle cose stesse in termini metafisici, cioè ad una realtà che potrebbe esistere solo nella nostra immaginazione.

La dialettica platonica dovrà essere esaminata in modo approfondito, ed è quanto mi riprometto di fare nel prossimo capitolo.

Bibliografia:
Platone: Opere - Laterza 1971

Renzo Grassano - 25 ottobre 2002