Pitagora
di Daniele Lo Giudice
L'importanza di Pitagora nella storia della
filosofia è spesso o trascurata, o risolta
con poche battute sulla metempsicosi, sulla
teoria dei numeri quali radici della realtà
e sulla curiosa prescrizione di non mangiar
carne (comprensibile) e fave (perchè non
si sa).
Se consideriamo, tuttavia, la straordinaria
importanza che le dottrine di Pitagora ebbero
nella formazione di Platone, il discorso
si fa immediatamente più complesso ed interessante.
Platone ebbe solo due maestri: Socrate e
Pitagora. Dal primo fu formato direttamente;
dal secondo ricevette grandissimi stimoli
attraverso i pitagorici del suo tempo. Sul
finire della sua vita egli stesso fu molto
più pitagorico che socratico. Lo stesso modello
dell'Accademia, la scuola fondata da Platone,
ricalcava in misura maggiore la pedagogia
pitagorica che quella socratica, intendendo
la scuola come una comunità separata dalla
società civile.
Anche solo per questo Pitagora andrebbe rivalutato.
Ma, come vedremo, le ragioni sono molte di
più.
Pitagora nacque a Samo nel 571, o forse,
nel 570 a.C.
Si dice che fu allievo del poeta Ferecide
di Siro e di Anassimandro, ma le notizie
sulla sua vita sono tutte avvolte da un manto
leggendario. Gli vennero persino attribuiti
prodigi e miracoli, grandi capacità divinatorie.
Tra le immense sciocchezze scritte dallo
Schurè nella sua biografia dei grandi illuminati,
si trovano quasi tutti gli episodi che raccontano
le sue gesta.
Si possono leggere per puro divertimento,
non certo per conoscere Pitagora.
In gioventù, Pitagora viaggiò molto in Egitto
e nei paesi del vicino oriente, cercando
di attingere alle più antiche sapienze di
quelle civiltà.
Molte fonti riportano l'ispirazione fondamentale
di Pitagora direttamente alla dottrina del
dio Apollo, attraverso l'iniziazione e gli
insegnamenti ricevuti dalla sacerdotessa
Temistoclea di Delfi.
Da quest'ultima Pitagora dovette anche ricevere
la credenza nella metempsicosi, la trasmigrazione
delle anime, che i seguaci di Apollo avevano
in comune con altre correnti della mistica
greca, come gli orfici e gli stessi seguaci
di Dioniso.
Tale credenza afferma che l'anima di ogni
vivente, animali inclusi, è eterna, e cade
e ricade nella vita terrena secondo una legge
divina che impone di pagare i debiti contratti
nelle vite precedenti.
In tale contesto è visibile anche l'influenza
esercitata da Anassimandro, il quale aveva
detto che tutto ciò che nasce e viene alla
luce commette, in un certo senso, un atto
di separazione dall'infinito, che di per
sè richiede un'espiazione, cioè il pagamento
del fio.
In tal modo, infatti, sono da intendersi
le parole del frammento rimastoci della sua
opera Sulla Natura che ci è pervenuto attraverso la testimonianza
di Simplicio (Phys,24,13; A 9)
"Inizio...ed elemento primordiale delle
cose è l'infinito...da dove infatti gli esseri
hanno origine, ivi hanno anche la distruzione
secondo necessità: poichè essi pagano l'uno
all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia
secondo l'ordine del tempo."
Tuttavia, mentre in Anassimandro la dottrina
non aveva propriamente un valore metafisico
e religioso, o così sembrerebbe, perchè non
si fa cenno ad una eternità dell'anima, ma
solo ad una legge di tipo naturale, Pitagora
prese molto sul serio questa credenza, adottando
uno stile di vita coerente alle credenza
stessa. Decise di non mangiare carne, per
non commettere violenze contro le altre anime,
e di condurre vita ascetica. Decise di insegnare
e predicare senza farsi pagare onorari per
il disturbo, con un altruismo davvero degno
di nota.
L'insegnamento di Pitagora venne ripreso
da Platone, ed esposto nel dialogo Gorgia. Secondo Pitagora, tutte le anime sono prigioniere
del corpo, ed è anche possibile che nel corpo
di un animale si racchiuda quella di un amico
di precedenti esistenze.
Finchè l'anima è prigioniera del corpo, necessita
di questo per sentire, vedere, nutrirsi;
ma un a volta libera, sarà in grado di vivere
un'esistenza incorporea e priva dei condizionamenti
terreni.
Poichè, da questa visione si potrebbe dedurre
che la via più facile alla liberazione sarebbe
il suicidio, e che ogni omicidio costituirebbe
un aiuto alla liberazione altrui, Pitagora
affermò che tali atti, anzichè condurre al
bene, conducono al male, e che la purificazione
dell'anima passa attraverso una precisa disciplina
di vita, sintetizzata poi nelle regole della
scuola che avrebbe fondato in Italia.
Nel 530 a.C., all'età di quarantanni, Pitagora
si stabilì a Crotone, dove aprì la sua scuola.
Per accedere ad essa era indispensabile astenersi
dal mangiare carne e fave, nonchè praticare
la comunanza dei beni.
Gli allievi erano divisi in due gruppi: i
matematici (mathemata in greco significa disciplina) e gli acusmatici
( radice di una parola che significa ascoltatori).
E' probabile che a questi fosse concesso
di vivere al di fuori della scuola e delle
sue rigide regole.
La scuola si trasformò presto in una setta,
collegata al partito degli aristocratici,
e perciò venne perseguitata dai democratici,
che arrivarono al potere sia a Crotone che
in altre città della Magna Grecia.
Le sedi dei pitagorici vennero incendiate
e molti degli adepti furono uccisi, o dovettero
fuggire.
Pitagora si rifugiò a Metaponto, e per lungo
tempo la setta fu costretta ad una semiclandestinità.
L'accanimento dei democratici nei confronti
dei pitagorici potrebbe trovare una spiegazione
ideologico-politica nel fatto che le loro
teorie si prestavano a particolari strumentalizzazioni,
la prima delle quali, certamente, era quella
della predestinazione.
Chi nasceva storpio e povero doveva aver
commesso una gran quantità di scelleratezze
nella vita precedente.
Sotto questo profilo pareva inaccettabile
ai democratici la diffusione di simili visioni
fatalistiche. Oggi si direbbe politically uncorrected. Non molti anni fa un commissario tecnico
della nazionale inglese di calcio fu licenziato
per aver espresso idee pitagoriche.
Un altro punto delle teorie pitagoriche che
recava grande disturbo ai democratici era
certamente il modo di vita ascetico e comunitario,
che urtava frontalmente con un sistema economico
commerciale in espansione, la cui molla era
l'avidità di guadagno e l'accumulazione di
grandi ricchezze nelle mani di mercanti e
naviganti.
Anche per tale semiclandestinità forzata,
non è possibile ricostruire con maggiore
precisione le vicende di Pitagora e dei pitagorici
e spesso si trova scritto che non si può
sapere quanto della loro dottrina venga direttamente
dal maestro, e quanto sia stato elaborato
da figure posteriori, quali Filolao, contemporaneo
di Socrate, Timeo di Locri, Iceta di Siracusa,
o il medico Alcmeone.
Di certo sappiamo che nella seconda metà
del IV secolo il pitagorismo assunse nuova
importanza grazie ad Archita, signore di
Taranto, che accolse Platone.
Molto di quanto sappiamo delle dottrine pitagoriche
si trova esposto nel I° libro della Metafisica
di Aristotele.
Egli dedicò ampi paragrafi all'esposizione
del pensiero dei pitagorici, e trattandosi,
di una testimonianza chiara e più vicina
all'originale, conviene attenersi ad essa.
Ne riportiamo una parte integralmente.
« Essi per primi - scrisse Aristotele
- si applicarono alle matematiche e le fecero
progredire, e nutriti delle medesime, credettero
che i principi di queste fossero i principi
di tutti gli esseri. E poichè nelle matematiche
i numeri sono per loro natura i principi
primi, e, appunto, nei numeri essi ritenevano
di vedere, più che nel fuoco, e nella terra
e nell'acqua, molte somiglianze con le cose
che sono e si generano; per esempio ritenevano
che una data proprietà dei numeri fosse la
giustizia, un'altra invece l'anima e l'intelletto,
un'altra ancora il momento ed il punto giusto,
e similmente, in breve, per ciascuna delle
altre, e inoltre, poichè vedevano che le
note e gli accordi musicali consistevano
nei numeri; e infine, poichè tutte le altre
cose, in tutta la realtà, pareva a loro che
fossero fatte ad immagine dei numeri e che
i numeri fossero ciò che è primo in tutta
quanta la realtà, pensarono che gli elementi
dei numeri fossero elementi di tutte le cose,
e che tutto quanto il cielo fosse armonia
e numero. E tutte quante le concordanze che
riuscivano a mostrare fra i numeri e gli
accordi musicali e i fenomeni e le parti
del cielo e l'intero ordinamento dell'universo,
essi le raccoglievano e le sistemavano. E
se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano
ad introdurla, in modo da rendere le loro
trattazioni un tutto coerente. Per esempio:
siccome il numero dieci sembra essere perfetto
e sembra comprendere in sé tutta la realtà
dei numeri, essi affermavano che anche i
corpi che si muovono nel cielo dovevano essere
dieci; ma dal momento che se ne vedevano
soltanto nove, allora essi ne introdussero
un decimo: l'Antiterra. » (Metafisica,
Libro I)
Questa nota riassume, probabilmente, un esame
molto più approfondito condotto da Aristotele
in un testo, andato perduto, dedicato appositamente
ai pitagorici.
Il punto focale cui pervennero i pitagorici,
e probabilmente lo stesso Pitagora, in rapporto
al suo maestro Anassimandro, pare sia da
ricercarsi in due principi supremi: il limitato e l'illimitato, che è come dire finito ed infinito.
Tutti numeri sono l'espressione determinata,
cioè limitata, finita, perfetta del rapporto
tra due grandezze.
Da questi due principi massimi i pitagorici
fecero derivare due coppie di opposti, in
primo luogo il dispari ed il pari, poi destro-sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, retto e
curvo, luce e tenebre, buono e cattivo, quadrato
e rettangolo.
In quest'ultimo caso non si capisce bene
perchè l'opposizione non contempli cerchio
e quadro, ma lo stesso Aristotele non colse
questa singolarità che potrebbe destare la
nostra sorpresa, non essendo l'opposizione
quadrato-rettangolo così fondamentale come
quella tra retto e curvo, o quella tra bene
e male.
Un'altra mancanza in questa tabella delle
opposizioni fondamentali pare quella di grande-piccolo,
mancanza che sarà, invece, segnalata, sia
pure indirettamente da Platone, quando questi
teorizzerà l'infinito sia nel senso del grande,
sia nel senso del piccolo.
Una peculiarità dei pitagorici riguarda il
concetto del numero 1.
Esso non era considerato un dispari, ma un
parimpari. Il numero 1 veniva inteso come l'opposto
di molteplice, anch'esso un parimpari, perchè
non indicava quantità in senso determinato,
cioè un numero pari o dispari di unità.
I pitagorici applicarono la loro visione
matematica della realtà alla struttura stessa
dell'universo, concependo quest'ultimo a
forma di sfera, retto da un ordine perfetto.
Per questo Pitagora fu considerato l'inventore
del termine cosmo, che in greco significa
ordine, per significare il cielo e l'universo.
Pare accertato che fu Filolao a pensare per
primo che la terra non fosse collocata al
centro del cosmo, ma si trovasse a ruotare,
di moto circolare uniforme, assieme al sole,
ed agli altri pianeti attorno ad un fuoco
centrale.
L'idea del moto circolare uniforme fu ripresa
da Copernico, il quale riconobbe molto schiettamente
la propria ispirazione "pitagorica",
anche se, ovviamente, egli negò che il sole
ruotasse attorno ad un fuoco centrale.
A Pitagora venne invece attribuita la scoperta
che la stella del mattino (Lucifero) e la
stella della sera (Espero) erano lo stesso
pianeta, cioè Venere.
Un altro pitagorico, Iceta di Siracusa, teorizzò
il moto rotatorio della terra sul proprio
asse per spiegare il giorno e la notte, collegando
quindi il trascorrere del tempo con il movimento
della terra e non con quello del sole.
Tuttavia, va ricordato, Aristotele, sempre
nella Metafisica, criticò i pitagorici perchè
nelle loro speculazioni sul movimento dei
corpi celesti, mancarono proprio di spiegare
la causa del movimento.
«D'altra parte - scrisse Aristotele
- essi, non spiegano in che modo possa prodursi
il movimento, dal momento che hanno posto
come sostrato solo il limitato e l'illimitato;
il dispari ed il pari; e neppure spiegano
come sia possibile che, senza movimento e
mutamento, vi siano la generazione e la corruzione
e le rivoluzioni dei corpi che si muovono
in cielo.» (Met. Libro I)
Non v'è dubbio che l'esercizio costante di
aritmetica e geometria portò i pitagorici
al rigore mentale ed alla freddezza necessaria
per elaborare le più ardite teorie cosmologiche
ed astronomiche.
Tutti abbiamo studiato, più o meno la geometria
euclidea, e tutti abbiamo avuto modo di constatare
come essa miri diritto ad essere arte della
dimostrazione. Ovvero un procedimento fondato
sulla deduzione di teoremi a partire da postulati,
indimostrabili, ma veri e ritenuti tali per la loro evidenza.
Ai tempi di Pitagora tale potente costruzione
concettuale ordinata non esisteva ancora.
Alcuni greci, tra i quali lo stesso Pitagora,
avevano appreso da egiziani e babilonesi
il modo di risolvere alcuni problemi, senza
tuttavia che queste stesse regole fossero
state dedotte da postulati capaci di fondare
una vera e propria scienza.
Pare che uno dei metodi più seguiti fosse
quello chiamato (più tardi) per "esaustione",
cioè un metodo che procede attraverso l'eliminazione
delle soluzioni sbagliate:"Non potendo
essere così, e neppure così, e nemmeno così,
potrebbe essere così."
Sicuramente i matematici babilonesi ed egiziani
avevano seguito una via empirica: avevano
ricavato regole per trovare la misura di
perimetri, superfici e diagonali semplicemente
misurandole, e poi ponendo in rapporto matematico
i dati ricavati.
Oppure provando e riprovando, come nel caso
dell'estrazione della radice quadrata. Il
valore della radice quadrata di 2 calcolato
dai babilonesi era uguale a 1,414222, ovvero
differiva di circa 0,00008 dal valore vero.
Pitagora ebbe certamente il merito di essere
uno dei primi sistematori delle conoscenze
matematiche delle civiltà mediorientali.
Una delle sue scoperte più importanti fu
quella relativa alla sezione aurea del segmento,
ricavato dal ragionamento sulle diagonali
di un pentagono regolare inscritto in una
circonferenza.
Tracciando le diagonali del pentagono, inoltre,
fu ricavata la figura di una stella, che
divenne il simbolo della scuola e della setta
pitagorica.
Ma, oltre a ciò, è singolare che non si possa
imputare né a Pitagora, né ai pitagorici,
un vero progresso in campo matematico. Persino
il teorema noto come teorema di Pitagora
risale a tempi più antichi, ed è di origine
babilonese. Documenta tra gli altri lo storico
della matematica Carl B. Boyer che sono state
rinvenute tavolette di varie epoche, anche
di molto anteriori, contenenti la formulazione
di problemi risolvibili solo applicando il
teorema detto di Pitagora.
Possiamo dire che i pitagorici, in modo più
sistematico di Talete, contribuirono a diffondere
in Grecia le conoscenze matematiche di egiziani
e babilonesi. A differenza di essi, non si
limitarono al lato concreto e pratico delle
operazioni, ma si diedero a speculazioni
astratte, riflettendo sul senso ed il possibile
significato dei numeri.
Questo potrebbe voler dire che furono più
attratti da quella che si potrebbe definire
come numerologia e cabala, che matematica in senso vero e
proprio.
La vera e propria venerazione di cui godeva
il numero 10, disegnato con dieci punti che
andavano a formare un triangolo regolare
con la punta rivolta verso l'alto, sembra
precorrere tutte le simbologie del sacro
successive, che, tra l'altro verranno ad
opporsi al simbolo del maligno, rappresentato
con triangolo rovesciato, ovvero con la punta
rivolta verso il basso.
Ciò nonostante, essi posero le basi per lo
sviluppo della matematica stessa, adattando
schemi di pensiero e procedure di ragionamento
provenienti dal medioriente alla mentalità
greca.
Essi considerarono numeri a tutti gli effetti
solo quelli che oggi si chiamano numeri naturali,
ovvero i numeri interi positivi. Per essi la frazione era già un rapporto tra numeri e non un numero.
Tale concetto fu poi ripreso sia da Eudosso,
il grande matematico dell'Accademia platonica,
e poi da Euclide di Alessandria, il grande
sistematore della matematica dell'antichità.
Ma, proprio su questo concetto di numero
essi caddero in una clamorosa contraddizione,
perchè si trovarono a confrontarsi con l'incommensurabilità
e i numeri irrazionali, ovvero il problema
della radice quadrata del quadrato costruito
sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo
e la sua particolare natura di numero non
finito.
Ippaso, un allievo della scuola, fu espulso
dalla stessa, perchè diffuse tale informazione.
Nell'insieme è praticamente impossibile valutare
l'apporto dei pitagorici, e dello stesso
Talete, allo sviluppo delle conoscenze matematiche
in senso proprio, perchè non esistono documenti
probanti.
Insegna il Boyer che sappiamo molto più sull'algebra
babilonese o sulla geometria egiziana dal
1700 a.C. in poi, che sulla matematica greca
del periodo dal 700 a.C. al 450 a.C.
Tale mancanza di dati costringe ad affidarsi
ad ipotesi ed a congetture, che poi lasciano
il tempo che trovano quando si procede nella
conoscenza di testi babilonesi.
L'unica cosa certa è che a partire dal lavoro
dei pitagorici dopo il 450 a.C. Ippocrate
di Chio e poi Eudosso di Cnido diedero contributi
fondamentali allo sviluppo della geometria,
preparando la sistemazione definitiva degli
Elementi realizzata da Euclide di Alessandria.
Letture consigliate:
Storia della matematica - Carl Boyer - Mondadori, Milano 1980
Pitagorici - M. Timpanaro Cardini ( a cura di ) - 3
voll. - La Nuova Italia, Firenze 1972
Daniele Lo Giudice - 23 maggio 2002 -