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Edouard Le Roy (1870-1954)
Edouard Le Roy succedette a Bergson alla cattedra al Collège de France. Fu come Bergson critico della scienza contemporanea, ma si inserì nel dibattito tra epistemologi con autorevolezza e originalità, estremizzando tutte le tesi del convenzionalismo di Duhem e Poicarè, ed assumendo alcune delle posizioni di Mach. Probabilmente, questo atteggiamento non era del tutto fine a sé stesso. Non aveva cioè il solo scopo di ricondurre l'impresa scientifica entro i limiti che garantiscono al sapere validità ed efficacia, ma, come Bergson si proponeva di svalutare tale sapere in chiave antipositivistica, a vantaggio del pensiero intuitivo, nonché della fede religiosa. In proposito, scriveva Nicola Abbagnano: «La critica della scienza è perciò in lui una svalutazione totale del pensiero discorsivo. Le Roy ritiene che il merito di Bergson sia stato quello di aver affermato la subordinazione dell'idea alla realtà e della realtà all'azione e perciò di aver visto nell'azione il principio e il fine delle cose e nell'intelligenza solo una luce che ci guida e non già una forza che basti a sé stessa.» (1)
Metodologicamente sembra corretto dare proprità alla critica della scienza e successivamente esporre le concezioni religiose di Le Roy, il quale fu un modernista, e quindi in odore di eresia rispetto alla tradizione cattolica, specie dopo l'enciclica Pascendi Dominici gregis del 1907.
Le Roy muove da una radicalizzazione del convenzionalismo. Se per Poincaré non tutte le scienze erano convenzionali, per Le Roy si tratta di intendere "la natura puramente linguistica dei fatti scientifici". I "fatti scientifici" non sono un raffinamento dei "fatti bruti" nei quali ci imbattiamo quotidianamente, ma costruzioni mentali prodotte dagli apparati concettuali di una determinata tradizione scientifica, la quale è divisa per sezioni di specialisti. Col passare del tempo cambiano i fatti considerati ed utilizzati nel controllo delle teorie. E diventa così sempre più chiaro che le leggi scientifiche non sono che comode abbreviazioni atte a designare un insieme di fatti scientifici molto più complessi. Per Le Roy, è soprattutto importante notare che le leggi non vengono mai prese in considerazione come proposizioni isolate, ma invariabilmente inserite in sistemi teorici di grande complessità.
Tuttavia, è incontestabile che lo stesso insieme di "fatti" e di "leggi" nominati e richiamati in un sistema, può essere a pieno titolo richiamato anche in un altro, del tutto differente. Pertanto, per Le Roy, è vero che ogni sistema non fa altro che definire implicitamente gli oggetti di cui ritiene di parlare, oggetti dei quali non è sarebbe facile esibire una descrizione fattuale e realistica, e che tuttavia vengono introdotti per economicità (secondo Mach) e comodità (secondo Poincaré). Tutto ciò, ad avviso di Le Roy, sarebbe sufficiente a convincerci che l'impresa scientifica da come risultato un insieme di costruzioni generosamente arbitrario. Tale arbitrarietà, tuttavia, sarebbe per Le Roy conseguenza della "libertà" dello spirito umano. Nemmeno l'utilità pratica e il successo tecnologico avrebbero potuto limitare o vincolare tale arbitrio
Sia Poincaré che Duhem furono non poco sconcertati da una simile interpretazione maggiorata delle loro posizioni, aggravata dal fatto che per Le Roy la scienza porta alla descrizione di un mondo "morto" e "rigido", dominato dalla necessità solo in quanto privo della libertà. Alla scienza, proprio per questo suo carattere, sfugge l'essenza della libertà. Sarebbe compito della filosofia correggere questo errore della scienza. Rifacendosi a Bergson, Le Roy crede nell'evoluzione creatrice, ma completa tale pensiero suggerendo che l'apparizione dell'uomo sulla Terra coincida con l'inizio del regno della Noosfera, cioè il dominio del progresso spirituale. Ciò è stato possibile grazie al potenziale creativo del pensiero intuitivo, il pensiero-azione, l'immediata esperienza spirituale propria della vita morale.
Anche la vita religiosa dipende dal pensiero intuitivo e non hanno molto senso le abituali dimostrazioni logico-metafisiche dell'esistenza di Dio come necessaria.
«L'affermazione di Dio - scrive Le Roy nel Problema di Dio - è l'affermazione della realtà morale come realtà autonoma, indipendente, irriducibile, e anche forse come realtà prima.» Nicola Abbagnano evidenzia un punto importante quando osserva: «... Le Roy dichiara egualmente false le concezioni dell'immanenza e della trascendenza di Dio. Certamente, noi non conosciamo Dio che in noi stessi o nel mondo, e mai in sé stesso, e da questo punto di vista è immanente. Ma Dio si rivela nel mondo e in noi "mediante un appello di trascendenza, mediante un impulso a dilatarci senza fine, mediante un'esigenza di realizzazione indefinitamente progressiva che oltrepassa ogni realtà bell'è fatta"; e in questo senso è trascendente. La trascendenza di Dio è in realtà per noi "una vocazione di trascendenza"; e il problema vero non è quello della sua trascendenza, ma piuttosto quello della caduta per la quale l'uomo giunge ad essere in qualche misura separato da lui.» (2)
Le Roy crede che Dio abbia una personalità, un carattere. L'uomo può parlare con questo Dio come se fosse davanti ad una persona, un Padre. Noi quasi cerchiamo in lui la nostra personalità. Nel ritrovarla, troviamo quasi la certezza del nostro essere nella verità.
Dopo aver rivendicato il diritto dei laici ad occuparsi di problemi religiosi "con amore e assiduità", Le Roy affrontò con decisione e nuovo acume la questione dei dogmi, constatando come la nozione stessa di dogma ripugnasse alla cultura contemporanea, in particolare a quella scientifica e positivista. E scrisse: «Si potrebbe osservare che le proposizioni dogmatiche non sono affatto senza prove. E in realtà è stata più volte tentata una dimostrazione indiretta. Sembra sussista qualche analogia tra questi tentativi di dimostrazione e il comportamento del matematico, che si limiti a volte ad enunciare teoremi di semplice esistenza, e a quello del fisico che accetta spesso fatti di cui è incapace di dare una spiegazione teorica, o a quello dello storico che attinge le sue conoscenze sulla semplice base della testimonianza. Ma un'analogia di questo genere è puramente fittizia. Quando un matematico si contenta di stabilire un teorema di semplice esistenza, vale a dire un teorema affermante l'esistenza di una soluzione inaccessibile in sé stessa, questo matematico ragiona altrettanto rigorosamente in questo punto, come in tutti gli altri della sua scienza. Sul terreno dei dogmi siamo in tutt'altra atmosfera. Occorrerebbe aver dimostrato direttamente che Dio esiste, che Egli ha parlato, che Egli ha detto questo e quello, e che noi possediamo oggi il suo genuino insegnamento. Il che equivale a dire che bisognerebbe aver risolto, attraverso un'analisi diretta, il problema di Dio, quello della rivelazione, quello dell'ispirazione biblica, quello dell'autorità della Chiesa. Ma tali questioni sono appunto del medesimo genere che le questioni puramente dogmatiche, vale a dire questioni a proposito delle quali è letteralmente impossibile addurre ragionamenti comparabili a quelli del matematico. Similmente, quando un fisico accetta un fatto di cui non sa dare una speigazione teorica, questo fatto corrisponde, almeno per lui, ad esperienze precise, a manipolazioni praticamente eseguibili. In una parola, a un gruppo di gesti di cui ha una conoscenza diretta. Nulla di simile invece sul terreno della dogmatica cristiana. Infine lo storico è nella disposizione di spirito che porta a ricevere la verità sulla base delle testimonianze pervenutegli, perché si tratta di fenomeni del medesimo genere cui appartengono i fenomeni di cui egli è, d'altro canto, spettatore diretto. Quando invece si tratta di dogmi, noi abbiamo a che fare con fatti misteriosi, singolari, sconcertanti, a cui non corrisponde nulla di analogo nella nostra esperienza umana. Noi cerchiamo dunque analogie per attutire il senso di diffidenza che certa cultura moderna sembra provare al cospetto delle asserzioni dogmatiche. Diffidenza che è acuita e corroborata dal fatto che le formule dogmatiche appartengono molto spesso al linguaggio di un sistema filosofico particolare, che non si lascia sempre agevolmente decifrare e che spesso non si sottrae neppure al pericolo dell'equivoco, se non delle contraddizioni. C'è qui anzi la difficoltà più grave che fa recalcitrare tanti al cospetto dei dogmi a cui non riescono ad attribuire un significato pensabile. Infine sta di fatto che i dogmi costituiscono nel loro insieme un fascio di proposizioni inconguagliabile con l'insieme delle scienze positive. Né per il loro contenuto, né per la loro natura logica, le formule dogmatiche appartengono al medesimo piano di conoscenza cui appartengono le altre normali proposizioni dell'umano sapere.»
Rispetto a questo livello di considerazioni, la risposta di Le Roy alla sua faticosa domanda, ovvero "come convincere un non-credente?" può essere considerata deludente ma, per un altro verso stimolante. Secondo Le Roy è solo sbagliato concepire i dogmi in modo intellettualistico. Sia i cattolici che i loro avversari non ne considerano il valore pratico e morale. Il dogma intellettualistico assomiglia così all'enunciazione di un teorema indimostrabile. E' inevitabile che dall'altra parte, cioè tra atei e scettici, si concluda per l'illegittimità dei dogmi, dal momento che li si vuole rivestire di una raffigurazione teoretica. Per le Roy è contraddittorio tentare in paritempo di fare del divino una realtà suscettibile di trascrizione concettuale e, insieme, tentare di garantire l'inesplorabilità del mistero. Proseguendo, Le Roy mostrava come nell'insegnamento della Chiesa si fosse finito spesso col confondere i dogmi propriamente detti con opinioni particolari o particolari sistemi teologici, raffigurazioni intellettuali secondarie e accessorie.
Per Le Roy il dogma deve avere un senso puramente negativo: è la condanna di posizioni erronee, non la determinazione di una verità. Come esempio, egli richiama la Resurrezione del Cristo. Affermando questo dogma che è alla base del "credo cristiano" non si pretende di dire alcunché su quale sia stata la "meccanica" e la "fisiologia" di questo evento miracoloso, né di quale specie sia la seconda vita del Cristo. Il dogma della resurrezione non offre una simile concezione; semmai vuole escludere pseudo-concezioni e ci vuole assicurare che non è stato posto alcun termine all'azione di Cristo sulle cose del mondo. Egli vive ancora in mezzo a noi., non come un maestro scomparso (comunque fecondo e vivo), ma è il nostro coetaneo. La sua morte non ha rappresentato la cessazione della sua attività.
Secondo Le Roy, l'unico modo per studiare i dogmi è il metodo storico. E' impossibile comprenderli e giustificarli al di fuori del loro contesto, perché il loro senso genuino si è dissolto man mano che la storia avanzava. Con ciò è evidente la convergenza con Loisy.
C'è, tuttavia, un altro punto da evidenziare: se il dogma ha un valore eminentemente negativo sul piano intellettuale, ha però un valore pratico e positivo rispetto all'organizzazione del pensiero in quanto detta norme e mostra i doveri dell'attività pensante. Infine, secondo Le Roy, si tratta finalmente di capire che il cristianesimo non è un sistema di filosofia speculativa, ma regola di vita, un insieme di di mezzi pratici per conseguire la salvezza. Solo così, molte delle difficoltà che si presentano nell'opera di evangelizzazione vengono a cadere. Infatti, non siamo più di fronte ad uno scandalo logico, i predicatori cristiani non sono più i portatori di una follia, ma quelli che affrontano in modo forte e deciso una questione che riguarda da vicino il rapporto tra pensiero ed azione.
(1) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - vol.VI - TEA 1995
(2) idem