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Charles Sanders Peirce: perché un pragmatista non riesce nella vita?
di Guido Marenco


Strane idee cosmologiche vengono presentate al Circolo metafisico: anche gli atomi hanno buone abitudini!
Una sera non meglio precisata tra gennaio ed aprile del 1872 i membri del Methaphysical Club di Cambridge, Massachusets, attesero pazientemente l'arrivo di Charles Sanders Peirce, che doveva svolgere una relazione. Ma il filosofo non arrivava, e qualcuno cominciava a battere il piedino. Chi fosse presente, e di chi fosse il piedino, non ci è dato di sapere. Probabilmente c'era Oliver Wendell Holmes jr., il giurista dalle idee pragmatiste, secondo il quale "prima si decide e poi si cerca di spiegare perché si è deciso", sicuramente Chauncey Wright, il filosofo positivista e darwiniano appassionato di meteorologia, la vera anima del Metaphysical Club; non poteva mancare William James, che allora era "solo" un docente di fisiologia soggetto a stati depressivi, ma nutriva una grande ammirazione per Peirce. Possibile fosse presente anche l'avvocato Nicholas St. John Green, le cui idee erano apprezzate da Peirce. Sicuramente vi erano invitati di riguardo e certamente qualche signora di vasta cultura e penetrante intelligenza. Era il tipo di donna che piaceva a William James e che Holmes, un uomo di 1,90 di statura piacioso oltre che eroe di guerra, regolarmente gli soffiava.
Finalmente comparve una carrozza trainata da due cavalli. Peirce, avvolto in un mantello scuro, scese con flemma ed a passi lenti si diresse verso la sala. In testa aveva un alto cappello a cilindro. «Entrò nella stanza e cominciò a leggere il suo lavoro. Di cosa trattava? Parlò di [...] come i vari attimi di tempo avessero presero l'abitudine di succedersi uno dopo l'altro.» (1)
«Sembra una barzelletta - scrive Louis Menand - , ma probabilmente è una storia vera. Il saggio di Peirce dev'essere stato un'estrapolazione della teoria nebulare e la teoria secondo la quale l'universo evolve da una condizione di relativa omogeneità, in cui non esiste virtualmente nessun ordine, neppure quello temporale, a una condizione di relativa eterogeneità, in cui, tra le altre cose, il tempo diventa lineare. Come accade che il tempo si raddrizzi in questo modo? Sviluppando buone abitudini.» (2)
Peirce spiegò questa sua teoria in Design and Chance. «I sistemi o i composti che hanno brutte abitudini sono rapidamente distrutti - scrisse Peirce -, e lo stesso accade a quelli che non hanno abitudini, solo quelli dotati di buone abitudini tendono a sopravvivere. » (3) Beh? E' senz'altro una strana teoria, molto fantasiosa anche per i tempi in cui venne concepita. Rispecchiava tuttavia le idee di Peirce ed assecondava un vago tentativo di estendere la teoria di Darwin oltre i confini della biologia, come se anche la fisica si potesse permettere una concezione evolutiva e quindi anche nel mondo dei corpi e delle particelle vigesse una sorta di selezione naturale. Questa storia ridimensiona l'immagine di un Peirce pensatore rigoroso, a vantaggio di un Pierce pensatore fantasioso. Ma, potrebbe essere un'idea sbagliata, perché Peirce era sia rigoroso che fantasioso. Inoltre, dovremmo riconoscerlo, la teoria cosmologica peirceana ha un certo suo fascino. «... l'attrazione gravitazionale è una buona abitudine per un corpo celeste - scrive Menand - proprio come il collo lungo è un buon attributo per una protogiraffa: entrambe le caratteristiche permettono di rimanere nel sistema. Se l'attrazione gravitazionale diventa l'abitudine di tutti i corpi celesti, allora possiamo parlare di "leggi di gravità", proprio come se tutte le protogiraffe sopravvissute hanno il collo lungo, si può parlare di specie delle giraffe, e (presumibilmente) se tutti gli attimi di tempo hanno l'abitudine di succedersi uno dopo l'altro, possiamo parlare di passato, presente e futuro. Ma né la legge di gravità, né l'idea di giraffa sono preesistenti alla nascita dell'universo. Entrambe sono evolute verso il loro stato attuale contemporaneamente all'evoluzione dell'universo verso il suo stato attuale.» (4)
Peirce si rivela dunque fiero avversario di un'interpretazione materialistica e meccanicistica dell'evoluzione. Anzi, come verrà spiegato meglio altrove, cingerà con una specie di aureola la propria visione, asserendo che siamo in un universo che tende a gradi sempre più elevati di ordine e razionalità, e che tale constatazione rinvia all'esistenza di una forza cosmica identificabile con l'amore rivolta alla realizzazione del Sommo Bene. E' la cosiddetta teoria dell'agapismo, da agàpe, l'amore cristiano, un'idea che rende l'universo qualcosa di più complesso che una macchina indifferente al nostro destino. Perplessi? Lo sono anch'io.
D'altra parte, allora come ora, ogni qualvolta un'affermazione scientifica sembra mettere in dubbio qualche dogma religioso, la reazione è sempre vistosa e non va troppo per il sottile. Ma Peirce non era un dogmatico. E, pure credendo in Dio, avrebbe dovuto elaborare una sua teologia del tutto personale per giustificare un Dio che gli aveva voltato le spalle troppe volte. Peirce fu un infatti uno sfigato, come pochi altri, anche se si può supporre che avrebbe potuto fare molto di più per uscire dal tunnel nel quale il destino l'aveva gettato.

Come il diavoletto di Maxwell successe al demone di Laplace
Abbiamo così subito incontrato il punto più dubbio di tutto il pensiero di Peirce, la sua cosmologia. La quale non era però una stravaganza, ma qualcosa che "quadrava" con tutto il resto del pensiero di quest'uomo talentuoso, per quanto possa apparire sorprendente. Peirce era convinto che il cosmo evolvesse verso un'ordine e che quest'ordine fosse descrivibile ed interpretabile correttamente. In ciò Peirce figlio condivideva le idee del padre, Bejamin Peirce, matematico, scienziato rigorosamente determinista, innamorato delle idee di Laplace. Ma tra padre e figlio c'era di mezzo Maxwell, cioè le nuove idee della fisica. Con Maxwell era nata la meccanica statistica e Peirce figlio non poteva che tenerla in sommo conto. All'idea di dominio previsionale esemplificata dal demone laplaciano, succedeva un'idea di dominio più modesta, statistica e "fallibilista". Era il "diavoletto" di Maxwell.
«
Spesso giudicata come un incidente di percorso che questo "filosofo scienziato" avrebbe dovuto evitare - così commenta Rosa M. Calcaterra (5) - la cosmologia è in effetti parte integrante delle ricerche logiche e matematiche da lui condotte tra gli anni settanta e novanta, in parallelo alla costruzione del pragmatismo, e approdate a importanti scoperte che si riflettevano anche sul piano semiotico.» Lo stesso Peirce aveva dichiarato di ispirarsi apertamente ai principi dell'idealismo oggettivo, quindi ad Hegel ed a Schelling, forse più al secondo che al primo. « Pur essendo molto vicina a quella hegeliana, la sua posizione è tuttavia diversa in un punto fondamentale: egli intende infatti rifiutare la totale coincidenza di pensiero e realtà - come egli dirà in What Pragmatism is, del 1905. Peraltro Hegel aveva avuto, a suo avviso, il grande merito di affermare l'idea di "di un divenire continuo che penetra ovunque l'universo", idea che trovava supporto nella concezione matematica della continuità "perseguita da matematici e fisici per tre secoli" (CP 1, 140-141). Sviluppare le implicazioni filosofiche del principio matematico del continuo, stabilendo uno stretto rapporto tra scienza e verità reale, al di là della hegeliana svalutazione delle scienze empiriche, sarà invero uno degli aspetti principali della cosmologia peirciana, che innanzi tutto affronta la questione della ricerca delle "leggi di natura", ricerca che di fatto ha improntato fin dalle origini la vita della scienza. L'idea stessa dell'esistenza di leggi naturali è un qualcosa che che di per sè "abbisogna di spiegazioni"...» (6) In effetti, si tratta di capire che il mutamento in sé non è una legge. Si può parlare di legge solo se essa prevede un certo tipo di mutamento e non il caso. Altrimenti Eraclito sarebbe il più grande filosofo e scienziato di tutti i tempi, e Platone un presuntuoso illuso.

Leggi di natura e scelta del secondo al ristorante: il dubbio provoca irritazione ed induce a lottare, cioè a cercare
Se per noi è sorprendente che sia possibile un mondo senza leggi di natura, che sono qualcosa di più impegnativo di un'abitudine, per Peirce era altrettanto sorprendente che esistessero leggi. Come si spiega questo tipo di sorpresa? Era frutto di un approccio individualistico e del tutto originale, o rispecchiava una cultura ed una mentalità, una protofilosofia del tutto "americana"?
Mi sono posto questa domanda perché essa, in fondo, e lo dico a posteriori, potrebbe svelare uno dei segreti meglio custoditi del pragmatismo in generale.
Secondo Menand, «... il pragmatismo è un'analisi del modo in cui pensano le persone - il modo in cui concepiscono un'idea, formulano dei pensieri, prendono delle decisioni. Che cosa ci spinge a fare una cosa quando invece potremmo farne un'altra? La domanda sembra senza risposta, poichè la vita ci pone di fronte a innumerevoli tipi di scelte, e nessuna singola spiegazione può essere valida per ogni caso. Decidere se ordinare un'aragosta piuttosto che una bistecca non è la stessa cosa che decidere se l'imputato è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel primo caso (senza tener conto del prezzo) ci basiamo sui nostri gusti; nel secondo, ci basiamo sul nostro giudizio cercando di evitare le preferenze personali. Ma sapere a quale categoria appartiene un certo tipo di decisione - sapere se è una questione di gusti personali piuttosto che di giudizi impersonali - non rende tale decisione più facile da prendere. "Ordina ciò che ti va di mangiare", dirà il nostro impaziente commensale. Ma il problema è che non sai cosa ti va di mangiare. E' proprio quello che stai cercando di capire. » (7)
Menand sta solo provando a dire che questa specie di indecisione è una prerogativa della libertà e che la stessa libertà, oltre che basarsi sul possesso del gruzzolo necessario ad ordinare un'aragosta, comporta qualche imbarazzo. Che si fa stasera? Essendo libero di fare un sacco di cose, non so proprio che diavolo fare!
Fu William James a portare i maggiori contributi sul terreno dell'introspezione ed a tentare di spiegare perché scegliamo di credere in certe cose e quindi facciamo delle scelte, ma Peirce giocò un ruolo determinante nel delineare il quadro teorico del pragmatismo. Occorreva una filosofia che aderisse in misura più plastica alle condizioni di vita degli americani ed anche ai loro problemi. Tutto il talento filosofico europeo dei secoli precedenti non aveva molto da dire circa il vero motivo del perché si sceglie un'aragosta od una bistecca, e se ciò sia un'espressione di eticità, di abitudini, di gusto, un bisogno profondo o la semplice conseguenza di un'allergia ai crostacei o alla carne di manzo, o persino la conseguenza di una fede religiosa. Gli ebrei non mangiano aragoste e cozze. Naturalmente, il vero problema di Peirce oltrepassava la questione dell'aragosta e si volgeva decisamente al problema di come uscire da uno stato di dubbio ed abbracciare una qualsiasi convinzione su ciò che è meglio fare e su ciò che è più probabile che accada. «L'irritazione del dubbio - scriveva - causa una lotta per conseguire uno stato di credenza. Denominerò Ricerca questa lotta, sebbene si debba ammettere che a volte questa designazione non è molto adatta.[...] Certamente, la cosa migliore per noi è che le nostre credenze siano tali da poter guidare le nostre azioni al vero soddisfacimento dei nostri desideri: e questa riflessione ci farà respingere ogni credenza che non sembri formata in modo da assicurare questo risultato. Ma la riflessione opererà solo sostituendo un dubbio a tale credenza. Perciò, la lotta inizia con il dubbio, e termina con la cessazione del dubbio. Insomma, il solo obiettivo della ricerca è lo stabilirsi di un'opinione. Si potrebbe supporre che questo non basti, e che noi andiamo in cerca non meramente di un'opinione, ma di un'opinione vera. Ma se mettete alla prova questa supposizione, la troverete senza fondamento: infatti, appena raggiungete una salda credenza, siete perfettamente soddisfatti, sia che la credenza sia vera, oppure falsa. [...]» (8)
Infatti non sappiamo che è falsa. Peirce dirà poi che la ricerca è infinita e che il sapere non è sempre cumulativo. Dirà, insomma, che è meglio sentirsi fallibilisti che dogmatici, ed è quanto ci ripetiamo da tempo anche noi.


Una formazione scientifica, una terrificante nevralgia facciale, un caratteraccio, pregiudizi razziali
Nato il 10 settembre 1836, Charles era figlio di un uomo che, insieme al biologo elvetico Jean-Louis-Rodolphe Agassiz , costituiva l'empireo della scienza e delle istituzioni scientifiche americane. Studiò soprattutto chimica e matematica, convivendo fin da giovane con una terrificante nevralgia facciale. Cominciò ad assumere droghe per lenire e sopportare il dolore, divenendo così morfinomane. Brillante come pochi, aveva però molti difetti. Oltre ad essere un impenitente donnaiolo, imperdonabile in una società forse più "vittoriana" di quella inglese, aveva un modo di fare che lo rendeva inviso alla maggioranza delle persone che venivano in contatto con lui. Quando parlava di scienza e filosofia, in fondo nessuno lo capiva, per primi gli studenti che frequentavano le sue lezioni. Lo stesso William James confessò di aver sempre compreso poco o nulla di quanto diceva Peirce, fino a quando non imparò a "prenderlo per le corna", a scuoterlo ed a incanzarlo con domande stringenti che non poteva eludere. A sedici anni Peirce aveva letto ed "imparato quasi a memoria" La Critica della Ragione pura di Kant ed un'altra grande quantità di libri. Terminati gli studi universitari, fu fatto assumere dal padre dal Servizio costiero e geodetico degli Stati Uniti, un impiego che mantenne fino al 1891. Non era il massimo delle sue aspirazioni, ma gli consentì di tirare a campare e dedicarsi a studi di tipo scientifico. Con i suoi atteggiamenti si giocò la carriera universitaria. Con la forza delle sue idee riuscì comunque a tener sempre socchiusa la porta di un possibile ritorno nelle aule. Nell'avversa fortuna riuscì per un certo tempo ad insegnare in alcune università, ad esempio nella John Hopkins di Baltimora e persino ad Harvard, grazie ad incarichi temporanei. Quando, nel 1882, John Dewey arrivò a Baltimora Peirce insegnava fisica all'università ma la cattedra di filosofia era vacante e all'amministratore Gilman non passava nemmeno per l'anticamera del cervello di affidarla a Peirce. Dewey conobbe Peirce, ma si guardò bene dal frequentare i suoi corsi. Non si riteneva all'altezza delle difficoltà che implicava la matematica di Peirce.


Peirce aveva purtroppo ereditato dal padre anche il pregiudizio razziale. Al punto che egli usava disinvoltamente un sillogismo sulla razza nera e l'umanità per dimostrare la scarsa scientificità del sillogismo stesso, considerato allo stato puro come mera tecnica di ragionamento. Se poniamo come premessa che tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti politici, e riconosciamo che i negri sono uomini, ne viene che i negri sono uguali ai bianchi nei diritti politici. Il sarcasmo contro il sillogismo formale voleva essere sferzante, ma divenne un'arma a doppio taglio. Negli ambienti di Harvard e Baltimora cominciava ad essere sconveniente simpatizzare per simili idee.
La stranezza che tuttora avvolge la personalità di quest'uomo è che egli fu sostanzialmente un conservatore che gettò le basi per un pragmatismo progressista e democratico, alla cui basa stava il valore oggettivo della conoscenza verificata intersoggettivamente, e quindi socialmente. Così, infatti, lo intese John Dewey, che sostanzialmente riprese la sua metodologia., e così la intese molto più recentemente Jürgen Habermas per la sua teoria dell'agire comunicativo. Tutte le idee di Peirce erano a scoppio ritardato, tanto che solo negli anni Trenta del Novecento i suoi scritti cominciarono a circolare. Comunque sia, fu lui e non Bertrand Russell a smontare per primo l'immagine del filosofo-eroe che conquista da solo nuovi continenti del sapere. Dovrà sempre confrontarsi col sapere degli altri, specie i "continentali" delle nostre parti, e dovrà sempre riconoscere che il suo stesso sapere iniziale era cultura socialmente circolante.

Cosa si può dire di "vero" in un mondo di mutamenti?
Teorie cosmologiche e razziste a parte, il contributo di Peirce allo sviluppo della riflessione filosofica fu rilevante, se non decisivo, sotto molteplici aspetti. Egli diede un contributo rilevante alla "logica delle relazioni", e fu anche abbastanza modesto nel riconoscere che alcune acquisizioni in questo campo erano dovute al lavoro d'equipe con i suoi allievi.
L'evento che produsse una vera e propria svolta nel suo pensiero fu la pubblicazione dell'Origine della specie di Darwin nel 1859. Libro che fece profonda impressione su Peirce. Se la teoria della selezione naturale mediante variazioni fortuite era corretta, bisognava superare definitivamente un modo di pensare meccanicistico. Sicchè - scrive Menand - «Parole come "causa" ed "effetto", "certezza" e "caso", persino "duro" e "molle" non possono essere intese come designazioni di entità o proprietà fisse e discrete; vanno intese come come designazioni di punti su una curva di probabilità, come supposizioni o previsioni anziché come conclusioni. Altrimenti, gli scienziati corrono il rischio di reificare i concetti, di attribuire un'essenza inalterabile a fenomeni che sono in continuo mutamento.» (9) Peirce fu il primo filosofo a intuire tutte le implicazioni di questo problema, e la sua filosofia matura (la teoria dei segni e la "logica delle relazioni") ne rimarrà impressionata. Il problema, come suggerisce Menand, si riduce alla seguente domanda: che cosa significa asserire che un'affermazione è "vera" in un mondo sempre soggetto "a mutamenti"?"
Se Kant aveva pensato che la convinzione pragmatica fosse uno dei tanti tipi possibili di convinzione, Peirce pensò, ad un certo punto, che essa fosse l'unica possibile. Menand osserva che in una realtà che non si ripete mai con esattezza, tutte le convinzioni sono una scommessa. Probabilmente esagera, perché ci sono cose che non cambiano e convinzioni che rimangono, tuttavia il punto da afferrare è proprio questo: ci sono troppe situazioni che cambiano per giustificare il mantenimento di convinzioni immutabili. L'idea del pragmatismo maturata da Chauncey Wright, William James, Oliver Wendell Holmes, cioè i membri più influenti del Circolo metafisico, implicava però una dottrina che Peirce contestava apertamente. James e Wright, in sostanza, erano nominalisti. Essi postulavano, alla maniera dei nominalisti medioevali, che non vi fossero "universali" e che la realtà fosse una concatenazione di cose uniche, nominabili semplicemente per convenzione linguistica. Peirce dapprima esitò di fronte a questa impostazione. «Credeva ciò che il padre gli aveva insegnato a credere - dice Menand -: che il mondo era fatto per essere conosciuto dalla mente umana, che - per usare le parole di Benjamin Peirce - " i due combaciano meravigliosamente". Pensiamo per generalizzazioni; ecco cosa sono le inferenze: verità generali tratte dall'osservazione di eventi particolari. Nell'universo devono pertanto esistere cose cui le nostre generalizzazioni corrispondono.» (8)
I nominalisti sbagliano quando dicono che la convinzione è un prodotto meramente individuale. E' ovvio che ogni convinzione sia individuale e quindi imperfetta, non rispecchi la realtà più di quanto possa fare un piccolo specchio nei confronti di un grande fiume. Però ci sono convinzioni socializzate, frutto di un'interazione, e se è vero che due osservatori imparziali non potranno mai effettuare le medesime rilevazioni, è anche vero che osservazioni ripetute, quindi la media dei loro risultati, finirà per convergere verso un punto. Riferendosi in particolare alle osservazioni astronomiche, Peirce ebbe così buon gioco a sentenziare: «I pregiudizi personali o altre peculiarità delle generazioni di uomini possono posporre a tempo indeterminato una concordanza riguardo a tale opinione, ma nessuna volontà o limitazione umana può fare in modo che il risultato finale di una ricerca sia diverso da quello che esso è destinato ad essere. La realtà deve allora essere identificata con quanto sostiene l'opinione vera e fondamentale.» (10)


La triste parabola finale
Peirce rese un buon servizio all'istituto per cui lavorava. Non si dimise. Fu licenziato il 31 dicembre 1891. Ovviamente da un "buon" cittadino ed "onesto" funzionario di nome Thomas Mendenhall, probabilmente poco più di un deficiente acculturato e quindi tronfio. Ignote le cause. Esclusa quella di "scarso rendimento", rimangono diverse ipotesi, ma tutte attengono alla sfera "politico-morale". Mendenhall era amico e pupillo di Simon Newcombe, il tizio che aveva fatto la spia al consiglio d'amministrazione della John Hopkins University spifferando le avventure e le disavventure extraconiugali di Peirce nonché elencando tutti i suoi stravizi. Peirce passò per "drogato" (e lo era), "prodigo" (e lo era), "sessualmente disordinato" (e lo era), "rovinafamiglie" (e lo era), un "immorale", e non lo era, almeno in un senso squisitamente kantiano.
«Era stato per trent'anni un dipendente del governo federale, ma non esisteva nessun sistema pensionistico. Suo padre era morto. Peirce sapeva di aver perso la sua ancora di salvezza. Il 1 gennaio 1892 cominciò a scrivere un diario. "Mi aspetta un anno faticoso, un anno di difficoltà" scrisse. "Credo che ben presto sarò completamente rovinato, sembra inevitabile. Ciò che devo fare è stringere i denti e compiere il mio dovere, se necessario patendo la fame. Una cosa devo mettermi bene in testa: dovrò guadagnare qualcosa ogni giorno."» (11) E Peirce si diede da fare, anche se la vita gli aveva insegnato di essere uno sconclusionato, capace di iniziare qualunque cosa, ma assolutamente incapace di condurla a buon termine. Nell'87 aveva comprato una casa e duemila acri di terreno a Milford, in Pennsylvania, e lì si rifugiò con la moglie, cercando di far rendere i possessi. Ma Peirce il pragmatista non era un contadino e non aveva molto senso pratico, dovette assumere lavoranti e non aveva i soldi per pagarli. Di qui grane infinite. Finì persino con l'essere arrestato. Progettò una centrale idroelettrica, ma l'impresa scoppiò come una bolla di sapone; lanciò la commercializzazione di un sistema di candeggio brevettato, ma fu probabilmente raggirato dai soci. Ideò una scuola di logica per corrispondenza, ma rese assai poco. Il fratello James Peirce, decano di Harvard, scrisse a Gilman della Hopkins supplicandolo di dare una cattedra a Charles, ma invano. Quando Peirce cadde in depressione, nel 1893, l'unico suo impiego redditizio era presso il "Nation", per il quale scriveva recensioni di libri anonime.
Pur nelle gravissime difficoltà rimase uno spendaccione. «Nel 1894 fu denunciato dai lavoratori che aveva assunto per occuparsi della sua tenuta pur non avendo i soldi per pagarli. James Peirce pagò la cauzione accendendo un'ipoteca sulla proprietà. Ma i creditori non gli diedero tregua e, nel 1895, fu accusato di percosse aggravate da uno dei suoi dipendenti e venne emesso un mandato di arresto nei suoi confronti. Trascorse a New York la maggior parte dei due anni successivi, alla macchia, elemosinando i pasti al Century Club di cui era ancora membro e dormendo a volte nelle strade. Quando si recava a Milford per controllare la sua proprietà, ci andava travestito.» (12)
Ciò nonostante riuscì ancora a graffiare come filosofo anche all'inizio del nuovo secolo. Forse più che in quello precedente. William James, che voleva sinceramente aiutarlo e che continuava a credere in lui, lo costrinse a scrivere saggi per un libro completo. Lo implorò di affrontare tematiche "criuciali". Desiderava che Peirce tornasse in auge non per compassione umana ma per meriti strappati sul campo. E non si illudeva. Ma Peirce, in un rigurgito di orgoglio (non solo filosofico), disse chiaro e tondo che tutto il suo pensiero era "cruciale". Esempio tipico dell'incomprensione tra i due, anche se James supponeva, ormai, di aver finalmente compreso Peirce. "La mia filosofia - rispose Peirce alle sollecitazioni dell'amico - non è un'idea che 'trabocca' dalla mia mente; è una ricerca seria." Il signore dei segni passò così il segno, per l'ennesima volta. Ma James, brav'uomo davvero, lo sopportò ancora, fino alla fine, prendendosi comunque il giusto merito di averlo saputo sollecitare e spremere.
Morale? Non basta dirsi pragmatisti per avere senso pratico e riuscire nella vita. Bisogna darsi delle regole, seguire una condotta, saper vincere sé stessi e saper convincere gli altri con argomenti solidi, buoni esempi e non solo con teorie intelligenti. Peirce non produsse granché in campo morale, cioè nel campo del rapporto corretto con il prossimo. Forse, non ci pensò nemmeno granché. Ma ebbe anche tanta sfiga, non bisogna scordarlo.

La grande eredità semiotica
Credo che il lascito più importante di Peirce sia la riflessione sul segno. Nicola Abbagnano ha mostrato come Peirce abbia «riespresso la teoria stoica del significato in termini che le hanno dato diritto di cittadinanza nella logica moderna. [...] Ciò che Peirce intende per interpretante-fondamento è ciò che gli stoici intendevano complessivamente per significato. Ciò che Peirce chiama oggetto è ciò che gli stoici chiamavano cosa: con la correzione che l'oggetto può essere una cosa qualsiasi, percepibile o immaginabile o anche, in qualche modo non immaginabile.» (13)
Riflettere sul "segno" porta a porsi il problema della rappresentazione cosciente, quindi ad entrare in rapporto con un "autore" che ha lasciato una serie di segni avendo l'intenzione di usarli come medium per comunicare qualcosa a qualcuno: un lettore, o come lo chiamò Peirce, un interpretante. E' un problema importante per la filosofia anche sotto l'aspetto fenomenologico ed ermeneutico, ma investe anche altre discipline, essendo il fondamento di ogni tipo di scrittura, matematica compresa. Ma nella matematica, come del resto nella logica formale, la lettura dei segni non consente interpretazioni da secondo Wittgenstein o quineane. I segni mantengono il loro significato in qualsiasi contesto ed è necessario che sia così, altrimenti non si capisce più nulla. Una radice quadrata è una radice quadrata. La lemniscata indica l'infinito. < significa minore di.
Ciò vuol dire che un segno, che è pur sempre una cosa, ma una cosa molto particolare in quanto graficata da esseri umani aventi l'intenzione di veicolare un messaggio, ne indica un'altra, cioè il contenuto del messaggio. La cosa del segno, quindi, non vale per la sua semplice presenza. Vale se rimanda all'oggetto, cioè al messaggio che vuole comunicare. Dunque, il segno è l'inizio o la fine di una relazione, come cosa di per sé ha il valore relativo che potrebbe avere un prezioso volume scritto in sanscrito per chi non conosce la lingua, o di un foglietto di carta con il conto del supermercato. Peirce ha negato che il segno esprima una relazione "secca" tra il significante (il segno stesso) ed il significato. Per comprendere il senso del segno, e quindi anche il suo valore, è necessario istituire un triangolo, una triade, che nei fatti diventa un circolo, un circolo di circolarità in senso hegeliano, ovvero un processo nel quale è la circolazione generale che tiene insieme la relazione. Il segno assume una rilevanza solo per chi sa che è un segno lasciato dall'uomo intenzionato a comunicare un messaggio, e non dalla pioggia, dal sole o da un animale di passaggio. Per carità, anche le impronte sono segni, ma non sono intenzionali. Potessero, gli animali non lascerebbero traccia alcuna, come quei criminali intenzionati a compiere il delitto perfetto.

note:
1) la citazione in Louis Menand - Il circolo metafisico - Sansoni 2004 / Le parole tra virgolette sarebbero di Dickinson Miller.
2) Louis Menand - Il circolo metafisico - Sansoni 2004
3) anche qui la citazione è tratta da Menand
4) idem
5) Rosa M. Calcaterra - Il pragmatismo americano - Laterza 1997
6) idem
7) Louis Menand - Il circolo metafisico - Sansoni 2004
8) Ch. S. Peirce - Il fissarsi della credenza - in Le leggi delle ipotesi - Bompiani 1984
9) Louis Menand - Il circolo metafisico - Sansoni 2004
10) Ch. S. Peirce - Of Reality - saggio del 1872 citato ovviamente da Menand

11) Louis Menand - Il circolo metafisico - Sansoni 2004. Qui lo storico puntiglioso aprirebbe una doverosa parentesi, prima chiedendosi quale stato al mondo avesse nel 1891, un "sistema pensionistico"; poi evidenziando che, proprio nel 1890, la maggioranza repubblicana al Senato aveva votato il Dipendent Pension Bill che raddoppiò il numero degli aventi diritto ad una pensione, aumentando anche il corrispettivo annuo. Si veda in merito Maldwyn A. Jones - Storia degli Stati Uniti d'America - Bompiani 2001 (RCS 1984)
12) idem
13) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - vol. VI - TEA 1995
gm - 5 novembre 2005