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Amartya Sen - La democrazia degli altri - Mondadori 2004
di Guido Marenco
Se credete che Silvio Berlusconi avesse ragione quando ha parlato di scontro tra civiltà, commettendo però una gaffe colossale sul piano politico e diplomatico, questo libro fa per voi. Potreste cominciare a capire che le civiltà sono molto più simili (in un senso) e molto più diverse (in un altro) di quanto si crede comunemente.
Amartya Sen, premio Nobel per l'economia, da tempo è uno dei più lucidi interpreti della globalizzazione. Viene dal Bengala, ha insegnato a Cambridge ed ora si è trasferito ad Harvard.
E' un convinto assertore della democrazia quale discussione pubblica, che è poi il vero pregio della democrazia. Non il diritto di voto, non il diritto ad essere eletti per rappresentare idee, persone o lobbies, ma il diritto di esprimere opinioni e proposte, e, quando occorra, anche protestare. Questa è la differenza tra una vera democrazia ed una solo formale, ed anche un regime autoritario. Da quando mondo è mondo, inevitabilmente, le società libere, dove le opinioni circolano insieme alle informazioni, e queste ultime vengono da più fonti, sono meno esposte al rischio di crisi e catastrofi. Terremoti ed epidemie comprese. Se in Cina ci fosse stata democrazia, dice Sen, la sars non avrebbe fatto i danni colossali che conosciamo. Criminale quel ministro alla sanità che nascose le informazioni. Mai sufficientemente criticato quel regime e quel costume politico che rese possibile la cosa.

Ma la democrazia, così intesa, dice Sen, non è affatto un'invenzione occidentale. Esisteva in Africa, in Cina, nell'India dell'imperatore buddhista Asoka e persino in quella dei Moghul,: esisteva anche quando Alessandro giunse in India.
Ok, la tesi è forse un po' esagerata, anche se non del tutto fantasiosa. Difficile da dimostrare. Va comunque verificata. Sen non dice cosa sbagliata quando afferma che la democrazia così intesa non è incompatibile con la natura, il carattere e le credenze filosofico-religiose degli asiatici e degli orientali in particolare. In effetti questo è un pregiudizio diffuso. «Tanto la tolleranza quanto l'apertura alla discussione pubblica sono spesso considerati come caratteristiche specifiche - e forse uniche - della tradizione occidentale. Fino a che punto è corretta questa tesi? Indubbiamente la tolleranza è stata in gran parte una caratteristica significativa della politica occidentale (tralasciando le estreme aberrazioni della Germania nazista e l'intollerante amministrazione degli imperi inglese, francese e portoghese in Asia e Africa). Tuttavia qui non c'è affatto un grande spartiacque che divida la tolleranza occidentale dal dispotismo non occidentale.» (1)
Esempio: Maimonide filosofo, perseguitato dalla cristianità in Europa, trovò rifugio alla corte del Saladino.
Cordoba mussulmana rivaleggiava con Bagdad per il titolo di luogo più civilizzato della terra.
Quando Giordano Bruno fu bruciato, in India l'imperatore moghul Akbar, " proclamava la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire il dialogo tra gente di fede diversa."
«Non bisogna però cadere nella trappola opposta e sostenere che ci fosse in generale più tolleranza nelle società non occidentali. Non si può fare alcuna generalizzazione di questo genere. [...] Quella che va corretta è la tesi, frutto solo d'ignoranza, dell'eccezionalismo occidentale in materia di tolleranza.» (1)

Ed a questo punto incontriamo una citazione molto intrigante, almeno per me.
Nel III secolo a.C. ebbe luogo a Paliputra, l'odierna Patna, un concilio buddhista sotto il patrocinio dell'imperatore Asoka. Ne seguì (suppongo, qui Sen non è chiaro) l'editto di Erragudi, un vero e proprio manifesto di etica della libertà e della tolleranza:

La crescita degli elementi essenziali del Dharma [il comportamento corretto] è possibile in molti modi. Ma la sua radice sta nel misurato controllo delle parole, in modo che non ci sia l'esaltazione della propria setta o la denigrazione di altre sette in occasioni inappropriate, e si deve mantenere un atteggiamento moderato anche nelle occasioni appropriate. Al contrario, le altre sette dovrebbero essere debitamente onorate in ogni modo in tutte le occasioni... Se una persona agisce altrimenti, non soltanto insulta la propria setta, ma danneggia anche le altre. In verità, se una persona loda la propria setta e disprezza le altre allo scopo di glorificarla solo per il suo attaccamento ad essa, agendo in quel modo insulta profondamente la propria setta.
Dopo questi chiarimenti utili a capire che nelle culture e filosofie degli altri esiste un quantum di tolleranza non inferiore al nostro, emerge la vera importanza del lavoro di Sen.
Egli comincia a discutere e quindi a contestare che l'efficienza sia possibile solo a danno della libertà e della democrazia. Idea, si badi, che si trova sia in Occidente che in Oriente. Idea che è recentemente riaffiorata in un lavoro di Lee Kuan-Yew, ex-presidente di Singapore, ma che potremmo ritrovare in molte delle idee che attualmente circolano tra falsi liberali e dietro le quinte dei neoconservatori.
«Di fatto - scrive Sen - non c'è alcuna testimonianza convincente che il governo autoritario e la soppressione dei diritti civili e politici favoriscano davvero lo sviluppo economico. Le ricerche sul campo e gl studi di carattere sistematico (come quelli di Robert barro o di Adam Przeworski, per esempio) non offrono alcun sostegno concreto alla tesi dell'esistenza di una contraddizione di fondo tra diritti civili ed efficienza economica. Il carattere e l'andamento del rapporto sembrano dipendere da molti altri fattori, e mentre alcuni studi statistici riconoscono un rapporto leggermente negativo, altri ne individuano uno molto positivo.» (1)

Queste osservazioni sono importanti perché molti attribuiscono gli attuali successi della Cina, di Singapore e della Corea del Sud (solo la Cina è nominalmente comunista, bah!) alla ferrea disciplina ed all'autoritarismo. In Italia sembrava fino all'altro ieri che l'articolo 18 fosse un ostacolo allo sviluppo ed all'efficienza.
Linea che è costata la sconfitta di D'Amato, un sacco di quattrini per gli scioperi, e che ha portato Luca di Montezemolo alla presidenza di Confindustria ( e questa è una buona notizia!)
La tesi di Sen è che libertà e democrazia siano valori in sé e quindi, anche se fosse vero che l'autoritarismo garantisce una maggiore efficienza, non dovremmo mai avere dubbi su cosa scegliere.
Ma, ciò non è. Solo la democrazia e la libertà portano alla responsabilizzazione diffusa, che è anche la chiave per accettare "la disciplina del lavoro" e quindi ad una maggiore efficienza, quella garantita dalla responsabilità dei produttori

Sono tesi già note, ma ripassarle e ripensarle alla luce di quanto va accadendo è certamente utile.
(1) citazioni dal libro
gm - 11 marzo 2004