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Peirce: il concetto pubblico di verità
di Daniele Lo Giudice
Per smontare il criterio formalistico della verità, Peirce mostra come anche i ragionamenti fallaci corrispondano al meccanismo dell'inferenza valida. Dal punto di vista formale non sono fallaci né gli argomenti derivati da induzioni o ipotesi molto deboli, né quelli derivati da false premesse. Le uniche vere fallacie sarebbero delle pure assurdità o delle contraddizioni relative all'uso scorretto delle parole oppure all'inconsapevole falsità delle premesse. Ma così non si considera che la validità di ciascuna inferenza è pur sempre connessa ai possibili sviluppi logico-interpretativi dei segni del pensiero in cui essa consiste. Tali sviluppi non sono garantiti da alcuna certezza assoluta in quanto le stesse premesse da cui muove un ragionamento sono segni significanti che rimandano sempre ad altro. Hanno quindi un valore probabilistico. Ma c'è da notare, soprattutto, che il segno è il vero contenuto e strumento dell'azione mentale.
Al concetto di funzione conoscitiva come esatta riproduzione della realtà subentra il principio dell'infinito rinvio delle cose e dei fatti all'universo dei segni, al continuo interpretarli.
Peirce dice chiaramente che la nostra conoscenza poggia sempre su cognizioni precedenti. Pertanto coglie la realtà sempre e solo in modo mediato dalla rappresentazione logica, che è sempre tradotta in segni che delineano una comprensione previa. Se è così, diventa allora evidente che la struttura triadica proposta da Peirce consente di spiegare cosa è il segno per il pensiero, cioè qualcosa che consente al soggetto pensante di capire da cosa dipende il suo rivolgersi a qualche pensiero. Per questo, bisogna distinguere ciò che un segno è di per sé stesso, dalle sue qualità e connotazioni materiali, come ad esempio il fatto che una parola è fatta di lettere, o un disegno è fatto di linee. Ma la considerazione del segno andrebbe anche distinta dall'applicazione dimostrativa del segno, cioè dalla sua connessione ad un oggetto o ad un altro segno.
In sostanza, un segno, come una parola scritta in sanscrito posta davanti ad un occidentale, è un "potenziale", è già un segno, ma diventerà realmente utilizzabile quando verrà assunto da un pensiero, cioè quando rivestirà un significato preciso. Segno, oggetto e significato si mostrano allora come gli elementi indissolubili di un processo interpretativo in cui la relazione immediata tra oggetti sia 'fisici', sia 'mentali' non può trovare spazio. Il pensiero è sviluppo di significati. Ogni significato nasce nel continuum dell'interpretazione, che ricostruisce e media le singole esperienze, di per se stesse del tutto inesplicabili. Nella loro singolarità, infatti, tanto le esperienze sensoriali quanto i pensieri in atto, sono solo "eventi", mere "presenzialità" della coscienza di cui non è possibile ricostruire la realtà originaria.
Da queste considerazioni, Peirce ricava il rifiuto delle immagini mentali, che presume l'inerenza al pensiero di rappresentazioni singolari e determinate: noi non possediamo che segni e ciascun segno è solo rappresentativo di una cosa, è "quasi" la cosa, ovvero è identico a essa "solo sotto certi rispetti". Parallelamente, Peirce fa entrare in gioco quella rinnovata forma di realismo, centrata sulla nozione 'pubblica' del significato della verità, che permarrà come componente essenziale del suo pensiero.
Secondo Peirce, al di fuori delle relazioni al pensiero non c'è per noi alcuna realtà. Ossia, senza relazione non ci sarebbero oggetti nè conosciuti nè conoscibili; nondimeno, occorre anche tener conto che la coincidenza tra realtà e verità non è garantita da un atto noetico. Vero e non vero sono infatti degli attributi di cognizioni acquisite i cui oggetti vengono considerati rispettivamente reali e irreali o illusori; tale distinzione però non è che il portato dell'esperienza dell'errore, già individuata da Peirce nel discorso sull'autocoscienza e ora riproposta per delineare il carattere intersoggettivo del concetto di realtà.
«Reale - scrive Peirce - è un concetto che dobbiamo avere avuto per la prima volta quando abbiamo scoperto che vi è un irreale, un'illusione; cioè quando per la prima volta abbiamo corretto noi stessi. Ora, il fatto di esserci corretti non richiedeva logicamente altro che la distinzione tra un ens relativo alle determinazioni private interne, alle negazioni appartenenti all'idiosincrasia, e un ens che permanesse a lungo andare. Il reale, dunque, è ciò in cui presto o tardi, alla fine si risolveranno le informazioni e il ragionamento, e che è quindi indipendente dagli elementi di ogni singolo individuo.» (1) E' a questo punto che appare il concetto di "comunità senza limiti definiti, e capace di un incremento effettivo di conoscenza". Peirce pensa questa comunità sia come comunità scientifica mondiale sia come comunità civile e culturale. E' ad essa che viene affidata la possibile coincidenza tra verità e realtà, sottoposta e messa sotto condizione da una continua verifica intersoggettiva della validità di ogni asserzione.
Peirce sostiene, quindi, in ultima istanza, una coincidenza tra uomo e parola, che è segno per eccellenza. «Di fatto,dunque, gli uomini e le parole si educano reciprocamente: ogni accrescimento di informazione in un uomo comporta - ed è comportata da - un corrispondente accrescimento di informazione di una parola.»
Questo, insomma, è il realismo sociale di Peirce, ripreso in misura diversa da Habermas e Apel recentemente con le etiche del discorso.
Peirce sente l'esigenza, a questo punto di criticare il nominalismo, ovvero l'empirismo da Ockham a Stuart Mill, insieme alla loro pretesa di ridurre tutta la realtà a fenomeni individuali, secondo una prospettiva che alimenterà l'ultima fase del suo pensiero. Egli comincia a sostenere la realtà degli universali appellandosi alle considerazioni di Duns Scoto, il grande filosofo medioevale. Per Scoto, la distinzione tra particolare e universale era "soltanto relativa alla mente e non in re". Ovvero non riguardava la realtà concepita come "qualcosa di indipendente dalla relazione interpretativa." Anche in questo caso è evidente che Peirce aggiunge molto alla concezione scotiana, attingendo alla funzione pragmatica del pensiero, non limitandosi quindi ad un realismo platonizzante.
(1) Ch. S. Peirce - PS
DLG - 4 novembre 2005